rivista anarchica
anno 46 n. 406
aprile 2016





La storia narrata

Dante cantastorie

Narrazione, ci torno spesso su queste pagine. Se vi è una grande tradizione abbandonata che non è un problema estetico, un avvicendarsi di mode e consuetudini, è questa: la vocazione narrativa della canzone italiana.
È una vocazione profonda, radicata nelle ossa della poesia popolare, conosciuta e studiata negli ambienti accademici, ostaggio e preda degli armadi chiusi a tre mandate di chi costruisce carriere e potere sul sapere di tutti.
È una vocazione però tristemente evitata dai cantautori delle ultime generazioni: favole o racconti morali che fossero “Marinella” e “Dolcenera”, “La locomotiva” e “Piazza Alimonda”, “Titanic” e “Il bandito e il campione”, assolvevano con stile mitico, ironico, distaccato o metaforico all'intenzione di cantare le storie ancora presente nella generazione di De André, Guccini, De Gregori, per fare opera di poesia impegnata nel reale, fare il punto sulla memoria.
Un popolo che non ha un nutrito numero di storie condivise è un povero ammasso. Leggendo il più colto e da sempre il più popolare, il più grande poeta della nostra storia letteraria Dante Alighieri, si ha l'impressione che egli compenda continuamente la minuta storia recente e, se invece di interrogare Cleopatra o Didone, nel quinto canto dell'”Inferno”, si attarda su una torbida vicenda di corna e sangue della cronaca minuta, o più avanti nel quinto del “Purgatorio”, distillando sei soli versi, perpetua ab aeterno la memoria dell'ancor più misteriosa Pia dei Tolomei (e non cederemo alla tentazione di costruire un ponte col moderno “femminicidio”), lo fa anche perché i suoi versi si rivolgevano a un uditorio (era recitato nei consessi popolari, e lo sapeva benissimo...) in grado di cogliere i suoi più evasivi accenni.
Erano genti in grado di recepire e perpetuare le storie, quelle di Dante... e noi, che di loro saremmo gli eredi? Che patrimonio comune abbiamo? Quale scudo ci protegge dalla ruggine dell'oblio generalizzato?

Muratori Carlo cantatore siciliano

Vi voglio segnalare la più recente opera di uno dei migliori cantori d'Italia, lui si chiama Carlo Muratori, e il disco di recentissima uscita si chiama “Sale”.
Muratori è un classico appartato della canzone italiana attivo sin dalla metà degli anni '70 con un gruppo folk come i “Cilliri”, poi autore, interprete e compositore di dischi sempre nuovi e sempre intinti nella grazia di un uomo di grandi intuizioni, generosa vena e sapienti collaborazioni (felicissima quella con il genio dell'organetto Riccardo Tesi). Muratori è un non-gattopardo, uno che non ricorre agli aggiustamenti per vivere tranquillo, un uomo di cortesia d'altri tempi, ma nei cui occhi brilla la fiamma di chi ha imparato a vivere con la propria passione e il proprio orgoglio provando a non farsene bruciare, a volte lottando a volte soffrendo, sempre in rotta con sé e col mondo. Di questa Sicilia popolare - culla di poesia e insieme vaso di Pandora - Muratori è uno degli ambasciatori più titolati, con le gambe ben piantate sull'Isola, ma non prigioniero dello Stretto (i suoi versi in Lingua o Dialetto suonano altrettanto bene) e con una consapevolezza musicale che si arricchisce nel confronto.
Il suo disco “Sale” esce per un prestigioso editore di memorie e documenti del repertorio tradizionale - Squilibri - che fa libri ricchi di supporti allegati (CD e DVD) e a cui dobbiamo, fra le altre, due opere di rilevanza mondiale “Son sei sorelle”, la raccolta definitiva delle registrazioni tradizionali di Roberto de Simone, e “Sentite buona gente” il libro e il video di uno spettacolo fondamentale, una vera scoperta di Schliemann dell'etno-musicologia.
Squilibri non è però prettamente un'etichetta discografica, e questo già un senso suo ce l'ha. “Sale” di Carlo Muratori si propone così come il taccuino di un viaggio dentro e fuori di sé, per la Sicilia interiore e per quella esteriore, un'opera di grande maturità e calma bellezza. In questa Rubrica non faccio recensioni di dischi, nemmeno di quelli che mi sembrano maiuscoli, e a questa piccola regola non derogo, se parlo di “Sale” è perché il disco culmina in un trittico di canti che rientra pienamente nel nostro discorso sui conti in musica, le storie condivise alla periferia dell'Impero e delle vulgate comuni.

