rivista anarchica
anno 46 n. 406
aprile 2016


 


L'arte/
Il ruolo nell'educazione libertaria

Pubblichiamo l'introduzione al libro di Cristiano Gilardi Arte & educazione - Visioni e pratiche antiautoritarie (La Fiaccola, Ragusa, 2016, pp. 128, 13,00). Per richieste: Giovanni Giunta, via Tommaso Fazello 133 - 96017 Noto (SR). CCP n. 78699766.

Se ci limitiamo ad osservare il panorama dell'establishment culturale occidentale, ci rendiamo conto che l'ultimo scorcio del XIX secolo origina, da una parte un intricato circuito di valore (senza valori?) che Hans Magnus Enzensberger definisce «industria della coscienza» (gallerie, musei, luoghi espositivi per il mercato dell'arte...); dall'altra, un'istituzione scuola, nella configurazione che va ad assumere, così come arriva fino ai nostri giorni. Due sistemi che maturano a partire dall'ideologia utilitarista e materialista della borghesia industriale, con elementi in comune, ma di matrimonio difficile, perché la scuola mal accetta ancora oggi di applicare un concetto ampio di creatività che va oltre le ore destinate alla cosiddetta educazione artistica, tranne in rari casi, che confermano la regola, o altri in cui le logiche competitive concordano con le strategie formative.
Questo è l'esempio del Goldsmiths College di Londra, che adotta una filosofia atta a preparare i propri studenti alle strategie del mercato dell'arte e all'ideologia del successo, o della Central Saint Martins (sempre di Londra), che rappresenta la più grande scuola sforna talenti dell'arte e del design del Regno Unito. Istituti che, nonostante superino la formula della bottega artistica, continuata invece dalle accademie di belle arti, avviano un determinismo storico, sotto forma di accaparramento al visibile, di antica data se si pensa che la storia dell'arte è piena di scuole specialistiche che ricercano la tendenza o che duellano fra loro per contendersi il primato dell'educazione più innovativa dal punto di vista della creatività.
Ma perché la scuola generalista rinuncia alla ricchezza che può offrirle l'arte? Secondo Raoul Vaneigem – ma anche Ivan Illich, Denis de Rougemont, Neil Postman (per citare alcuni contemporanei) – la scuola moderna, riflettendo appieno la società di produzione e consumo, avvia un processo di sublimazione compensatorio, sostituendo gioco, creatività ed eros – abbecedario dei bisogni espressi dall'educando al suo debutto a scuola –, con bisogni altri che alimentano in lui il passaggio da «produttore/creatore» a neo «consumatore». Difatti, se il mercato (soprattutto anglo-americano) assorbe una parte di queste esperienze – se non altro perché si accorge dell'importanza di una formazione attraverso una materia capace di fornire due qualità fondamentali alla new Economy: la inventiva e la reinventiva, cioè la capacità di rimettersi in gioco, acquisendo quella flessibilità tanto cara ai sostenitori del lavoro precario – i governi, dal canto loro, non hanno nessun interesse a legittimare una professione non censibile (quella di futuro artista, attore, musicista... nel caso di istituti specialistici), che inflazionerebbe il numero di lavoratori non convenzionali, poco fruttuosi cioè alle casse istituzionali, o di incrementare il numero di persone «creative» (nel caso di una riforma che investirebbe l'intero apparato scolastico), per i problemi che queste possono apportare a un sistema basato sulla dissipazione di vitalità.
Tuttavia, oltre alla scarsa presenza dell'arte nella maggior parte delle scuole pubbliche e questi sodalizi tra mondo dell'azienda e mondo scolastico, esiste una terza categoria di luoghi in cui arte ed educazione si legano assieme. Ed è proprio su questa terza via che intendo far luce. Più esattamente, voglio ricostruire il filone libertario dell'Art Education, con le sue scuole, le colonie di artisti, le piattaforme pedagogiche, le opere partecipate.
Un'indagine, la mia, prevalentemente storico-sociologica, che prende in disamina tutti gli aspetti del legame significante: dalle esperienze che da anni si susseguono in maniera critica contro le fissità formali-metodologiche, alle posizioni, militanti e non, di coloro che si pongono, anche solo spiritualmente, all'interno di visioni e pratiche antiautoritarie.

Apologia di un incontro

Forse non è un caso che la fenomenologia estetico-didattico-oppositiva risiede, in parte nell'affermazione stessa di arte educativa contro il modello di sapere elaborato da Boezio che riduce l'arte a mero intrattenimento; in parte all'estetica, che al suo apparire, grazie a Baumgardner, si mostra già come «conoscenza attraverso i sensi»; e in parte alla nascita delle corporazioni di Arti e Mestieri che, al pari delle universitates sorte in età volgare (XII sec.), con la loro intimità ambientale, riescono ad avviare quel rapporto docente/discente di complice trasmissione del sapere e di esplicito rimando all'èsoteros greco.
Praxis visibilis a partire dall'éducation nouvelle, ma che, rarità di esempi a parte, trova ostacolo anche nella sola pianificazione dell'atto, che per natura si compone di soggetto-attivo (catalizzatore), mezzo e fine, che cambiano secondo le varianti tipologiche. Nel caso dell'artista-insegnante è lui a condurre il gioco e a utilizzare la didattica per iniziare all'arte o insegnare con l'arte per stimolare i processi cognitivi senza veicolare necessariamente le sorti professionali dei propri discenti. Stessa dinamica accade quando è l'intera scuola a farsi «soggetto-attivo». Qui gli insegnanti (che non devono essere necessariamente degli artisti) hanno un vantaggio in più rispetto al singolo artista chiamato a insegnare in una struttura che non favorisce l'applicazione di metodi non convenzionali.
Pur non volendo ridurre l'incontro di arte ed educazione alla sola didattica, dobbiamo affermare che essa occupa un posto notevole nel nostro percorso. un posto in cui la più alta percentuale di praticanti sono artisti e, nel nostro caso: artisti spiritualmente o ideologicamente vicini al movimento libertario. Sono loro, infatti, i primi a saper leggere nel movimento libertario uno spirito epifanico, e a intravedere la relazione tra creazione plastica e creazione sociale. E non è strano quindi che le prime scuole artistiche, poetiche e politico-dissidenti (in quanto circoli di informazione e di formazione) siano i Cenacoli e i Caffè Letterari.
Ma in cosa si differenzia quest'educazione libertaria di indirizzo estetico dal resto della pedagogia della creatività? Prima di rispondere, va aggiunto e sottolineato che la pedagogia estetico-libertaria è scivolata su un terreno in cui le differenze sostanziali nei confronti delle altre pedagogie progressiste non sono facilmente riconoscibili. Tuttavia, benché si tratti di una corrente che spesso utilizza il medesimo gergo, ha finalità e sostanza differenti, e oggi, gli autori che ne fanno parte, spesso, non riescono neppure a emergere a sufficienza e, dunque, a partecipare al gran dibattito culturale o, se lo fanno, devono entrare in un sistema altamente competitivo, che dà loro voce in capitolo attraverso il conseguenziale successo.
La più generale Pedagogia della creatività, nel corso della sua storia, sembra ridursi a due poli estremi: da una parte, il conservatorismo dai rigidi insegnamenti, che promuove programmi di purismo esecutivo spesso paralleli a un sistema premio-punitivo; dall'altra, chi fa lievitare le idee dalla pancia stessa dei propri discenti, ponendosi in un'ottica vichiana o comunque romantica. È tra questi ultimi da ricercare la nostra posizione? La risposta non può che essere duplice: in parte sì (genericamente) e in parte no (peculiarmente). Essa, ponendosi all'interno del più generale pensiero libertario, muove le sue teorie a partire da precisi contesti di critica e proposizione entro parametri sperimentativi di libertà, con concezioni molto elastiche che vanno dall'educazione «armonistica» di Charles Fourier alla Libera università Internazionale di Joseph Beuys. Più esattamente, muove le sue teorie perseguendo tre fasi esplicative: presa di coscienza, teorizzazione e limitazione della metodologia applicata nei ristretti ambiti di necessità.
Come quest'ultimo fattore può e deve essere applicato coerentemente non è facile dirlo. Vi sono diverse teorie che, pur muovendo su un terreno di base comune, prendono le distanze nei processi applicativi. E, se alcuni autori investono nella costruzione di un nuovo tipo umano (nell'uomo nuovo, per intenderci), altri scelgono di invitare l'iniziato a percorrere un sentiero che non conduce a nessuna via maestra; con la consapevolezza che solo un sentiero non previsto da nessuna mappa topologica può mettere l'iniziato in condizione di fare certe esperienze, di cercare altre vie o, come Kerouac, di trovare nella strada stessa il suo luogo-altro, la madre-scuola che alleva/educa i propri figli randagi, togliendoli dal predefinito strutturale: dal lusso medio alto dei banchi di fronte alle cattedre dell'«io so».
Il libro presenta la creatività come arte nelle sue varie specificità (non solo visiva), e può essere riassunto in:
– enti educativi tra autoritarismo e libertà;
– istruzione come sostentamento economico atto a preservare la libera attività del versante creativo;
– antiaccademismo;
– arte come mezzo di liberazione sociale;
– autoeducazione attraverso l'arte;
– appropriazione di metodi e linguaggi pedagogici per fini estetici o utilizzazione dell'arte come mezzo per giungere alla conoscenza di problematiche sociali legate a fattori educativi.
Sei punti che fanno propri linguaggio e principali istanze caratterizzanti la più generale Pedagogia libertaria: lotta all'autoritarismo, istruzione integrale o olistica, coeducazione dei sessi (valida anche per gli istituti artistici), apprendimento cooperativo, messa in atto di una maieutica socratica, cura per l'ambiente...; uniti a un vocabolario terminologico specifico che il mondo dell'arte cerca ormai da anni di introdurre nel sistema scolastico generale: osservazione degli oggetti da più angolazioni, uso del «bildhafte denken» («pensiero per immagini»), «decontestualizzazione», consapevolezza del carattere dei materiali, eccetera.

