Chiapas/
Una proposta che fa discutere: un'indigena alla presidenza del Messico
“Ci dichiariamo in assemblea permanente e verificheremo
in ognuna delle nostre geografie, territori e direzioni l'accordo
di questo quinto Congreso Nacional Indígena (CNI), per
nominare un consiglio indigeno di governo la cui parola venga
incarnata da una donna indigena, delegata del CNI come candidata
indipendente che partecipi a nome del CNI e dell'Esercito Zapatista
di Liberazione Nazionale (EZLN) nel processo elettorale dell'anno
2018 per la presidenza di questo paese”. Sono le parole
con cui l'EZLN e il CNI, uno spazio organizzativo che riunisce
i popoli indigeni messicani in resistenza, hanno concluso il
congresso che si è tenuto tra il 9 e il 14 ottobre a
San Cristóbal de Las Casas (Chiapas).
Una settimana di assemblee in cui si sono dibattuti i pro e
i contro della possibilità di creare un Consiglio Indigeno
di Governo, composto da una donna e un uomo di ogni popolo nativo
messicano, che guidino l'operato di una candidata presidenziale.
Una donna che dovrebbe, in pratica, “comandare ubbidendo”,
come dicono gli zapatisti. In questo momento, nelle comunità
indigene messicane si sta svolgendo una “consulta”
sulla proposta, e a fine dicembre si terrà una nuova
riunione a San Cristóbal de Las Casas per prendere una
decisione. Non si tratta di una proposta politica rivolta solo
ai popoli indigeni, ma a tutta quella parte della società
messicana preoccupata per le politiche di repressione e depredazione
che stanno colpendo il paese, spesso messe in atto da imprese
che utilizzano come loro braccio armato la criminalità
organizzata protetta dalle autorità.
Una situazione che negli ultimi anni non ha fatto che peggiorare;
secondo gli zapatisti, quello che sta arrivando è una
“tormenta”. Scrivono: “L'offensiva contro
i popoli non cesserà, vogliono incrementarla fino a quando
avranno spazzato l'ultima impronta di quello che siamo come
popoli della campagna e della città”.
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Caracol della realidad (Chiapas) - Zapatisti in occasione dell'omaggio a Galeano, assassinato nel maggio 2014 |
La proposta di presentare una candidata alle presidenziali del
2018 rappresenta un giro di timone per l'EZLN che nel 2016,
in piena campagna elettorale, attraversò il paese con
la Otra Campaña, un'iniziativa che aveva lo scopo di
riunire le organizzazioni anticapitaliste del paese per promuovere
la creazione di un piano nazionale di lotta. A quel tempo, il
candidato socialdemocratico Andrés Manuel López
Obrador criticò fortemente la Otra Campaña, accusandola
di dividere la sinistra facendo il gioco della destra. Oggi
piovono le stesse accuse sulla proposta dell'EZLN e del CNI
di presentare una candidata alle prossime presidenziali.
La popolare giornalista Sanjuana Martínez, in un articolo
sul portale progressista sinembargo.mx, ha affermato che il
CNI ha deciso di candidarsi alle elezioni proprio allo scopo
di favorire l'ultraconservatore Partido de la Revolución
Institucional (PRI), ricordando come nelle sue file militi
la presunta sorella del Subcomandante Marcos (oggi Subcomandante
Galeano).
La possibile candidatura di una donna del CNI alle elezioni
è stata criticata anche da persone vicine al movimento
zapatista, che pensano sia incoerente rispetto a quanto l'EZLN
ha sempre dichiarato, soprattutto a partire dalla Otra Campaña
del 2006.
A ben vedere, la Otra Campaña criticò fortemente
i tre principali partiti politici del paese e invitò
il popolo ad organizzarsi e lottare, ma non ha mai invocato
esplicitamente all'astensionismo. In un editoriale sul quotidiano
La Jornada, il direttore Luis Hernández Navarro
ricorda che, poco dopo la Otra Campaña, il Subcomandante
Marcos disse: “chi vuole votare, voti”. E più
recentemente, nell'aprile 2015, dal palco del Caracol di Oventic
il Subcomandante Moisés affermò: “In questi
giorni, come ogni volta in cui c'è questa cosa che chiamano
“processo elettorale”, ascoltiamo e vediamo che
qualcuno esce fuori dicendo che l'EZLN promuove l'astensionismo,
ossia che dice che non bisogna votare. Questa ed altre stupidaggini
dicono. Come zapatisti non convochiamo a non votare ma neanche
a votare. Come zapatisti ogni volta che possiamo diciamo alla
gente che si organizzi per resistere, per lottare, per avere
quello di cui ha bisogno”. Ovvero: che votiate o meno,
organizzatevi.
