rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017





Vedere i morti

Ce lo ricordiamo bene Aylan Kurdi, il bambino nato a Kobane e morto sulle spiagge di Bodrum, il 2 settembre 2015. Ci ricordiamo l'immagine del corpo sulla spiaggia, così poco assimilabile a un cadavere eppure senza respiro. Ci ricordiamo che ci ha commosso e che abbiamo fatto tutti rimbalzare la foto sul web, pensando che quella forma di resistenza, almeno, era possibile. Attraverso la foto di Nilufer Demir, si è celebrato una specie di rituale funebre sul quale, personalmente, ho moltissime riserve, e che tuttavia ha sicuramente raggiunto almeno a un obiettivo: farci “vedere” Aylan, nella sua soggettività, prima di trasformarlo, banalmente, in un'icona.
Quest'icona ha la meglio, per esempio, sui 150 profughi, tra siriani e palestinesi, che annegano il 28 agosto dello stesso anno a largo della Libia. Nicholas Mirzoeff – esperto di media e, come lui stesso si definisce, “visual activist in an uncertain world” (attivista visuale in un mondo incerto) - ricorda i fatti di quest'ultimo naufragio in un post dell'1 settembre, sul suo seguitissimo blog How to see the world (wp.nyu.edu/howtoseetheworld). Tra le altre cose, si chiede come mai le foto di quel tragico viaggio – gli stessi corpi bambini, la stessa inaccettabile violenza in un mare sempre più chiuso e pavimentato di vite perdute – siano passate inosservate, e facebook le abbia addirittura, a un certo punto, rimosse.
30 giorni circa dopo Aylan Kurdi, in uno degli innumerevoli bombardamenti di Aleppo, muore Mireille Hindoyan, nuotatrice promettente che aveva deciso di continuare a gareggiare anche dopo l'inizio della guerra. Muore per sbaglio, perché ha deciso di modificare la sua routine e non andare a nuotare. Perciò quel mattino alle 11.00 è con i suoi genitori quando lei e il fratello vengono centrati in pieno da una bomba. Anche Mireille sembra “poco fotogenica”, come i 150 profughi di cui sopra. Forse è morta nella parte sbagliata di Aleppo, o forse non era ancora abbastanza famosa. Forse la querelle giornalistica che ha seguito il bombardamento, quella in cui si cercava inutilmente di decidere se le bombe erano governative o dei “ribelli”, ha finito per cancellare il nome, e con quello l'identità di una diciannovenne che aveva ancora tutto il suo tempo da vivere.
Ora, il mio punto è: perché certe vittime diventano famose e perché altre no? Per quale motivo la foto di Aylan Kurdi è rimasta nei nostri occhi ed è stata infinitamente lavorata e rilavorata da artisti famosi come da cantastorie popolari? Lo spiega bene, in un articolo su Artribune, Giulio Dalvit. Anche lui imbrigliato dall'enorme fama della foto di Demir, il giovanissimo storico dell'arte scrive che quel ritratto non può non diventare indimenticabile.
Incorniciato dalla spiaggia di un Mediterraneo che amiamo e che è “Mare Nostrum”, con abiti occidentali e con la pelle chiarissima, il bambino pare addormentato. Potrebbe essere nostro figlio, ed essere morto per una tragica fatalità (e non per una chiara responsabilità politica, in buona parte anche nostra). Inoltre, la posizione di Aylan evoca un'iconografia religiosa sacrificale automaticamente presente nella nostra mente di occidentali. Nel suo farsi “agnus dei”, Aylan Kurdi diventa automaticamente una morte necessaria, che richiama il nostro cattolicissimo senso di colpa, permettendoci l'espiazione (attraverso il pentimento) e la rapida rimozione del problema.
Che appunto resta, perché, come scrive Paul Gilroy, queste sono solo pseudo-solidarietà d'accatto, che – aggiungo io – non ci portano in alcun modo più vicini alla risoluzione del problema: per la verità non riusciamo neanche, davvero, a vederlo.

Nicoletta Vallorani