Cristiano Gilardi



Pedagogia interculturale/
Per fermare le guerre

Il Dialogo per la Pace (L. Tussi - F. Cracolici, Mimesis Edizioni, Milano, 2014, pp. 107, € 12,00) è un libro utile, il cui architrave è offerto dalla “pedagogia interculturale”. Se la “pedagogia della pace”, come spiega Fabrizio Cracolici, «apre a tutte le tradizioni e le religioni, al fine di raggiungere un'unità di senso e di significato, un comune orizzonte di idee, in un alto momento di incontro, pluralista e democratico, basato sulla dignità delle differenze che costituiscono il vero motore, attivo e libertario, dei popoli», allora la “pedagogia interculturale” ne rappresenta una premessa ed una declinazione. Da una parte, la pedagogia interculturale come antefatto del “lavoro di pace” dal momento che, come spiega Laura Tussi, «ognuno di noi presenta una propria specificità e differisce da ogni altro nelle personali prerogative identitarie; la considerazione ed il riconoscimento dell'“altro da sé” permettono il reciproco confronto e la gestione educativa del conflitto» (p. 25). Dall'altra, la pedagogia interculturale come articolazione del lavoro di pace, dal momento che «educare significa scegliere sempre la persona, per agire a favore del più debole, interagire in contesti di pluralismo culturale, in cui la natura del soggetto consiste nell'affermare la propria differenza e singolarità e appropriarsi di valori e di ricchezze, comuni all'umanità» (p. 54). Se è vero che questi termini non esauriscono l'impegno dei costruttori di pace, è almeno altrettanto vero che essi finiscono per istituire una mappa concettuale importante intorno a tre questioni: pace, memoria e inter-cultura. In primo luogo, resta implicita una connotazione del lavoro di pace, vale a dire l'esercizio, costante e consapevole, del decentramento emotivo e cognitivo quale presupposto della dislocazione in medias res: si tratta, cioè, di porsi a confronto nella relazione e a contatto nella diversità, maturando la consapevolezza necessaria a comprendere la specificità del contesto sociale e l'irriducibilità dei paradigmi cui si riferiscono persone, popoli e comunità. In secondo luogo, la pedagogia interculturale è una parte della pedagogia per la pace e può costituire uno strumento prezioso per innervare di senso le modalità del “dialogo di pace” che, in contesti di violenza, conflitto e post-conflitto, si intende instaurare. In questi casi, il lavoro di pace si estrinseca spesso in termini di ricomposizione di ciò che la guerra ha scomposto, di ritessitura di ciò che la violenza ha lacerato e di rigenerazione di ciò che il dolore ha sfigurato. Non si tratta né del lavoro del pompiere né dell'azione di tutoraggio: il costruttore di pace non è colui che “mette la toppa” o “detta le regole”, bensì colui che si mette a disposizione, abitando il conflitto dal lato di chi ne ha maggiormente subito l'ingiustizia, di un processo di trasformazione sociale che punti ad estinguere i bacini della violenza, a dissodare il terreno delle legittime esigenze di “pace con giustizia” e a contribuire a riorganizzare il tessuto delle relazioni sociali. Come ricorda Alessandro Marescotti, «una pedagogia della vita quotidiana che ami la bellezza, l'arte e la cultura; che educhi alla complessità e alla pazienza, al dubbio e alla saggezza [...] è impegno contro la guerra come espressione di barbarie». L'impegno per la pace rappresenta così «un modo per mettersi in gioco, per assumersi delle responsabilità e per indicare la strada concreta della nonviolenza». Ovvero, «la pace come umanità che si deve riconoscere una, plurale e solidale, concretamente esistente nei singoli esseri umani, tutti uguali per diritti e dignità, tutti differenti per caratteri, propensioni ed opinioni, nell'umana convivenza [...] di cui ogni persona è promotrice» (p. 105). È, se vogliamo, la sfida stessa della “pace positiva”, tra le più esigenti per il lavoro costruttivo di “pace con giustizia”, che resta come “sotto-testo” di questa narrazione.