Ad ogni modo, è importante sottolineare che la proposta
zapatista è quella di presentare una candidata alle elezioni
presidenziali, e non di creare un partito ed eleggere deputati,
senatori o sindaci (il Messico ha un sistema elettorale presidenziale
e i cittadini sono chiamati ad eleggere direttamente il Presidente
della Repubblica).
Da quanto si può immaginare leggendo le loro parole,
con ogni probabilità prima delle elezioni l'EZLN e il
CNI faranno un tour per il paese con l'intenzione di rendere
visibili le resistenze e rafforzarle, tracciando un solco nel
futuro del Messico attraverso la figura meno considerata dalla
classe politica: una donna indigena. “La nostra lotta
non è per il potere, non lo cerchiamo; chiameremo i popoli
originari e la società civile ad organizzarsi per fermare
questa distruzione, rafforzarci nelle nostre resistenze e ribellioni,
ovvero nella difesa della vita di ogni persona, famiglia, collettivo,
comunità o quartiere. Di costruire la pace e la giustizia
ricucendoci dal basso, da dove siamo quello che siamo”.
Secondo Eugenia Legorreta Maldonado dell'Universidad Iberoamericana,
lo scopo dell'EZLN non è vincere le elezioni, ma dare
uno scossone alla classe politica del paese.
Può una candidata presentarsi alle elezioni senza la
volontà di prendere il potere? Può un esercito
combattere affinché non ci siano eserciti? Ci si può
mettere un passamontagna per essere finalmente visti?
La candidatura indigena alle presidenziali messicane sembra
uno dei tanti non sense che gli zapatisti hanno creato
nei loro 22 anni di vita pubblica. Occorrerà aspettare,
dare loro tempo di dimostrare che quest'iniziativa non finirà
“corrompendo” il movimento, ma promuovendo la resistenza
del popolo messicano.
Orsetta Bellani
La terra è di chi la canta/
Cesare Basile, Catania, il teatro Coppola
Gerry - Ci sono degli artisti che, fortunatamente, sfuggono alle classificazioni, alle biografie, alle “etichette” (anche quelle discografiche...) e dei quali puoi carpirne l'essenza solo attraverso un attento ascolto, una diversa lettura, del loro stato d'animo, prima ancora dei testi che scrivono. Cesare Basile è uno di questi, di lui puoi respirare l'umore e sentire il passo, decifrare la portata della sua narrazione, avvertire la presenza del suo canto sciamanico che diventa un atto liberatorio, un potente gesto d'amore. Cesare Basile è una sorta di viandante che puoi incontrare sul tuo cammino, magari “dietro l'angolo”, se sei disposto a rallentare e soprattutto a guardare da un altro punto di vista.
Cesare, c'è bisogno di camminare leggeri per poter raccontare bellezza e far affiorare le storie delle genti, attraverso l'utilizzo del canto e della narrazione, che la cecità e l'ottusità contemporanea non permettono di vedere.
Cesare - Direi che c'è bisogno di guardarsi intorno, stare in ascolto, prestare orecchio alle oralità delle storie e della storia non scritta. La narrazione contemporanea non necessita di fonti o le crea artificialmente, è narrazione indotta. Io provo ad ascoltare e trovare le fonti del mio narrare aggirandomi per il piccolo mondo delle strade di ieri e di oggi.
Il tuo nomadismo artistico è la cifra della tua natura o è una scelta? Non è casuale comunque che il gruppo che ti affianca di recente nei concerti si chiami “Caminanti”...
Ho sempre pensato che la stanzialità determini tutta una serie di gerarchie funzionali al mantenimento di strutture oppressive, rigide, sistemi di difesa di piccoli e grandi privilegi. La stanzialità, fisica o psichica che sia, produce autocompiacimento, identità esclusiva, sfruttamento e paura dell'altro. Il vagabondare, altrimenti, ci determina come individui in viaggio, in trasformazione continua, disposti all'incontro con tutte le unicità che attraversano le strade del mondo.
Puoi essere vagabondo anche in un cortile
Dal tuo passato incline al folk americano all'attuale
“consapevolezza territoriale” e di conseguenza all'utilizzo
della tua lingua madre, il catanese, nei tuoi ultimi lavori.
Una sorta di transumanza della tua espressività, della
tua coscienza critica, prima ancora che artistica, che ti ha
portato a sperimentare linguaggi ed esperienze in diversi luoghi
per poi tornare nella tua terra (se ancora ha un senso definire
così la terra di provenienza) e provare a cantarla.
Ho semplicemente realizzato che cantare la mia terra, cioè
il luogo che mi ha dato il primo abecedario, era il modo migliore
di cantare il mondo. Mi sono dannato per anni girando intorno
al blues del grande fiume fino a quando il grande fiume mi ha
riportato a casa. Mi sono ricordato di un cantastorie come Ciccio
Busacca ascoltando il dolore di Blind Willie Johnson e sono
dovuto passare per le litanie di Diamanda Galas per capire quelle
di Rosa Balistreri. Puoi essere vagabondo anche in un cortile.
