rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017


grafica

Segno Libero

Le edizioni Elèuthera ristampano, 35 anni dopo la prima edizione (con le Edizioni Antistato), un libro di grafica (militante, si diceva allora), Segno Libero, realizzato da Ferruccio “Ferro” Piludu. Ferro è stato un grande grafico, da molti è considerato un maestro. Nella seconda metà degli anni '70 studiò per “A” una nuova veste grafica, che durò un decennio e che lui stesso venne a realizzare con noi nella tipografia anarchica a Carrara. Lavorò anche per i periodici Umanità Nova, Volontà Libertaria nonché per vari editori anarchici (tra cui appunto Antistato ed Elèuthera), molti poster, la comunicazione di vari Convegni di studi, ecc.
Coltivando al contempo la sua passione per l'aliante. Morì a 80 anni schiantandosi a terra con uno di quegli strumenti di volo e di libertà lui che aveva migliaia di chilometri sulle spalle.
Ci eravamo incontrati poco prima di quel tragico volo e propose di vederci e parlare di “A” e della sua impaginazione. Ci aveva pensato su e qualche idea in testa per rinnovarla l'aveva.
Ferro Piludu

Ripubblichiamo in questo dossier le sue premesse alla due edizioni anni '80 di Segno Libero e 18 pagine, che danno informazioni specifiche (i riferimenti a pagine precedenti non trovano riscontro nelle pagine ripubblicate) e al contempo aiutano a capire come la pensasse e come si esprimeva questo milanese di orgini sarde e di vita romana. Una persona professionalmente capace, un compagno esterno al movimento anarchico militante, un compagno di strada in empatia con i valori di fondo del nostro impegno. Anche con questa rivista, che sentiva giustamente anche come sua.



grafica

Attrezzi per la mente

di Ferro Piludu


Prima dell'attuale ristampa Elèuthera, Segno Libero aveva conosciuto due edizioni (1981 e 1986), per le Edizioni Antistato. Per ciascuna delle due Ferro Piludu aveva scritto una breve presentazione, con dentro tanto di sé e dei tempi. Rileggerle oggi, a 35 e 30 anni di distanza, ne conferma l'interesse e la profondità.


Avevamo incominciato a lavorare in tanti

Non mi ricordo bene quando ho smesso di avere paura. È accaduto certamente piano piano, un po' alla volta. Una volta perché ho scoperto che il buio è, di fatto, l'altra faccia della luce e ha dentro, di terribile, soltanto quello che noi vogliamo metterci.
Un'altra volta perché mi sono reso conto che l'acqua tiene benissimo a galla se fai tanto di avere un po' di fiducia e ti lasci semplicemente andare (enunciato non usuale, ma altrettanto scientifico, del principio di Archimede).
Un'altra volta ancora, forse la più importante, perché mi sono accorto che sbagliare non è sicuramente colpa (né peccato) ma, piuttosto, la maniera più rapida per conoscere e scoprire e che solo una divinità cieca e idiota e i suoi rappresentanti terreni (preti, maestri, vecchie signore) possono condannare chi sbaglia.
Così, un po' alla volta, sono riuscito a capire che il contrario di paura è conoscenza e che conoscenza è una grossa parte di quella cosa che chiamiamo libertà. Da qui all'impegnarmi ad analizzare i meccanismi del conoscere (per cercare di imparare più in fretta e meglio) il passo è stato breve. Ho dovuto, è evidente, mettermi a smontare una serie di convinzioni ben radicate che avevo dentro.
In primo luogo che conoscere e imparare è difficile e che, per conoscere e imparare, bisogna essere intelligenti.
In secondo luogo che intelligenti e bravi, con le attitudini insomma, ci si nasce, come si nasce veri signori, navigatori, santi e poeti. È stata una battaglia dura. Ho letto tutti i libri che mi sono capitati a tiro e ho parlato con tanta gente. Ho cambiato idee, amici, donne e lavoro. A trent'anni suonati ho smesso di fare il perito tecnico industriale specializzato in impianti petroliferi e mi sono messo a lavorare con immagini, segni, messaggi e con faccende come l'informazione e la comunicazione. Siccome la lezione l'avevo imparata, mi sono preoccupato, per prima cosa, di avere bene nelle mani il mestiere.
Ci ho messo buoni quindici anni – e ancora sto imparando – a dimostrazione che un po' tardo lo sono davvero e che, a lavorare soli, i tempi sono lunghi.
Poi è venuto il '68, che dio lo benedica.
Ho fatto appena a tempo (avevo già una certa età) a entrare ufficialmente nella scuola e a farmi altrettanto ufficialmente cacciare via quattro anni dopo. Ma intanto molte cose erano successe. Avevamo incominciato a lavorare in tanti, i ragazzi ed io, e tutte le cose che avevo pensato e imparato le abbiamo prese, riguardate, smontate e rimesse assieme. Ho fatto anche il salto. Dalla professione, dal mestiere sicuro, sono passato dall'altra parte tra quelli che volevano, per davvero, cambiare. Ho incontrato gente scombinata e meravigliosa: Anna e Aldo, Dino e Alfonso, quei pazzi dell'Antistato. Il passaggio da ambienti come gli art director's clubs a scuole di campagna, cantine, vecchi magazzini (sempre senza finestre o con i vetri rotti, chissà perché) non è stato poi così duro. Perché dalla parte giusta ci si sta sicuramente meglio: intanto più allegri e poi con più voglia di fare, di cercare, di scoprire. Questo libro è un po' la storia di tutta questa faccenda. È, credo, un libro politico (ma non intenzionalmente politico) in tempi in cui la politica non è più di moda. È anche probabile che, come libro, sia un disastro: è pieno di approssimazioni, imprecisioni e anche di errori.
A veder bene, non è neanche un libro. Ma, per metterlo assieme, ci ho messo – ci abbiamo messo – quasi due anni. Perché, se si vive in una certa maniera, il tempo non c'è mai e il denaro poche volte. Comunque, eccolo qui. Provate a prenderlo come un cacciavite o, meglio, come un pennello.
Se – come libro, cacciavite o pennello – potrà in qualche modo aiutarvi a raccontare una storia, vostra o di gente in cui credete, sarà certamente servito a qualcosa.