Gianmarco Pisa



L'Internazionale Situazionista/
Un dialogo tra Gérard Berréby e Raoul Vaneigem

Raoul Vaneigem (1934) è un autore belga e un critico radicale della società. Dopo aver frequentato il liceo, all'età di diciassette anni iniziò a studiare letteratura all'Université Libre di Brussels. Una volta laureato, insegnò per alcuni anni in diversi istituti scolastici. Era il periodo dei lunghi scioperi in Belgio a cui Vaneigem prese parte (anni 1960-61). È stato poi un membro, per quasi dieci anni, del movimento conosciuto come Internazionale Situazionista (I.S.).
Vaneigem non rilascia mai interviste. Ma nel caso dell'autore francese Gérard Berréby (1950), molto interessato al Movimento Situazionista e anche editore, è stato diverso. Berréby era estremamente preparato al dialogo. Lui e Vaneigem iniziarono a discutere sul luogo di provenienze di quest'ultimo, prima di iniziare a parlare degli anni passati nell'Internazionale Situazionista. E naturalmente anche di ciò che è venuto dopo.
Il risultato è un libro in cui il dialogo è continuo, riempito di note informative, molte immagini e altri materiali, sotto-interviste fatte da Berréby a persone dell'ambiente culturale di Vaneigem e sovrastampe (brevi articoli) o altri testi per maggiori informazioni. Tutto questo in una vivace e varia elaborazione di layout. In breve, Rien n'est fini, tout commence (Niente ha una fine, tutto inizia, Editions Allia, Paris, 2014, pp. 400, € 25,00) è diventato un libro affascinante.
La maggior parte del dialogo è dedicata agli sviluppi del Movimento Situazionista, a cui Vaneigem prese parte nel 1961. Questi sviluppi riguardano un'Internazionale Situazionista in trasformazione (anno di svolta 1963), l'esperienza del picco (Maggio '68) e poi il suo declino. Raoul non ha avuto esperienza dello scioglimento del 1972 poiché aveva già rassegnato le dimissioni nel 1970.
Una domanda pressante è quella su come un giovane talentuoso come Raoul inizi ad essere coinvolto in un movimento radicale come l'Internazionale Situazionista. La risposta va ricercata nella prima parte del dialogo.
Vaneigem è nato in una famiglia proletaria nel villaggio belga di Lessines, situato nel distretto minerario di Borinage. Suo padre lavorava per le ferrovie ed era un sindacalista. All'interno di quella regione e di quell'ambiente, Raoul diventa sensibile a quello che succede nel mondo: lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Le condizioni lavorative facevano aumentare il numero di incidenti (mortali) in quella regione. “Questo genere di eventi, a cui eravamo vicini, alimentava la mia rabbia contro i padroni” dice. “A tredici, quattordici anni avevo assorbito l'intera atmosfera dell'ambiente lavorativo”. Quell'atmosfera e quella rabbia non l'hanno mai più lasciato.
I suoi studi sulla letteratura e l'interesse nei confronti del poeta francese Lautrémont, lo ispirarono nella scrittura del saggio “Poésie et Révolution” (Poesia e rivoluzione). Curioso di avere un'opinione sullo scritto, lo inoltrò al sociologo francese neo-marxista e critico sociale Henry Lefebvre (1901-1991). Di suo Raoul aveva già letto “Critica della vita quotidiana” (1947). Con suo immenso piacere, Lefebvre reagì. Si rivolse ad un amico, consigliandogli di contattarlo. Questo amico era Guy Debord. Così, agli inizi del 1961, Debord e Vaneigem cominciarono ad avere contatti personali.
“Quando io [Raoul] li incontrai [Guy Debord e sua moglie Michèle Bernstein] a casa a Parigi per la prima volta, Guy aprì una credenza e disse “Voilà, y a da quoi faire!” (Guarda, abbiamo qualcosa da digerire!): 15 bottiglie di vino. In pratica, era tutto cibo, bevande e discussioni”. È subito scattato qualcosa tra loro tre. Debord e Vanaigem si capirono immediatamente. “Noi [l'Internazionale Situazionista] siamo stati catalizzatori di confusione, con l'intento di rovesciare le basi esistenti a beneficio di una società radicalmente nuova” dice Raoul. E Michèle Bernstein condivide con loro tutto questo. Lei è tante cose insieme, fa notare Raoul: “Molto conviviale quando si tratta di cibo e bevande, molto precisa quando si tratta del linguaggio; prende parte ai dibattiti e non vive in alcun modo all'ombra di Guy.” [...]
La transizione verso la critica politica ha rinnovato l'Internazionale Situazionista completamente e ha reso manifesta la rottura con l'idea di avanguardia. “Noi non volevamo essere un'avanguardia. Sì, volevamo essere individui che seminano il radicalismo, ma senza essere “alla guida del proletariato” come gli stalinisti continuavano a ripetere”. L'Internazionale Situazionista era entrata in una seconda fase.
Raoul si riconosce presto in questa situazione. “Debord e io fummo presto d'accordo nel lasciare la critica dell'arte. Dopotutto un oggetto artistico è meno importante delle critiche al sistema di mercato. La critica dell'arte può essere sorpassata dalla critica politica”. [...]
Con questo atteggiamento l'Internazionale Situazionista ha partecipato al Maggio '68. Si è comportata da “avamposto”. Raoul: “All'improvviso abbiamo visto moltissimi dei principi che difendevamo ottenere visibilità”. Comunque, fa anche notare, “il risultato andò oltre le aspettative. La nostra idea di costruire un “avamposto” si trasmise da persona a persona avendo cura di non lasciare che il nemico riuscisse a penetrarci. Poi si formò una nuova “autorità”, gli “Enragés” (gli arrabbiati) con, tra gli altri, Cohn-Bendit”.
Insieme a Berréby, Vaneigem esamina cosa successe al movimento di rivolta (Maggio '68). Alla fine è bene non ignorare questa osservazione: il riconoscimento internazionale dell'I.S. e la sua vittoria hanno annunciano allo stesso tempo il suo declino. La cosa verso cui Vaneigem ha molte obiezioni è la sbavatura stalinista, come si evince dalle espulsioni fatte da Debord. Berréby e Vaneigem ne discutono a fondo.
Ciò che mi sembra importante ripetere qui è ciò che solennemente piace a Raoul, perché ha importanza nel presente. Raoul: “Quello che ci è sempre stato chiaro è il radicalismo. Siamo d'accordo con ciò che diceva Lefebvre circa l'importanza della vita quotidiana. E questo è tornato nei dibattiti di oggi. Prendiamo la discussione sul velo per le donne musulmane. Quella è ideologia. Comunque ciò che è importante è: la condizione della donna! La discussione sull'accettare o proibire il velo, quello non è affar nostro. Per contro: che le donne siano soggette al dominio maschile di un patriarcato arcaico nei regimi tradizionali del mondo arabo o da qualche altra parte, questo è il vero problema. Il punto è constatare che i diritti delle donne non sono gli stessi degli uomini e questa è la vera battaglia”. [...] Così di nuovo si ripete durante il dialogo: c'è sempre una critica alla vita di tutti i giorni che genera sovversione nel rifiuto di una vita preconfezionata, programmata dal capitalismo.
Il declino dell'Internazionale Situazionista segue all'abbandono di Debord nel 1972. Prima di lui, Vaneigem si era allontanato nel 1970. Nostalgico? No. E il libro sui loro carteggi che è stato pubblicato? Non gli interessa. L'idea di una costante evoluzione è l'unica cosa che gli interessa e “stimo ancora i pensieri teorici dell'I.S., ma per il resto...”.
Il dialogo Rien n'est fini, tout commence (Niente ha una fine, tutto inizia) non ha introduzione o conclusione, persino il sommario è assente. Tutto ciò che può essere citato, come le note, le immagini, gli allegati sono stati pubblicati tra i dialoghi. Il dialogo si apre con una risposta, che - come potete immaginare - è preceduta da una domanda: “Nel 1961, quando ero professore al Pedagogical Academy di Nivelles...”. In questo modo viene presentato Raoul. Quasi 400 pagine più avanti, Berréby gli pone l'ultima domanda. Per farvi capire quanto il vecchio Vaneigem sia ancora il giovane Vaneigem, riporto qui alcuni paragrafi delle ultime due pagine (pp. 392-393).
Raoul: “La distruzione della vita e delle risorse naturali, causate oggi dalla mafia finanziaria e dal dispotismo della moneta, è inarrestabile e si diffonde come una malattia contagiosa. Siamo di fronte ad un sistema assurdo che dà ordini perentori agli stati, impoverisce le popolazioni, sperpera i beni pubblici, avvelena il cibo, fa diventare brulla la terra e la vita di tutti i giorni, accresce la disperazione e la noia e tutto questo per continuare dritto sulla strada della guerra di tutti contro tutti.
Gli stati giocano il ruolo dei servi in questo assurdo sistema. La loro ultima ragione di esistere si conferma l'esercizio della funzione repressiva. Il gioco è chiaro. O si persevera nella logica suicida per acconsentire a morire nelle camere a gas dei banchieri... o si prende coscienza che non c'è nessuno pronto ad aiutarci tranne noi stessi.
Noi buttiamo giù le fondamenta di quella società. E lo sappiamo bene: non abbiamo bisogno di ideologie per mettere in funzione scuole, ospedali, trasporti, case, imprese socialmente utili (metallo, energie rinnovabili, tessuti, cibi naturali), per recuperare i beni pubblici [...].
Guardiamo la Grecia, la Spagna, il Portogallo dove dinamiche autogestionarie sono apparse nei settori dell'educazione, della sanità e nella produzione del cibo di qualità.
Sono solo esperimenti, ma nel futuro l'auto-governo della vita quotidiana inizierà a delinearsi. È l'unico modo per dare una chance alla vita”.

Thom Holterman

traduzione di Carlotta Pedrazzini



Padre anarchico
di una figlia speciale

È uscito da poco il volumetto Baby Block, scritto da Dino Taddei e pubblicato da Zero in Condotta (Milano, 2015, pp. 86, € 10,00). Una vicenda umana e politica intensa, vissuta con una bella dose di salvifica ironia (o meglio, auto-ironia). Ne pubblichiamo qui un capitoletto, relativo ai primi tempi del suo impegno politico in un quartiere popolare della periferia milanese. Prima che nascesse la figlia di Anna e sua. E che la musica (per tanti aspetti) cambiasse.
A seguire, pubblichiamo anche la recensione di Gianfranco Marelli.