Ti fa piacere essere descritto come una sorta di odierno
cantastorie? Quanto i cantastorie, o i cuntastorie, hanno
influito nella tua scelta di utilizzare il dialetto? Pensi sia
più facile, più efficace, raccontare i soprusi,
le ingiustizie, l'umanità dolente, ai margini, utilizzando
la propria lingua?
Il cantastorie aveva bisogno di una piazza, di un incrocio senza
macchine, di uno slargo in cui raccontare senza permessi di
polizia. La società contemporanea non è luogo
per cantastorie. Non sono un cantastorie, non ne ho né
la forza né la provenienza sociale, ma ho ascoltato le
loro voci da piccolo e le lascio girare nella mia testa da grande.
Tanti di loro erano analfabeti e venivano dal lavoro nei campi,
io sono un borghese a cui hanno insegnato a leggere e scrivere;
attraverso la lingua dei cantastorie, attraverso la poesia della
terra sudata, provo a dimenticare quello che ho studiato. Non
c'è una lingua adatta a raccontare i soprusi, ma serve
attenzione per accorgersi dei soprusi.
Sei stato tra i promotori dell'Arsenale (Federazione
Siciliana delle Arti e della Musica) con la quale hai dato
vita all'occupazione del Teatro Coppola di Catania. Raccontaci
questa lotta e che cos'è oggi il Teatro Coppola, Teatro
dei cittadini.
L'Arsenale è stato il frutto di un bisogno di condivisione,
il racconto di un momento in cui tanti artisti siciliani hanno
sentito l'urgenza di costruire insieme una rete che si muovesse
al di fuori delle regole istituzionali, il tentativo di dare
vita a un mutuo appoggio che ci tirasse fuori dall'assistenzialismo
ricattatorio dei fondi per la cultura. A Catania quell'esperienza
è confluita nell'occupazione del Coppola che da cinque
anni è, di fatto, un esperimento libertario, laboratorio
di relazioni e luogo di sottrazione alla falsa dicotomia legalità/illegalità.
Peppino Impastato ci ha insegnato che...
Per raccontare la tua città hai anche scritto un romanzo, “Nero Immobile”, accompagnato dalla colonna sona dei Calibro35. Che tipo di esperienza è stata per te?
Più che un romanzo era un racconto lungo, un esercizio di stile nato dal mio amore per Giorgio Scerbanenco e dalla voglia di raccontare una sconfitta. Io scrivo canzoni e lo trovo già abbastanza complicato per cimentarmi pure con la prosa letteraria, però avevo questa storia e l'ho condivisa con i Calibro, così ne abbiamo fatto un reading musicato e l'abbiamo portato in scena un po' di volte. Da quelle esperienze live è nata l'idea di realizzare un cd con allegato il testo completo del racconto.
Dalla “militanza” al Coppola nasce l'impulso del tuo lavoro omonimo e dal tuo attivismo No Muos scaturisce “Libertà mi fa schifo, si alleva miseria”. Due (dei tanti) episodi di cronaca dal basso che svelano tutto il piano di appiattimento e annientamento delle coscienze messe in atto dallo stato governativo mafioso in cui viviamo. Peppino Impastato ci ha insegnato che le lotte si conducono con la rabbia, il coraggio, la consapevolezza, l'intelligenza e l'ironia. Fabrizio De Andrè cantava “voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo”. Per te Cesare, quale è la spinta, l'antidoto, per evitare di farsi derubare anche il sogno, l'amore?
La spinta è sempre non lasciare che altri sognino o amino al posto tuo. Nessuno può farlo per te, nessuno può essere la tua libertà.
Credo che parlare oggi di Cultura Libera, per non rischiare di restare intrappolati dalla facile demagogia che porta alla mistificazione, alla mitizzazione e alla sterile idealizzazione, debba essere l'espressione di un anelito forte, di una motivazione urgente, anche per coniugare tutti quei temi che inevitabilmente hanno a che fare con il concetto stesso di cultura: il lavoro, il sapere, il diritto allo studio, alla casa, il rispetto dei diritti civili, dei diritti dei migranti, gli spazi di autogestione e produzione dal basso, le precarietà, la sanità che crea malattie e ti assoggetta al nuovo controllo sociale mediante farmaci, le carceri e i manicomi che continuano inesorabilmente a mietere vittime. Sei d'accordo?
Simone Weil scriveva che spetta agli uomini vigilare affinché non sia fatto del male agli uomini.