Carlo Muratori

Sale, sangue e pistacchi. La memoria di Bronte

Il film aveva reso nota la vicenda sin dall'anno della mia nascita (1972) per le generazione generosa dei sessantottini, tanto che ricordo che mio padre me ne parlava come di un potente antidoto contro la rilucente leggenda garibaldina che, vista da noi del Sud, non è poi così cristallina, “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” di Florestano Vancini. Nell'estate del 1860, mentre Garibaldi si appressa, cavalcando incontrastato per tutta la Sicilia, alla fine di un Regno e (ahimé) all'inizio di un altro, le popolazioni contadine di alcune città, oppresse da secoli di una servitù indegna, scoppiano in violente jacqueries sgozzando alcuni possidenti e - come da proclami del Generale guerrigliero - spartendosi le terre. A Bronte si insedia una dualità fra un'anima più sottoproletaria e violenta incarnata dal carbonaio Calogero Gasparazzo e una più borghese e pacificatrice incarnata dall'avvocato Nicolò Lombardo, antico patriota liberale. Ma il luogotenente di Garibaldi Nino Bixio - inviato a reprimere le rivolte e forse anche a tranquillizzare i latifondisti inglesi della locale “ducea di Nelson”, come inglesi erano anche gli “sponsor” dello sbarco a Marsala - insedia un tribunale di guerra che con un processo farsa condanna a morte proprio i meno violenti dei ribelli fra cui l'avvocato Lombardo e persino lo scemo del paese Nunzio Fraiunco, la cui unica colpa era stata battere sul tamburo e preconizzare la fine del potere dei “cappelli” (i possidenti).
Per tutto il disco “Sale” di Carlo Muratori si sbriciola poco a poco la materia salina che dal mare si deposita sulla terra, che ristagna nelle grotte, che si fa parola e canto. “Sale” in moltissimi sensi: palato, conservazione, bruciore, sapidità e poi “salire” in montagna e guardare lo schianto del mare sulle rive e quello della Storia sugli uomini, e poi le “sale” delle case che abitiamo, la memoria disidratata come un pesce sotto sale, che accoglie l'acqua fresca della musica per tornare a essere nutrimento della nostra identità. “Bronte”, che per noi è diventata la denominazione dell'origine che orgogliosamente testimonia la genuinità del prodotto in gelateria, verde come il terzo colore di quella bandiera bianca di sale e macchiata di un sangue rimosso. “Sale” arriva così per cantare Bronte, incorniciata da due brani più o meno patriottici di tradizione orale coevi ai fatti, che lì risultano tristemente ironici o tragicamente grotteschi, preceduta dalla citazione dell'arringa che lo stesso avvocato Lombardo pronunciò davanti al Tribunale di guerra (così com'era recitata nel Film), la canzone “Che dici Nicò” è un capolavoro di fremente indignazione, un brano di poesia civile cantata dopo 150 anni di ulteriori soprusi neocoloniali, complicità mafiose, rivendicazioni contadine stroncate nel sangue e nel terrore... c'è tutto questo nell'incedere calmo ma non rassegnato della voce di Muratori, che è una sveglia che squilla sull'orgoglio futuro dei siciliani che dovranno condividere anche questa vecchia storia, di sale, sangue e pistacchi, se vogliono sapere chi sono.

PCSP di Alberto Prunetti

Se in questa rubrica non si fanno recensioni di dischi, ancor meno se ne fanno di libri, ma anche di un libro (che poi è la riscrittura di una narrazione uscita già anni fa) vorrei parlarvi, perché anche questo libro è una potente trasfusione nella nostra memoria anemica.
Alberto Prunetti è un grande scrittore, se non si era capito prima, certamente lo abbiamo tutti saputo dopo l'uscita di “Amianto” un libro meraviglioso, personale e collettivo, una storia di infanzia operaia, un “romanzo della formazione” e del disfacimento che culmina nella miseria di morte per mesotelioma del padre del protagonista e di una generazione che aveva effettivamente creduto al lavoro come mezzo di affrancamento di una Classe, e che ha pagato salatissimo il biglietto di questo cinema, di questa illusione di Capitalismo e sfruttamento. “Bestemmiando e piangendo” (come mi avevano preavvisato) ho divorato quel libro in poche ore.
Questo ora lo sappiamo tutti e dunque possiamo tornare a leggere quanto di già importante Prunetti aveva scritto o tradotto (cose che Alberto fa con la medesima militante foga). Rigoroso quanto si può e cazzone quanto basta, Prunetti è uno splendido affabulatore, un meraviglioso commensale e un divertentissimo provocatore, maremmano fino alle budella. Appunto di storie di Maremma e di anarchia questo “PCSP” (accronimo di “Piccola Controstoria Popolare”... ma perché “piccola” poi?) tratta.
Uscito nel 2003 col titolo di “Potassa”, questo libro ripreso, tagliato e allargato, è una vivacissima sarabanda giocata sulle ore, le fughe, le intemperanze e l'indomabile vitalità di alcuni antifascisti maremmani dell'estrazione più popolare che si può, come Domenico Marchettini comunista e feritore di latifondisti, che aggredisce e insegue gli squadristi trincetto in pugno, capace di far perdere le tracce per boschi ed anfratti. Disertori libertari della Grande Guerra si mescolano a socialisti e vecchi anarchici che mordono il tallone ai brigadieri nel polverone di una rissa di paese, e i toponimi che ricorrono nel rigodon di queste pagine sono quelli stessi che trentacinque anni dopo i fatti narrati in questo libro, tornano nei racconti straziati di tragedie minerarie di Bianciardi: Gavorrano, Roccatederighi, Tatti, Montemassi, Potassa... “PCSP” è un confusionario poema della fame di azione, di giustizia, di vino, di sangue che ci cala nel bel mezzo di un groviglio in cui è difficilissimo schierarsi col cervello - per l'intemperanza e l'animosità di tutti i protagonisti - e inevitabile farlo col cuore. La voce stessa del narratore è una voce estremamente compromessa, perentoria, che unisce continuamente la propria esperienza alle sue mitologie controculturali e corre su e giù per la scalinata degli anni, come un'interiezione, fra le pieghe del tempo e una bestemmia nei bordi rosicchiati delle evasive carte giudiziarie.

Alessio Lega