Un estratto dal libro

La svolta avvenne improvvisa e insperata poco tempo dopo. Eugenio aveva iniziato a frequentare in via degli Appennini la locale sezione di Lotta Comunista (delle fighette democratiche se confrontati ai filo-albanesi). Loro peculiarità era quella dell'Analisi (di qualunque cosa: dagli scritti giovanili della Luxemburg, alla produzione casearia in Burkina Faso), quest'impostazione necessitava di monumentali studi preparatori e chiavi interpretative, diciamo che non si poteva giudicare il pecorino del Burkina Faso senza gli scritti giovanili della Luxemburg.
Eugenio gongolava, gli pareva di aver finalmente trovato pane per i suoi denti: milioni di nozioni a sua completa disposizione. Tutto il mondo aspettava solo di essere svelato nel suo necrotico meccanicismo.
Nella sua foga da neofita, ci sottoponeva a martellanti trattazioni, usava noi scout come pubblico nella sala di studi anatomici. Tutto fluiva chiaro sotto le ferree leggi delle scienze sociali.
Era veramente ridicolo vedere questi quattro ragazzi sfigatoni e foruncolosi intenti a costruire cucine da campo, tende sopraelevate, che discutevano sulla scelta astensionista di Lotta Comunista. E fu proprio in questa circostanza che Eugenio ebbe un tremito nella sua stentorea esposizione: una piccola incertezza che mi fece rizzare le orecchie.
Si dà il caso che, in una di quelle simpaticissime lezioni frontali, capitò all'insegnante di dover ammettere che l'astensionismo elettorale era una pratica condivisa dal Partito con gli anarchici, lumpenproletariat-immaturo-e-residuale che si rifaceva ad un certo Bacunino; un nobilastro russo piantagrane, così pieno di alterigia da voler far baruffa addirittura con Marx.
«Addirittura con Marx?!»
«Già, sembra incredibile. Questo Michele Bacunino se l'è spassata tutta la vita con i soldi di quattro minchioni che gli stavano dietro, pure a Marx ha fregato la fresca, e tutto per spregio verso le masse lavoratrici».
Basta: ero definitivamente consacrato all'Anarchia e a Michele Bacunino.
Scoprii velocemente che questo Michele Bacunino era una pietosa italianizzazione di Michail Bakunin. Del resto anche Marx faceva di nome Carlo (sicuramente qualche matto avrà anche provato a scrivere Marcs). In fondo un modo bonario di mettere sulla tavola della cucina la storia. Molto meglio soffiare sul caffellatte con il Carletto, il Michelone e perché no anche con il Bepi (Stalino): tutto si umanizza. Tutto diventa alla portata di osteria, tra smargiassate e lazzi. Un modo di mettere al centro del nostro circoscritto universo le idee e gli uomini foresti.
«In fondo anche il Papa si scaccola il naso come te!» mi insegnò un giorno un compagno, intendendo dire che i mostri in natura non esistono (semmai lo diventano poi).
I mostri forse no ma sicuramente i supereroi sì e Bakunin era tra questi. Di lui si dicevano cose mirabolanti, alcune vere altre meno, altre così bugiarde da diventare credibili, ma per noi apprendisti stregoni (escluso Eugenio che faceva il noiosetto precisino) tutte verissime. Avevamo trovato la saga e non intendevamo mollare l'osso. Bakunin come Maciste.
Bakunin che da un albergo praghese vede maltrattare un gaglioffo, prende le pistole e spara dalla finestra contro i birri, scatenando la rivoluzione. Bakunin che ai ceppi nella prigione di San Pietro e Paolo in Russia, riesce a fumare trecento sigari uno dietro l'altro, bevendo solo caffè. Bakunin che chiede scusa allo zar e poi scappa attraversando la Siberia, il Giappone, l'America per arrivare a Napoli (!) pronto ad accendere la scintilla rivoluzionaria. Bakunin che litiga con Fichte sul carattere nazionalista della rivoluzione berlinese ma poi, vedendo le barricate, non resiste e si mette anche lui a tirare rivoltellate. Bakunin che ha distrutto innumerevoli patrimoni altrui e comunque è morto povero, come un vero nobile.
E della vita di Marx cosa ci doveva entusiasmare? Un topo di biblioteca arido e vendicativo.
«Però un colosso di sapienza, mentre Bakunin non è mai riuscito a scrivere un'opera organica» tentava Eugenio di calare qualche asso, nella speranza di riprenderci. Noi non sapevamo bene cosa contrapporgli e ci zittivamo. In realtà le sue parole sortivano esattamente l'effetto opposto: quel Sole disordinato, fantasioso e vitale ci dava la misura di quanto noi non c'entrassimo nulla con il Terzo Libro del Capitale.
Comunque iniziammo la lettura delle opere 'non organiche' di Bakunin, scoprendo l'essenza di tutto l'anarchismo: la lotta senza quartiere verso ogni forma di autorità. Finalmente avevamo trovato il bandolo della matassa: il principio di autorità (qualunque autorità, anche quella del portinaio), si fonda sulla costrizione, sullo sfruttamento, sulla distruzione. Di autorità si muore, di certo l'autorità non porta amore e vita ovvero due degli atomi costituenti la Libertà. Forse non l'ha detto proprio Bakunin ma poco importa, oggi penso che Eugenio fosse nel giusto affermando che il gigante russo non avesse mai scritto un'opera organica ma fosse nello sbagliato non credendolo un colosso di sapienza. Penso addirittura che a Bakunin interessasse indicare solamente una mulattiera sconnessa e imprevedibile come è la Libertà, non costruire una autobahn con le uscite segnalate come Marx. Nulla di più slavo contro nulla di più teutonico. Nulla di più dionisiaco contro nulla di più carcerario.
Un richiamo all'ardore/ardire individuale che ben si attagliava alla nostra voglia di sfida. Eugenio si trovò in minoranza ma la faccenda durò poco, perché ad un Primo Maggio fu cacciato dal corteo di Lotta Comunista avendo osato presentarsi con l'orecchino... «Cosa fai tu, con quella roba all'orecchio? Credi di essere al circo Medrano? Ti prendi forse gioco del Partito di Classe?» questo gli dissero allontanandolo quasi fosse Franti e questo gli bastò per dire definitivamente addio al Partito di Classe e tornare a fare il Garrone con noialtri.
La nostra nuova tendenza anarcoide (perché di più non si poteva dire) non passò inosservata negli ambienti scout, il vento stava cambiando anche lì e avanzavano le forze restauratrici e bigotte. Ancora ancora si poteva accettare un qualche sentimento che rientrasse nell'alveo della Repubblica di Dio ma sobbarcarsi un gruppo di diciassettenni atei anarchici era effettivamente troppo.
Comunque dapprincipio la risposta dei capi fu quella di cercare di sviarci nel sociale spinto, basta marce in alta montagna e invece massima attenzione verso il volontariato sociale. Volevano ubriacarci di carrozzelle, carceri minorili e deviati di ogni risma.
Pensavano di indirizzarci verso il modello del bravo scout che aiuta la vecchietta ad attraversare con il semaforo verde. Non si rendevano conto che ci stavano dando gli strumenti per sabotare il semaforo.
Ci spingevano verso l'umanitarismo e noi imparavamo la dignità umana, verso il sociale che per noi diventava socialismo, verso il volontariato che per noi significava delegittimare lo stato.
Quando se ne accorsero era troppo tardi: non restava che la purga.
Tengo a sottolineare il ruolo formativo che ebbe comunque questo ambito, in mezzo a un deserto. A mala pena rammento di essere stato un 'ragazzo dell'ottantacinque', una patetica mobilitazione nazionale degli studenti medi durata mesi contro la ministra dell'Educazione Falcucci. Un inutile scimmiottamento (senza averne la cattiveria necessaria) delle esperienze dei fratelli maggiori: un mare di occupazioni, un oceano di manifestazioni, qualche lecca sul groppone ma poi finì tutto lì. D'altronde quello che più premeva alla gran parte degli studenti era andare al parco a fumarsi qualche cilum di charas.
Non dimentichiamoci che a parte qualche avanzo di 'china' (dicasi ciaìna), vi era un'egemonia culturale dei 'paninari', chi poteva permetterselo e chi aspirava ad esserlo. Avere le Timberland, mangiare da Burghy, ascoltare i Duran Duran, guardare Drive-in ridendo in modo sincopato come il finto pubblico nei telefilm americani. Oppure nella versione aspiranti: rubare le Timberland, fare a cartelle sulla 57 per andare da Zia Maria, ascoltare il Leone di Lernia e guardare il porno di venerdì a mezzanotte su Telereporter.
Ditemi voi dove si poteva andare...