A proposito di diritti, sei stato fra i pochi che in modo chiaro, netto e determinato, forse anche grazie proprio all'esperienza dell'occupazione del teatro Coppola, ha fatto luce sul discutibile (uso evidentemente un eufemismo) atteggiamento dell'enclave SIAE sulla questione atavica ed annosa (oltre che dannosa) del diritto d'autore. In un paese come il nostro, peraltro, dove di diritto a suonare si parla pochissimo. E il tuo ultimo disco “Tu prenditi l'amore che vuoi e non chiederlo più” non è depositato nello scrigno prezioso del diritto d'autore...
Ho fatto luce su qualcosa che conoscono tutti, sul segreto di Pulcinella che a tutti torna comodo. La SIAE si garantisce connivenze dividendo un po' di soldi qua e là. Alcuni ne prendono, tanti, altri di meno, in pochi gestiscono la spartizione e ne intascano la fetta più grossa, tutti con la coscienza a posto, al riparo dietro la grande menzogna del diritto d'autore, questa estensione perversa di quell'altra mostruosità che chiamiamo proprietà privata.
Uno sloveno indomito, un giullare
Ironia della sorte, con il disco, di cui sopra, hai rivinto la targa Tenco nel 2015. Ricordiamo che avevi già vinto in precedenza, nel 2013, con l'album omonimo. Un premio, quest'ultimo, archiviato e passato agli annali per la tua decisione di non ritirarlo per le note vicende SIAE, relativamente agli attacchi dell'allora presidente Gino Paoli (successivamente indagato per evasione fiscale, altra ironia della sorte!) al Teatro Valle occupato di Roma e alle altre esperienze di autogestione simili e alle conseguenti polemiche con il club Tenco stesso che aveva annullato il concerto, da loro organizzato, “Situazioni di contrabbando”, al quale avresti dovuto partecipare, per evitare “dissidi fra le due parti”. Insomma, l'ironia è pregnante. E ironia della sorte nell'edizione di quest'anno in qualche modo sei presente con la produzione del disco di Roberta Gulisano, autrice e cantante siciliana di indiscutibile talento. Raccontaci, alla maniera di “Presentazione e sfida”, se nel frattempo è cambiato qualcosa, ma soprattutto, raccontaci di Roberta e di questo lavoro Piena di(s)grazia.
Mi piace l'ironia, difatti la seconda volta il premio l'ho ritirato. Roberta ha scritto delle buone canzoni, si è messa in discussione, ha virato improvvisamente una direzione musicale che, secondo me, la teneva in trappola, si è lasciata tentare dalla libertà e tutto questo l'ha trasformato in un gran disco.
Parlaci della tua partecipazione alle riprese e alla colonna sonora del film-documentario della regista slovena Petra Seliskar su Frane Milenski Jezek. Chi era costui e cosa ti ha colpito della sua vita?
Uno sloveno indomito, un giullare, uno che scriveva fiabe per bambini, canzoni per i pazzi e gli alcolizzati, per le puttane e per le madri, uno che declamava poesie negli ospedali, una maschera sbattuta in faccia al potere e dal poter perseguitato. Mi sembra abbastanza per esserne colpiti.
“Nunzio che ha un cuore di latta e lo batte a grancassa...” e al potere che lo soggioga e lo opprime con il miserabile ricatto della libertà, lui urla forte “sugnu Nunzio, Maistà, ju ma fici la a libertà”. Questo tuo brano, come altri in cui sei una sorta di autore di tradizione, è la testimonianza inequivocabile della forza dirompente del dialetto, l'unica lingua che in qualche modo può ridare un senso all'utilizzo della parola e quindi alla dignità, alla giustizia, all'affrancarsi dagli imbonitori di regime. È un atto di libertà in quanto è la risultante del proprio stato d'animo e non dell'imbuto dal quale ci hanno ingozzato di concetti preconfezionati.
Come dicevo prima non esiste una lingua che meglio di un'altra si presta alla libertà, io uso il Siciliano perché, al momento, nel Siciliano ho trovato il mio modo di cantare la libertà, di farmi la libertà.
C'è un tema ricorrente nei tuoi pensieri, nelle tue riflessioni, che non sei ancora riuscito a traslare in canzone? Di cosa vorrebbe cantare Cesare Basile?
Vorrei cantare la paura con cui siamo costretti a convivere fin dalla nascita, ci sto provando.
Nel caso ci ricapitasse di imbastire una conversazione in forma d'intervista, di cosa vorrebbe parlare Cesare Basile?
Di come si forgiano i bastoni nel fuoco.
Per contatti, facebook: Cesare Basile
Gerry Ferrara
Ecoteologia/
Il gioco e la gioia
Durante l'estate appena passata mi son trovata ad ascoltare molte cose interessanti e diverse tra loro per ambiti di provenienza e contenuti. Da questo sono nate constatazioni e anche necessità, tra cui la più importante è senz'altro quella di riflettere sulle parole che usiamo e di cui ci riempiamo la bocca. Una fra tutte la parola libertà. Definizione strausata, e con grande superficialità, insieme ad altre quali amore, giustizia, bellezza... che infarciscono i nostri dialoghi tanto che alla fine uno si domanda di che cosa si stia parlando, se ci intendiamo sul significato dei termini e anche se a ognuno di noi quello stesso significato sia davvero chiaro.