Ferro Piludu
Roma, febbraio 1981


Aspettando un treno che parta davvero

Quando, negli anni tra il 1979 e il 1981, abbiamo messo insieme «Segno libero», si incominciava appena a parlare di faccende come il «riflusso» e il «privato». C'erano centinaia di radio libere e un buon numero di emittenti televisive non ancora travolte dagli scontri tra mamma RAI e Berlusconi. Si pensava a quotidiani di quartiere, a settimanali di cultura e di opinione. Anche se, a dire il vero, segni e figurazioni tendevano già ad una giapponese e nibelungica cattiveria, i muri delle città inviavano i loro messaggi colorati certo di consumo e consenso, ma anche di idee, fantasia e denuncia.
Insomma un sacco di gente aveva proprie storie da raccontare e aveva voglia ed urgenza di provare a raccontarle. Poi i tempi – come è giusto che avvenga – sono cambiati. Le storie da raccontare – le idee – sono diminuite di numero e di spessore. In un rifiuto puntiglioso e testardo dell'impegnato, del sociale e del politico – travolti dalla disco-music e dall'umorismo demenziale – i messaggi si sono intricati e stemperati nel personale e nell'intimo delle centoventisei puntate degli sceneggiati e delle telenovelas.
Le immagini sull'onda dell'emergente moda futuristico-fascista si sono fatte acide, spigolose e puntute. Gli eroi – guarda caso – mettono in mostra torsi nudi, grandi muscoli e teste piccole.
Intanto «Segno libero» – pensato come uno strumento autonomo per la libera elaborazione di messaggi – influenzava – più o meno marginalmente – la formazione di gruppi impegnati in diverse avventure comunicative ed editoriali. Ma trovava e trova anche impieghi in quella certa e rinnovata ricerca di «professionalità» che è un po' la bandiera dei giovani del 1985. È stato e viene utilizzato come testo «basic» di progettazione e di grafica in scuole di grafica e di comunicazione visiva. È impiegato, sempre come testo basico e di riferimento, in corsi e seminari di «aggiornamento professionale» per insegnanti di scuole elementari e materne impegnati nei nuovi programmi di «educazione alla visione».
Riguardandolo abbiamo trovato pagine e cose che oggi non vorremmo più scrivere così e pagine e cose che non scriveremmo affatto. Può sembrare – se volete – ingenuo e umile come tanti strumenti di lavoro: cacciavite, tenaglie, scalpelli, matite, pennini, pennelli, caratteri mobili. O «datato» come le canzoni dei Beatles, di Bob Dylan o di Lucio Dalla. Ma ci è sembrato quasi un «dovere» lasciare tutto come stava. Siamo convinti che il «privato», il «riflusso» e l'«effimero» comincino – era ora! – a manifestare crepe, rughe e segni di stanchezza e pensiamo che c'è ancora un mucchio di persone che – proprio adesso – hanno proprie cose da dire e storie da raccontare.
Questa seconda edizione è dedicata a loro e in generale a chi – come noi e il Lucio di cui sopra – sta aspettando, con sufficiente pazienza, «un treno che parta davvero».

Ferro Piludu
e il Gruppo Artigiano Ricerche Visive
Roma, settembre 1986