Dino Taddei


La recensione

Baby Block di Dino Taddei è una storia intima, minimalista, della vita di un militante anarchico divenuto padre di una bimba – Anita – alla quale confessa il suo smisurato amore. È il racconto di una vita semplice, comune e senza preoccupazioni, fino a quando la conclamata patologia di Anita [una malattia genetica, la Crigler Najjar, che colpisce un bambino su un milione] non conduce il padre a ripensare se stesso, offrendosi nudo allo sguardo inconsapevole della figlia. Pertanto il racconto non assume né accelerazioni improvvise, né interruzioni tragiche, ma si snoda sulla normalità di un'esistenza tranquilla, paciosa, godereccia.
Dopotutto chi l'ha mai detto che la vita di un militante deve essere una vita da milite? Ma se non è così, perché raccontarla, scriverla e addirittura tramandarla? Perché non siamo eroi, tantomeno santi; come tutti viviamo le emozioni che la vita ci offre, accettandole alcune di buon grado, desiderandole altre con smisurata passione, evitandole poche quando ciò è possibile.
Ma si sa, la vita per essere vissuta bisogna non tanto accettarla per come viene, piuttosto arrangiarla per come si può. Per questo, nel raccontarla agli amici, più che cercare di “farsi belli”, si vuole belle, particolari, le avventure che si affrontano. Dopotutto, avventurieri lo siamo un po' tutti, poiché avventuriero è colui che va incontro all'avventura della vita quotidiana, e non tanto chi, per bramosia di vivere la “bella morte”, la cerca.
Certo, nella “Milano da bere” di fine anni '80, ben poche erano le occasioni per non essere travolto dall'indifferenza di una vita trascorsa nella bulimia pubblicitaria, soprattutto da parte di chi non voleva consumarla in discoteche o in spettacoli televisivi degni di Drive-in. Così al babbo [ancora in erba] Dino sono bastate le uscite all'aria aperta con i boy-scout, o le riunioni in locali tristi e scuri organizzate da propagandistiche associazioni Italia-Albania, per far sì che i suoi anni di formazione del carattere e delle poche idee ma ben confuse fossero propedeutici ad un futuro spirito anarchico e ribelle. Tanto basta poco, perché il più viene con lo studio, l'esperienza e la convinzione che se è così che funziona il mondo, vuol dire che il mondo funziona proprio male.
Di chi è la colpa? Non certo di un Dio sadico e baro, troppo distante dalle cose terrene che anche ad invocarlo con sonore bestemmie gli si attribuirebbe una notorietà non meritata. E poi basta l'umanità, quella servile, pronta a sottomettersi scegliendo essa stessa i propri padroni. Dal che spontaneo sorge l'appello a non essere né schiavi, né padroni, cercando di praticare in ogni dove la libertà dall'autorità preposta o desiderata, fedeli al principio di La Boétie: “siate risoluti a non voler servire, ed eccovi liberi”.
Facile, no? Ma spiegalo a tua figlia di due anni, alle sue necessità come ai suoi capricci, e soprattutto alla sua perentorietà di Baby Block. E allora le domande poste da Dino nel suo libro - «Si può essere anarchici e padri nello stesso tempo? Come si riesce a salvare delle virtù collettiviste libertarie dall'assalto di una figlia appena nata e già individualista? Riuscirò a trasformare la perentorietà del “mio!”, nella ragionevolezza del “nostro”?» - non appaiono domande peregrine. Sono il sale dell'anarchia sparso sulle vive ferite della quotidianità.

Gianfranco Marelli



Arte/
La rivoluzione siamo Noi

Nel mitico '77, giovanissimo, ho avuto occasione di incontrare Joseph Beuys, libertario e uno dei più grandi artisti del secolo scorso, alla Documenta.6 di Kassel, una delle più importanti vetrine dell'arte contemporanea, paragonabile alla nostra Biennale veneziana. Mi aveva invitato, attraverso la Free International University di Dublino da lui fondata a tenere una relazione sull'architettura contemporanea in Algeria, paese dove lavoravo come docente all'E.p.a.u., la facoltà di architettura della capitale. Sapevo a malapena chi fosse lui e cosa la F.I.U.
Ricordo delle ricche giornate di discussione in una sala ricavata dietro una sorta di abside nel Centro del Museo Fredericianum dove era stata installata l'opera di Beuys Honigpumpe am Arbeitsplatz (Pompa del miele). Quest'opera era semplicemente ciò che il titolo suggerisce: Una pompa alimentata da un motore elettrico che metteva in circolo in alcune sale sino al tetto un liquido a base di miele. Chi volesse saperne di più legga il libro. Infatti questo testo, pubblicato solo nel 2011 in Germania e l'anno scorso in Italia, non è altro che la de-registrazione di un seminario con Beuys sul tema Cos'è l'arte effettuato due anni dopo, nel 1979, su proposta di uno dei partecipanti agli incontri di Kassel e membro della F.I.U, Volker Harlan, curatore di questo saggio.
La risposta a Cos'è l'arte? (a cura di Volker Harlan, Castelvecchi Editore, Roma, 2015, pp. 96, € 16,00) potrebbe essere l'arte è la rivoluzione. E per Beuys “la rivoluzione siamo noi” - in italiano originariamente -, come titola la sua famosa serigrafia del 1972 in cui è ritratto deciso, in cammino verso di noi con la sua divisa d'artista, il gilet da caccia-pesca, il cappello di feltro, la borsa a tracolla di cuoio. Feltro, cuoio aggiunti a grasso, metalli e materiali naturali sono gli elementi della 'scultura sociale' di Beuys. Beuys intende per scultura sociale, “la formazione da parte degli individui e con le loro sole forze della società: l'artista è colui che si dedica a quest'opera”.
“Qual è la necessità che giustifica la creazione di qualcosa come l'arte?” E così continua: “Comunque una cosa mi sembra soprattutto chiara: se questa domanda non diventa centrale nella ricerca e non trova una risposta davvero radicale, che consideri effettivamente l'arte quale punto di partenza per la produzione di ogni cosa, in qualsiasi ambito di lavoro, allora qualunque idea di ulteriore sviluppo è una perdita di tempo. Se vogliamo ridefinire e riformare la società, bisogna tenere a mente questa idea – ossia che ogni opera deriva dall'arte – perché inciderà anche sulle questioni economiche toccando i diritti umani e legali. Pertanto, siamo proprio dentro la questione della necessità dell'arte, che è senza dubbio anche la questione delle libertà”.
L'interesse di Beuys si concentra sull'uomo come singolo individuo, per lui l'arte coincide con l'uomo, superando così la tradizione Dada e Surrealista e in generale delle prime avanguardie di far coincidere l'arte con la vita. In questa visione ha grande importanza, oltre alla sua conoscenza dell'opera di Marcel Duchamp, il suo avvicinarsi al pensiero di Rudolph Steiner, all'Antroposofia ed alle venature anarchiche kropotkiniane del movimento.

Joseph Beuys (12 maggio
1921-23 gennaio 1986)

L'agiografia del personaggio racconta che Beuys da giovane pilota di caccia della Lutwaffe nella seconda guerra mondiale venne abattuto sopra la Russia e salvato da popolazioni nomadi che lo ospitarono in una yurta nella steppa. Qui venne curato con rimedi popolari. Gli venne spalmato del grasso su tutto il corpo, venne avvolto in calde coperte di feltro e guarito attraverso riti sciamanici. Da qui la sua nuova nascita, il suo ripudio della violenza e la sua decisione di cambiare il mondo attraverso l'arte e l'azione sociale. Da questa esperienza anche derivano i materiali, feltro, grasso, cuoio e metalli simbolici che Beuys sempre usa nelle sue opere e performance. In realtà in questa ricostruzione della sua avventura sciamanica si mescolano a fatti veri - l'abbattimento ed il recupero dalla carlinga schiantata nella neve da parte di popolazioni native - fatti non documentabili tenuti volutamente nel mistero dallo sciamano - così spesso verrà definito per l'intensità mistico-materialista delle sue azioni artistiche - Beuys.
Alighiero Boetti il grande artista italiano che conosceva ed apprezzava l'opera di Beuys in modo beffardo e ironico si auto-definì “Shaman-showman”, per sottolineare causticamente il fatto che ogni artista nel circuito moderno dell'arte cerca di presentarsi come una sorta di “sciamano” ma viene costretto, per esistere, a divenire di fatto uno 'showman', qualcuno che vende molto bene se stesso attraverso le proprie opere. E retrospettivamente questa definizione si attaglia perfettamente al nostro Joseph Beuys.