Ragionare sul linguaggio e come lo si usa è cosa di non poco conto, visto che è proprio il linguaggio a dar forma alla nostra personalità ed è grazie a esso che ci intendiamo o scontriamo, quindi, se si vuole discutere in termini di cambiamento, non si può fare a meno di prenderlo in considerazione seriamente, disponibili a che le nostre certezze più care possano venir scardinate e a dare valore alla domanda continua, al dubbio.
Frequento con eguale interesse ambienti di stampo libertario e altri che a questo sommano la ricerca di una religiosità fuori dalle chiese e mi fa star bene, arrivata a compiere sessant'anni, sentire di essere senza luogo di appartenenza e non aver bisogno di sposare nessun dogma politico nè religioso. Forse è per queste ragioni che apprezzo la parola inglese queer - da poco in auge alle nostre latitudini e adoperata inappropriatamente per dire del mondo gay/lesbico - che va a definire tutto ciò che non vuol stare in nessuna categoria, che procede in maniera trasversale, che è “storto”, quindi lontano da certezze. Ultimamente mi è capitato di incrociarla più volte, di recente a un incontro al quale ho collaborato e partecipato durante l'estate (Distruzione o cambiamento? Ecoteologia per il XXI secolo, tenutosi nei pressi di Firenze ai primi di luglio), dove, in estrema sintesi, attraverso riflessioni diverse è stato detto come sia fondamentale dar “corpo sociale” a tutta quella realtà non duale - quella che cerca di non separare tra buono/cattivo, bianco/nero, etc. - che si sta formando sperimentalmente lungo i bordi della nostra società e nelle situazioni più differenti. Una realtà molteplice di “senza nome”, di luoghi dove si provano a costruire pensieri e pratiche di vita in maniera cosiddetta libertaria - ossia in ricerca dell'esperienza che dà corpo alla parola libertà - cercando di non essere afferrati e strumentalizzati con etichette da quel neoliberismo che tutto ingloba e cataloga a suo uso e consumo.
Samuele Grassi - autore del volume Anarchismo queer già presentato su queste pagine - in quel contesto ha inserito un pensiero importante riguardo al tempo: la necessità di ribaltare il rapporto con il futuro a favore di un presente vissuto come unico tempo possibile nel quale stare per provare a conoscere la propria diversità e costruire la propria autonomia.
Tornando al significato che attribuiamo alle parole io, ad esempio, ho sempre dato al termine futuro un grande valore, riempiendolo di speranza e possibilità, e ho pensato i nostri giorni come quelli nefasti, senza la speranza del futuro (”non c'è più il futuro di una volta!”). Ecco, comprendere il presente da un altro punto di vista, cioè come un tempo denso di potenzialità, l'adesso in cui fare le cose, l'oggi come realtà non illusoria ma base possibile per qualsiasi costruzione, mi sta facendo intuire che, legata all'idea di futuro, ci può essere una trappola, uno spostare sempre sul domani che verrà ciò che è indispensabile oggi. Mi son chiesta quanta sia la gente che accetta la meschinità del presente sperando nel futuro; allora mi sembra di poter dire che la parola “futuro” abbia almeno due facce e forse quel che il nostro tempo offre ai giovani “senza futuro” è proprio la possibilità di interrogarsi su questo concetto e, ovviamente, modificare il rapporto con esso. A me, che di certo rimane ancora un tempo molto più corto da vivere, rafforzare il presente pensando che il meglio che posso fare lo devo fare adesso, alleggerisce il futuro facendolo diventare solo la logica conseguenza.
Allo stesso modo anche la ricerca per dare concretezza alla parola libertà può portare nuove visioni. Siamo tutti esseri umani, determinati dalla volontà di essere liberi, ma la libertà è quanto di più problematico possa esistere. Siamo certi che la libertà degli uomini sia la stessa di quella delle donne, ad esempio, e che per un uomo di colore sia lo stesso dire libertà che per un bianco, e tra le donne di quale libertà può parlare una donna bianca europea rispetto alle latinoamericane e alle donne nere? Via di questo passo è facile capire come il concetto subisca infinite varianti, fino ad arrivare a dire che non si può parlare di libertà prescindendo dalla condizione di vita libera di cui tutto ciò che esiste deve godere. Se non sono liberi di vivere e prosperare secondo la loro natura il mondo vegetale e gli animali non umani con che diritto e di quale libertà stiamo parlando?