Franco Bunuga



Ana Mladic/
Una storia dentro la Storia

Un equilibrio sospeso tra storia reale e immaginaria realtà.
Il ritratto di una famiglia-tipo unita e quasi felice, padre, madre, figlio e figlia.
Quadri di vite apparentemente normali.
E sullo sfondo rumore che cresce come un temporale, all'inizio percepisci avvisaglie lontane, poi ti ritrovi dentro il vortice di una delle peggiori tragedie dei nostri tempi – perché sono nostri più di altri, geograficamente e cronologicamente, i tempi dell'ultima guerra nei Balcani.
Al di là delle etichette mediatico-erudite (qualcuno l'ha definita “degna erede di Cechov”), la scrittrice catalana Clara Usón ci regala un romanzo tragico e bellissimo che ricorda davvero certi grandi romanzi e soprattutto certi grandi romanzieri del passato (Clara Usòn, La figlia, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 496, € 16,00).
La genesi parte da un articolo di giornale che l'autrice legge e che la colpisce come una pallottola, una tragedia dentro la tragedia, che le guerre poi di questo son fatte, sostanza umana che si dissolve.
La Usón viene così a conoscenza della storia di Ana Mladic, figlia del generale Ratko, suicida a ventitré anni. Si documenta a lungo, setaccia le fonti, cerca, ipotizza, verifica e ricostruisce.
Il suo lavoro di inchiesta sulle disgrazie di un piccolo nucleo familiare e su quelle della grande, multietnica e multireligiosa famiglia orfana del generale Tito, produce il racconto degli ultimi mesi di vista di Ana, bella, intelligente, promettente studentessa di medicina.
Il racconto inizia con la breve trasferta a Mosca di Ana e di alcuni suoi compagni di università: giornate qualunque, uscite, bevute, la discoteca, discussioni con punti di vista diversi, come succede.
Parole, frasi, mozziconi di discorsi e poi un incontro che evolve dal romantico al drammatico, fanno sì che al ritorno dal viaggio Ana non sia più la stessa.
Silenzi pianti e tristezza cominciano ad abitarla, si fa strada in lei la lacerazione tra la volontà di riavere la vita (la fiducia) precedente e la consapevolezza che questo non sarà più possibile, non per lei soltanto, ma per un intero paese.
Questa dolorosa certezza finirà per disintegrare il suo mondo interiore - a quello esteriore ci stanno pensando con efficacia le bombe di suo padre. Fino al gesto estremo celebrato con l'arma di Ratko, quella stessa vecchia zastava che avrebbe dovuto sparare prima o dopo per celebrare l'arrivo di una nuova vita, così aveva promesso Ana a suo padre, al nonno dei suoi futuri figli. Uccidendosi con quella pistola, Ana lascia un messaggio al padre: il rifiuto di mettere al mondo i nipoti di un assassino.
Sconvolto dal suicidio della sua adorata figlia, nel luglio del 1995 Mladic compirà il massacro di Srebrenica.
La storia privata e la storia collettiva non smettono di intrecciarsi, tragicamente.
Sul conflitto nei Balcani si è dibattuto a lungo, tuttavia molti aspetti non sono stati mai chiariti e chissà se mai lo saranno; in primis il ruolo o non-ruolo dell'occidente. Sia quel che sia – la ricostruzione storica di un evento del genere è materia complessa – resta il fatto che quella guerra, come ogni guerra e ancor più ogni guerra civile, non fu esattamente una passeggiata né un pranzo di gala. Fu una guerra di privazioni sangue sofferenza massacri e atrocità, che colpì l'opinione pubblica nostrana soprattutto per il fatto che i protagonisti avevano più o meno pacificamente convissuto per molti decenni.
La posizione della Usón riguardo ai fatti storici è esplicita e coincide con la versione più accreditata della storia, quella che ha decretato la colpevolezza e stabilito la condanna di Milosevic, Karadži, Mladic e dei loro portaborse e seguaci. Per raccontarla, l'autrice usa l'espediente di un narratore “straniero”, Danilo Papo, di origine ebrea, il ragazzo dai capelli rossi che non fa colpo sulle ragazze e non riesce a conquistare il cuore della bella patriota Ana; in tutta questa vicenda la sua è l'unica voce possibile perché fuori dal coro, più oggettiva in quanto voce di “ostali”, di straniero. Ana, un pomeriggio dei primi anni Novanta, chiedendogli spiegazioni circa la sua identità, si sente rispondere: non sono nè serbo né croato, né ebreo né musulmano. Sono straniero. E lo straniero è sempre uno che non c'entra, anche se si ferma per tanto tempo, perché all'invitato non si chiede certo di baciare la bandiera.
Ai mattatori della guerra nei balcani Danilo dedica una breve e magistrale descrizione della storia personale, dell'ascesa al potere, un ritratto inedito insolito e intriso di sfumature ironiche (ironia a tinte fosche, non potrebbe essere altrimenti). A lui tocca il compito dell'autrice, l'inchiesta, la ricostruzione storica, la descrizione narrata di quel che noi in quegli anni vedevamo in TV o leggevamo sui giornali, spettatori distratti della sanguinosa disgregazione di un bel pezzo di continente. Il resto spetta ad Ana: perché di questo romanzo più che la guerra, la storia o il giudizio su entrambe, colpisce il taglio, il cui cuore è il rapporto tra la ragazza e suo padre. Senza scomodare gli psicanalisti, la lenta dissolvenza di questo rapporto diventa la dissolvenza di un paese, viaggia in parallelo a quel che stava insieme da decenni e poi in un amen non stava insieme più.
Ratko – che bucava i nostri schermi col suo sguardo di ghiaccio ed il collo taurino – è un padre affettuoso, orgoglioso di quella figlia con un brillante futuro di medico davanti a sé; tanto fiero da chiamarla “figliolo”, come a sottolineare che la stima è la stessa che si potrebbe riservare ad un maschio. Al confronto di Ana, il fratello appare figura sbiadita, così come la madre. D'altronde, anche questo può accadere in una famiglia-tipo... Ana contraccambia l'affetto paterno con una devozione pressochè assoluta; del padre ha assorbito gli ideali, il carattere determinato e una buona dose di innegabile talento.
La scoperta del doppio Ratko non è drammatica, non avviene di punto in bianco; piuttosto è crudele, perché succede a tappe, è un continuo sentire, tornare indietro, ricredersi, rimuginare, scoprire un altro pezzo; fino alla conferma finale che Ana trova nei diari del padre, annotazioni di pugno che non lasciano più spazio all'uomo che lei adora.
Il padre che la coccolava è lo stesso uomo che ha mandato a morire al fronte i suoi pretendenti. L'eroe buono della sua infanzia è lo stesso eroe dei serbi: il boia di Srebenica. E il padre che piange disperato sulla sua bara è lo stesso che osserva soddisfatto la fine di Sarajevo.
Se è vero che nessuno può scegliersi i genitori, il paese o il tempo in cui vive, è altrettanto vero che ciascuno può scegliersi il destino che ne deriva.
Con il suo gesto definitivo la bella, intelligente, promettente studentessa di medicina Ana Mladic non cambierà il corso degli eventi, non salverà il suo paese e non redimerà suo padre (che anzi poco dopo, come abbiamo detto, compirà il massacro di Srebrenica); ma restituirà un po' di dignità a una storia altrimenti troppo disumana per essere anche solo raccontata.