Bisogna poter scavare, cercare, viaggiare, annusare gli anfratti e le crepe dove si annidano i mille volti dello stesso significato. E poi forse ancora non basta, ma questo è il dinamismo del nostro tempo, l'opportunità creativa e sovversiva, come già accadde in altre epoche di grande trasformazione.
Cedere al lato oscuro, sottolineare solamente la distruzione in atto, oltre a farci male, credo faccia semplicemente il gioco dei distruttori. C'è sempre stata e c'è, in tutte/i e in ognuna/o, quella possibilità creativa che trasforma la realtà, che dal basso inventa, crea, disfa e ri/costruisce. In tempi di difficoltà è importante non perdere di vista questo aspetto, ripensare le parole e l'uso che ne facciamo.
Credo, invece, che la cultura del nostro tempo in buona parte sia fatta di omissioni e dimenticanze, della parola delle donne ad esempio, ma anche di quella di tutte le minoranze - soprattutto se con cultura orale, ma comunque non solo - ridotte al silenzio di cui sono pieni i tempi anche recenti della nostra storia. Fino ad arrivare all'assoluta cancellazione della voce di chi non ha parola come gli animali non umani.
Concludo questa mia – spero non inutile – digressione mettendo insieme due ricordi che vogliono essere il migliore augurio per tutte/i noi ricercatrici e ricercatori sui sentieri non tracciati della libertà. Trascorrendo del tempo insieme ai piccoli bambini di una neonata scuola libertaria, osservavo la loro curiosità, il gioco e la gioia che li caratterizza e pensavo a come quella condizione d'inizio sia proprio la nostra dotazione, il bene potenziale che alimenterà il proseguire della vita di ognuno se non verrà troppo inibito e condizionato ma avrà modo, invece, di svilupparsi nelle infinite diversità che possiamo diventare. Allo stesso modo a una conferenza animalista ho sentito dire che caratteristica degli animali (certamente di tutti i mammiferi) che vivono liberi è appunto il gioco e la gioia e che questo vale per tutti, noi compresi.
Silvia Papi
Vaiano (Po)/
Un'altra educazione è possibile
Sabato 10 e domenica 11 settembre si è tenuta a Vaiano
(Po) la seconda edizione dell'evento “Tutta un'altra scuola.
Festa-convegno della scuola che cambia”, una rassegna
di esperienze, idee e progetti che, seppur con molte differenze,
sono accomunati dalla volontà di promuovere un cambiamento
nel modo di concepire la scuola e, più in generale, l'educazione.
Nel corso delle due giornate si sono susseguiti numerosi interventi
di presentazione delle diverse esperienze educative attive in
Italia, tra cui il progetto di “non-scuola” Artademia
di Milano, che si rivolge a ragazzi a partire dai tredici anni
di età proponendo percorsi di formazione alternativi;
le scuole democratiche, che consentono a bambini e ragazzi di
vivere esperienze educative non autoritarie e di contribuire
attivamente all'organizzazione della scuola stessa, confrontandosi
con gli adulti e avendo diritto di voto su ogni regola; la metodologia
“Bimbisvegli” della scuola primaria “Rio Crosio”
di Asti che si ispira a diversi metodi ed esperienze educative
– il metodo Montessori, la scuola di Summerhill di Alexander
S. Neill e più in generale all'educazione libertaria;
il progetto “Senza Zaino” che propone percorsi scolastici
innovativi all'interno degli istituti statali.
Sono stati organizzati anche undici seminari di approfondimento
di alcune riflessioni teoriche o di particolari metodi e pratiche
– tra cui l'educazione parentale, i percorsi di homeschooling,
i progetti di agrinidi e asili nel bosco – e si sono tenute
infine due conferenze su specifici temi, durante le quali è
stato possibile un confronto e un dibattito con i numerosi partecipanti.
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Vaiano
(Po), “Tutta un'altra scuola” |
La visione controeducativa
Una delle riflessioni teoriche presentate durante l'evento
è stata la controeducazione: si tratta di un termine
utilizzato da Paolo Mottana (docente dell'Università
degli Studi di Milano-Bicocca) per indicare un modo di intendere
e fare educazione diverso rispetto ai modelli dominanti e comunemente
accettati. Se è vero che ogni modello educativo contribuisce
a generare un particolare individuo, la visione controeducativa
intende prendere le distanze dalla conformazione della maggior
parte delle istituzioni educativo-scolastiche attuali: esse
infatti si fondano su un rigido impianto normativo e morale,
allontanano drasticamente l'esperienza educativa dalla vita
dei bambini e ragazzi ai quali si rivolgono, separano il sapere
dalla realtà e lo parcellizzano eccessivamente, riconducendolo
a particolari discipline che sembrano procedere indipendenti
le une dalle altre. Il loro impianto poi sembra ruotare intorno
a un rigido sistema di valutazione e a ricorrenti premi o castighi,
sulla base dei quali bambini e ragazzi vengono continuamente
inseriti in scale di merito.
Un sistema di questo tipo non solo tende ad annullare l'interesse
per il sapere e la motivazione allo studio, ma rischia anche
di generare futuri adulti più docili, obbedienti, competitivi,
dotati di scarso pensiero critico e facilmente inseribili in
gerarchie e rigidi ruoli sociali.
La controeducazione auspica dunque un cambio di prospettiva
e la nascita di una nuova cultura educativa; l'obiettivo è
riportare realmente i bambini e gli adolescenti al centro dei
processi educativi, consentendo loro di vivere esperienze più
vere, integre e strettamente intrecciate alla loro vita quotidiana,
sviluppando inoltre un rapporto più autentico e profondo
con il sapere. Secondo questa visione educativa sarebbe inoltre
necessario riconoscere importanza al corpo, normalmente posto
in secondo piano rispetto alla mente, dando così spazio
ad emozioni, sensibilità, sessualità, desideri
e rendendo infine il piacere, il coinvolgimento e la passione
parti integranti dei processi educativi stessi.
La concretizzazione di una tale visione presuppone un superamento
dell'istituzione scolastica come sede educativa per eccellenza
e teorizza la nascita di una “scuola diffusa”, ossia
di esperienze educative che trovano spazio direttamente nella
realtà che le circonda: ecco allora che il parco, la
piazza, la bottega, il porto, il museo, la biblioteca o il bosco
possono diventare luoghi in cui fare esperienze, a partire dalle
quali bambini e ragazzi, accompagnati da adulti-mèntori
ben diversi dal classico insegnante detentore del sapere, possano
elaborare successivi approfondimenti e riflessioni, in un luogo
più raccolto, la cui conformazione rimane però
molto lontana da quella dell'attuale classe scolastica.
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Vaiano (Po), “Tutta un'altra scuola” |
Tanti progetti, molte differenze
La visione controeducativa si presenta dunque come una riflessione teorica molto radicale tra le teorie e le pratiche presentate durante l'evento di Vaiano, che nelle sue due giornate ha consentito di conoscere e approfondire numerosi modi di apportare un cambiamento al sistema educativo-scolastico attuale, in parte però molto diversi tra loro.
Su alcuni temi infatti sono emerse posizioni piuttosto differenti: se alcuni sostengono che per dare vita a un cambiamento significativo sia necessario partire dalla scuola statale, in modo da raggiungere il maggior numero di persone possibili e dare vita a percorsi scolastici innovativi che siano però pubblici e alla portata di tutti, altri sottolineano come all'interno del sistema statale non sia possibile una reale e completa concretizzazione di alcuni dei principi presentati; una delle critiche sollevate riguarda i grandi numeri di bambini e ragazzi nelle scuole statali che impedirebbero ai progetti alternativi di mantenere le proprie specificità, conservabili solo se applicate a piccoli gruppi.
Un altro tema in merito al quale emergono posizioni differenti riguarda il ruolo e la tipologia dell'esperienza educativa: tutti i progetti presentati sembrano accomunati dalla convinzione che sia proprio a partire da quest'ultima che possano nascere percorsi di approfondimento più teorici, ma in merito alle sue caratteristiche sembrano procedere in diverse direzioni; alcuni concentrano l'attenzione sull'esperienza in mezzo alla natura, ad esempio nel bosco, mentre altri pensano anche a spazi diversi o, più in generale, all'intera città come luogo in cui vivere esperienze educative. Alcuni poi sottolineano l'importanza dell'incidentalità, quindi dell'incontro “casuale”, come motore di nuove scoperte e della costruzione di sapere, mentre per altri l'esperienza dovrebbe avvenire in determinati setting allestiti dall'adulto, che pensa e organizza spazi e materiali da proporre a bambini e ragazzi, lasciando loro libertà di scegliere all'interno di contesti più strutturati.
Alcuni progetti educativi presentati durante l'evento sembrano dare spazio e attenzione alla crescita spirituale come parte integrante della più generale crescita personale di bambini e ragazzi ai quali si rivolgono, mentre in altri progetti questo aspetto non riveste un ruolo centrale.
Si può in generale affermare che le riflessioni teoriche e i progetti educativi presentati durante l'evento appaiono piuttosto lontani tra loro in merito ad alcuni temi e non sembrano seguire una comune direzione, elaborando quindi soluzioni differenti al generale problema di come trasformare il modo di intendere e fare educazione. Nonostante ciò, “Tutta un'altra scuola” resta un interessante evento per continuare a parlare di educazione e un'annuale occasione per incontrare e confrontarsi con tutti coloro che credono che un cambiamento sia necessario e che si impegnano per renderlo possibile.