Claudia Ceretto



Bakunin/
Uno di noi

È mio convincimento, che ogni biografia non possa che essere, in qualche misura, un'autobiografia. Chi affronta l'esperienza di ricostruire le vicende, le passioni, il pensiero, di un altro uomo o di un'altra donna, a meno che non sia un mercenario o un accademico - ché lo scrivere per la carriera sovente non è poi troppo diverso dallo scrivere per una mercede - in realtà vive un dialogo e un incontro. Ciò vale a maggior ragione se il protagonista della biografia, chiamarlo oggetto mi sembra molto riduttivo, è personaggio sulfureo, contradditorio, tellurico quale fu Michail Aleksandrovic Bakunin.
Ed è proprio questa, a mio avviso, la caratteristica più evidente della biografia che Alessio Lega gli ha dedicato, Bakunin, Il demone della rivolta edita da Elèuthera nel novembre 2015 (Milano, pp. 192, € 14,00). Lo dichiara peraltro apertamente quando scrive che conobbe Bakunin leggendo il famoso o, se vogliamo, famigerato romanzo di Riccardo Bacchelli Il diavolo a Pontelungo e afferma “ho sempre pensato che il personaggio gli abbia preso la mano, e io finii per innamorarmi di quel “Michele” (scritto all'italiana, alla moda di quei tempi) Bakunin lì, e cominciai a cercarlo anche altrove, prima nei libri, poi nella realtà. Fu lì che mi dissi la prima volta: forse sono anarchico, a andai fuori a cercarmi i compagni”.
Chi è, dunque, il Michail Aleksandrovic Bakunin di Alessio Lega? lo cito ancora una volta. “Ciò che fa di Bakunin 'Bakunin' è la fantasia e l'amore, l'ottimismo e la radicalità, l'arte della rivolta e la vita dei sogni. Sono caratteri da personaggio letterario, ma era quella un'epoca nella quale la letteratura abitava per strada. Di quell'epoca, alcuni ne sono stati i filosofi e i pensatori (Marx, Proudhon), altri gli scrittori e i poeti (Herzen, Tolstoj, Vallès), altri i rivoluzionari e i profeti (Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Orsini).
Uno – a mio avviso – è invece la sintesi caotica di tutte le ragioni, i sentimenti e le azioni dell'epoca, della sfida lanciata a Dio e allo Stato: Michail Aleksandrovic Bakunin, il diavolo che si era incarnato nelle speranze e nelle paure di chi voleva o temeva le rivoluzioni, il demone che si è fatto di inchiostro nella letteratura: Rudin di Turghenev (1857), I Demoni di Dostoevskij (1871), Il Diavolo a Pontelungo di Bacchelli (1927), La sponda dell'Utopia di Stoppard (1992).”
Bellissima, a mio parere, la frase “quella un'epoca nella quale la letteratura abitava per strada”, la chiave, credo, dell'incontro fra l'autore della biografia e il personaggio del quale si occupa, la caratteristica che ne fa un lavoro, per molti versi, originale.
Un libro, almeno per quanto mi riguarda, ha preparato la strada al testo di Alessio Lega e si tratta della pubblicazione nel 2002, da parte di Zero in Condotta, dell'opera di Arthur Lehning Bakunin e gli altri - Ritratti contemporanei di un rivoluzionario, una straordinaria raccolta di testimonianze, fra le altre quelle di Aleksandr Herzen, Vissarion Belinskij, Ivan Turgenev, Friedrich Engels, Arnold Ruge, Wilhem Weitling, Georg Herwegh, George Sand, Richard Wagner, Pierre-Joseph Proudhon, Jules Michelet, Karl Marx, Albert Richard, James Guillaume, Errico Malatesta, Elisée Reclus, Petr Kropotkin.
Una raccolta che rende l'immagine di un uomo di straordinaria vitalità e complessità, di un uomo che aveva colpito profondamente chi aveva avuto la sorte di conoscerlo e di frequentarlo qualsivoglia fosse il giudizio che ne ha dato. Un libro che, sempre a mio avviso, dimostra che è stato proprio Bakunin a costruire, certo non per narcisismo, al contrario, l'immagine di lui che ci è stata tramandata.
Un Bakunin romanzato dunque quello di Alessio Lega? Al contrario, siamo di fronte ad una ricostruzione puntuale, fondata su documenti e sulla loro intepretazione ma certo un Bakunin a tutto tondo.
È vero che quella di Alessio Lega non è un'agiografia di Bakunin, nè si colloca nella stantia polemica fra lui e la coppia Marx-Engels che pure è puntualmente ricostruita, è, al contario, l'individuazione di alcuni passaggi essenziali della vita di Bakunin, la giovinezza e la prima formazione, il ciclo rivoluzionario 1848/49 il carcere e l'esilio, la fuga e il ritorno in campo, il rapporto con la prima internazionale, i tentativi insurrezionali, il vissuto e la complessa relazione, per fare il caso più importante con Cafiero. E nel ricostruire questi momenti, il Bakunin che ci viene consegnato appare nei momenti di debolezza, di difficoltà, di contraddizione. Il libro non nasconde il carattere “scandaloso” del suo rapporto con il denaro, scroccato e dilapidato con la medesima generosità, la caduta in stereotipi non gustificabili quali l'uso di luoghi comuni antisemiti, l'incredibile ingenuità, per non dire di peggio, che manifesta nella relazione Sergej Gennadievič Nečaev, relazione che tanto ha contribuito a gettare discedito su di lui.
Basta pensare a quanto scrisse di lui a James Guillaume, che di Nečaev, aveva un giudizio ben diverso come peratro lo aveva Aleksandr Herzen, il 13 aprile 1869 “uno di quei giovani fanatici che non conoscono dubbi, che nulla temono e che hanno deciso in modo assoluto che molti, moltissimi di loro dovranno perire sotto i colpi dei governi, ma che non per questo si fermeranno, sino a quando il popolo russo insorgerà. Sono magnifici questi giovani fanatici, credenti senza dio, eroi senza frasi”.
Il libro, peraltro, non evita di trattare ampiamente di un altro degli aspetti “oscuri” della vita di Bakunin, il rapporto con a moglie che tanto fu invisa a molti compagni del tempo e che invece Alessio ritiene, e su questo giudizio concordo pienamente, piuttosto vittima che colpevole di una situazione certo non ortodossa secondo la morale del tempo.
Un libro insomma godibilissimo dal punto di vista letterario, che non arretra di fronte alle contraddizioni, che ricostruisce una vita straordinaria e una passione inesausta per la rivoluzione e che, proprio non evitando le questioni problematiche, ci consegna un Bakunin che, proprio per questo motivo, sentiamo ancora di più “uno d noi”.

Cosimo Scarinzi



La Banda dello Zoppo/
Storia di un maquis toscano

La Banda dello Zoppo (“Storie di resistenza armata al fascismo”, di Angelo Pagliaro, Marco Capecchi e Fabrizio Poggi, Coessenza Editrice, Cosenza, 2015, pp. 225, € 12,00) è la naturale prosecuzione del primo libro, edito sempre da Coessenza nel 2012, dal titolo La famiglia Scarselli. Volti, idee, storie e documenti di una famiglia anarchica temuta da tre dittature. Nella prefazione a quel libro Pietro Ferrua, uno dei massimi studiosi dell'anarchismo, mi invitava a “redigere un secondo volume corredato da documenti processuali per chiarire le “ragioni futili” della baruffa, gli atti del tribunale che giudicò la “Banda dello zoppo” e altri aspetti politici e anche letterari, come il ritratto steso dal noto anarco-sovietico Sandomirski cui si fa allusione e che meriterebbero di essere approfondito”.
Per soddisfare tale richiesta e portare avanti un lavoro di ricostruzione storica così impegnativo c'è bisogno di un livello di conoscenze e competenze in vari settori molto elevato, che difficilmente sono possedute da una sola persona. Se si è convinti di ciò, e consapevoli dei propri limiti, non resta altro che cercare dei “complici”. Il caso ha voluto che tra i tanti lettori del libro sulla Famiglia Scarselli ci fossero i coautori di questo volume, Marco Capecchi e Fabrizio Poggi, ambedue originari di Certaldo e profondi conoscitori della storia del fascismo e dell'antifascismo toscano, nella quale si rispecchia una parte significativa delle loro storie familiari.
Abbiamo descritto le violenze delle squadre fasciste e i tragici scontri tra questi e gli antifascisti del febbraio-marzo 1921 in Toscana, compresi gli omicidi di Spartaco Lavagnini e Gino Mugnai, i fatti della fiera di Certaldo e quelli di Empoli. In seguito abbiamo ricostruito, grazie ad un manoscritto di Tito Scarselli pubblicato in URSS nel 1931, dal titolo “Negli artigli del fascismo” ritrovato nel 2011 presso la biblioteca di San Pietroburgo, le vicende della Banda dello Zoppo, gruppo partigiano comunista-anarchico capeggiato dall'anarchico Oscar Scarselli, datosi alla macchia all'indomani dei “fatti della fiera”. Nei cinque mesi in cui questo maquis, che anticipò la formazione degli arditi del popolo e delle brigate partigiane, imperversò nelle boscaglie di ben tre province della Toscana, aiutato, sostenuto e protetto da decine e decine di famiglie contadine mise a segno varie azioni: espropri presso le fattorie dei grandi proprietari, tentativi di rapina, scontri con carabinieri e polizia. Ma il 25 giugno 1921, sulla strada che porta da Montaione a San Vivaldo, si verificò un fatto che cambiò definitivamente la storia del gruppo partigiano: nel corso di uno scontro armato venne ucciso l'ingegnere fascista Mario Filippi. A seguito di un'analisi della situazione politica e militare creatasi, la banda dello zoppo decise di sciogliersi e di disperdersi cercando, in tutti i modi possibili, di espatriare clandestinamente.
Nel libro si raccontano le vicende processuali, politiche e umane dei singoli resistenti, si analizza il ruolo giocato dalla stampa dell'epoca, tra informazione e disinformazione, ed il rapporto città - campagna negli anni '20 in Toscana. In appendice si pubblicano numerosi documenti e foto inedite, frutto di ricerche durate un decennio, tra cui quella dei due fratelli Oscar e Tito Scarselli spedita dall'URSS negli anni '30 ed una che ritrae, ormai anziani, Ida, Ines Leda ed Egisto unici sopravvissuti di questa martirizzata famiglia anarchica.

Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com



“Uomini ignudi”/
Alle radici del pregiudizio e della passività

Re – Provate a guardarli... avete visto che faccia hanno? Avete mai visto uno di loro che vi sorride? Li avete sentiti come parlano?
Narratore – Quell'ometto dai corti baffetti neri riteneva che fossero nemici da combattere quelle persone che avevano un aspetto diverso dal suo che parlavano una lingua che non comprendeva.

Con queste parole si apre il testo Uomini ignudi. Bella (e carsica) la storia di questo spettacolo.
La prima teatrale si è svolta nel novembre 2009, ancora in fase di completamento, sul vagone Agorà di un treno per Auschwitz. Due le performance: per gli studenti in visita al lager di sterminio, la seconda per partigiani, ex deportati, alcuni sinti e rom, associazioni, gente comune anche loro in viaggio. In seguito, una decina le rappresentazioni in scuole e in altri contesti, con due diverse compagnie e regie, nelle provincie di Brescia e Bergamo.
Il testo della performance, scritto dalla nostra collaboratrice Claudia Piccinelli, è giunto alla sua terza regia, quella di Riccardo Colombini.
Ho assistito, lo scorso 25 gennaio, al teatro Lirico di Magenta (Milano), alla rappresentazione riservata ad alcune centinaia di studenti delle scuole superiori. Anche la replica serale aperta a tutti ha registrato un bel pienone.
L'argomento dello spettacolo è principalmente il Porrajmos, lo sterminio, lucidamente concepito e tragicamente realizzato dai nazisti, di circa mezzo milione di Rom e Sinti. Ma non solo: attenzione è dedicata anche agli handicappati psichici, agli omosessuali, agli ebrei. Gli stermini nazisti sono stati numerosi, “solo” due quelli contro popoli in quanto tali (ebrei e zingari). Anche i malati psichiatrici (i primi ad essere sterminati con il gas), i Testimoni di Geova, gli oppositori politici, i prigionieri di guerra, gli omosessuali, le donne “devianti e prostitute, le e gli “asociali” e altri ancora hanno avuto modo di passare per il camino.
Il Porrajmos: lo sterminio dei Rom e dei Sinti. Un tema di cui più volte si è parlato su questa rivista, che nel 2006 ha anche realizzato un doppio Dvd + libretto (”A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari”) divenuto poi un punto di riferimento e anche un materiale didattico presente in un numero crescente di scuole italiane. Oltre ad essere al primo posto nella bibliografia di riferimento per la stesura del testo di Uomini ignudi.
Lo spettacolo, nella sua nuova regia, mi è parso un po' sopra le righe, troppo gridato. Non facile da comprendere in tutti i suoi passaggi, forse anche per qualche problema di acustica, ma soprattutto per la forte caratterizzazione dell'uomo dai corti baffetti (Hitler), da parte dell'attore che lo impersonava. Anche l'uso dei dialetti, a tratti, non ha favorito la comprensione del testo così denso, preciso. Nitida, intrigante, equilibrata la recitazione delle due attrici-cantanti. Davvero notevoli le musiche scritte appositamente da Eugenia Canale e sovrapposte alle parole, come a sostenerle e a farle meglio entrare in circolo.
Leggendo il copione, mi sono ulteriormente convinto che simili testi necessitino di un ascolto “pulito”, asciutto, essenziale. La recitazione non dovrebbe, a mio avviso, rendere meno comprensibile il testo: dovrebbe fermarsi sulla soglia, senza strafare.

Magenta (Mi), Teatro Lirico, 25 gennaio 2016.
Spettacolo “Uomini Ignudi”
Da sinistra: Vaninka Riccardi, Matteo Curatella,
Sara Cicenìa, Roberta Villa (attori), Eugenia
Canale. (Riprese video: Sergio D'Antoni,
estrazione fotogramma: Elisabetta Bozzi)

Il lavoro di ricerca e ricostruzione storica e poi l'intelligente scelta dei temi da trattare, operata da Claudia Piccinelli – che della memoria delle persecuzioni naziste si è occupata anche in altri contesti – sono l'elemento di massimo pregio dell'intera operazione culturale. Il tutto, in una visione storica che si incrocia con la sua sensibilità personale e sociale.
“Si tratta” – afferma l'autrice – “di un testo teatrale corale, costruito con fedeltà ai documenti, ordinanze, circolari ministeriali, testimonianze ai processi. Ho voluto indagare il rapporto vittima-carnefice, la criminalizzazione della vittima, il conformismo alla base dei genocidi. Favorire il coinvolgimento emotivo del pubblico, soprattutto delle giovani generazioni”.

Eugenia Canale, pianista
(composizione musiche e loro
esecuzione in scena).
(Foto: Oliviero Trezzi)

Emerge un messaggio sottotraccia, modesto, non invasivo, che dallo sterminio di questi popoli nomadi si dilata fino a comprendere il nocciolo duro dell' esistenza. Coinvolge le nostre singole esistenze e quelle collettive di cui ci troviamo ad esserne parte.
Mi riferisco alla responsabilità, innanzitutto quella individuale. Le nostre responsabilità nella società e, più precisamente, di fronte al male e alla concreta esistenza di quanti ne sono vittime. Magari proprio da parte di quelle strutture e persone che si identificano con lo Stato.
Mi viene in mente quella ricerca sociologica effettuata nell'immediato dopoguerra negli Stati Uniti da alcuni scienziati sociali (tra i quali Theodor Adorno), i quali nell'analizzare il fenomeno dell'antisemitismo (quando i forni dei lager avevano smesso da poco di funzionare) giunsero alla conclusione che a monte si trattava di identificare e analizzare la personalità autoritaria e tale fu il titolo scelto per il libro che raccolse i dati e le interpretazione del loro lavoro.
E non è un caso che Claudia Piccinelli faccia riferimento a un esperimento compiuto da uno psicologo sperimentale, Stanley Millgram, per studiare la genesi dell'obbedienza e del conformismo. Il suo studio mise in luce che le persone da sole o in gruppo possono dare attuazione a varie forme di distruttività e di male. Con o senza la consapevolezza di farlo.
Di questo denso retroterra culturale dell'autrice non si ha alcun pedante riscontro nella performance. Studi e riflessioni che però innervano l'intero discorso, al punto che la apparente frammentarietà tematica che ci si para davanti agli occhi nell'oretta di durata di Uomini ignudi si ricompone come un lucido percorso, unico e chiarissimo, che ha nell'appello corale finale “tu puoi fare” la logica conclusione e il massimo punto etico. Un radicale contrasto con lo svuotamento di responsabilità per i carnefici e di perdizione di se stessi per le vittime, che sono stati il segno della Shoah, del Porrajmos e di tutti gli stermini del nazi-fascismo. E non solo di quelli.
Come di tutti gli altri genocidi di massa.
Come – se si va a ben guardare – di tutte le politiche aggressive degli stati e dei loro epigoni.

Paolo Finzi

Un momento dello spettacolo (Foto: Marco Cavallarin)

Lo spettacolo è stato realizzato nell'ambito del progetto europeo Memoir. Evento locale promosso da Opera nomadi Lombardia e Anpi Magenta.
Per contatti: www.claudiapiccinelli.it - Su questo sito è consultabile un estratto del testo Uomini ignudi.