Eletta Pedrazzini
Lisbona/
Libri, musica e dibattiti alla fiera anarchica del libro
Ancora una volta a Lisbona i libri anarchici sono stati esposti
al pubblico. Quest'anno però l'evento si è chiamato
Feira Anarquista do Livro de Lisboa (Fiera anarchica del libro
di Lisbona) e ha avuto luogo – dal 23 al 25 settembre
– in un piccolo giardino vicino al centro sociale animato
da un anno a questa parte dalla libreria BOESG e dal collettivo
anarco-punk Disgraça.
Banchetti di libri, attività per bambini, presentazioni
di nuovi volumi e un dibattito sui media critici e alternativi
si sono tenuti nel giardino durante le ore di luce, avvantaggiati
da un'estate tardiva che ancora perdurava a Lisbona; durante
le ore serali, all'interno del centro sociale, si sono tenuti
i tradizionali pasti vegani, le performance di musica e le presentazioni
di documentari seguiti da dibattiti. Inoltre all'interno del
centro sociale, per tutto il periodo della fiera, è stata
allestita una mostra permanente sulla storia delle fanzine anarchiche
in Venezuela, Spagna e Portogallo organizzata da compagni venezuelani
residenti in Portogallo.
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Lisbona (Portogallo), settembre 2016 - Fiera anarchica del libro |
Quest'anno la Vetrina ha ospitato solo banchetti di editori,
librerie e organizzazioni portoghesi, spagnoli e belgi, ma ha
visto la presenza di molti compagni esteri residenti o di passaggio
a Lisbona. Anche molte persone esterne ai gruppi anarchici hanno
fatto la loro apparizione alla fiera insieme, come avviene solitamente,
a compagni e amici che non si vedono spesso per via dell'età
o perché vivono fuori Lisbona.
Alcune delle iniziative meritano di essere menzionate. Uno dei
dibattiti più partecipati è stato la tavola rotonda
a cui hanno preso parte giornali alternativi e critici –
CQFD (Francia), El Topo (Spagna) e Mapa (Portogallo) –
che ha avuto come tema centrale la loro attività e le
loro difficoltà, l'ambiente sociale e politico e il contrasto
o la complementarietà dell'informazione digitale e di
quella cartacea.
Come al solito le presentazioni di libri hanno avuto un folto
pubblico: O Irresponsável di Pedro Garcia Olivo,
presentato dal suo traduttore ed editore portoghese; Manifestos
do Surrealismo di André Breton, presentato dall'editore
Letra Livre e A un latido de distancia, libro uscito
in Spagna su storie di prigioni femminili, presentato dall'autrice
Adelaida Artigado.
Per quanto riguarda i due documentari: se il primo, Que
trabaje Federica di Carlos Plusvalìas – basato
sul libro di Michael Seidman Workers against the work
– non ha attirato molte persone, il secondo, Kurdistan.
A war of girls di Mylène Sauloy presentato insieme
al libro A revolução ignorada. Feminismo, democracia
directa e pluralism radical no Médio Oriente edito
dalla casa editrice Descontrol di Barcellona ha fatto il pienone
e creato un vivo dibattito.
Alla fine, la festa. Buon cibo vegano, buona musica –
che andava dalle canzoni anarchiche al tango all'anarco-punk
– e incontri fraterni hanno riempito le tiepide notti
di un'altra edizione della Fiera del libro di Lisbona.
Arrivederci al prossimo anno.
Mário Rui Pinto
traduzione di Carlotta Pedrazzini
Ricordando Luca Boneschi/
Da 47 anni, il “nostro” avvocato
Il 13 ottobre scorso è morto a Milano, dopo qualche
mese di malattia, Luca Boneschi, avvocato, interista, motociclista,
da giovane co-segretario nazionale con Marco Pannella del partito
radicale, da anni un principe del foro, da sempre difensore
dei giornalisti.
Nel 1969, prima della strage di piazza Fontana, fu difensore
degli anarchici ingiustamente imputati per le due bombe milanesi
del 25 aprile alla stazione centrale e alla fiera campionaria,
che non provocarono vittime e furono l'inizio della campagna
anti-anarchica che ebbe un crescendo fino al 12 dicembre, con
la strage di piazza Fontana a Milano e altri piccoli attentati
a Roma. Luca era l'avvocato difensore di Pietro Valpreda e fu
poi nel primo pool di avvocati che si occuparono di quelle vicende:
ne uscì quando gli equilibri interni al pool si spostarono
dalla parte del PCI. Fu lui a “mandarmi” dal giudice
istruttore Paolillo (poi estromesso dal “caso Pinelli”)
per testimoniare del mio incontro con Pino nei fumosi locali
al quarto piano della questura milanese nella notte tra il 12
e il 13 dicembre 1969. Era allora un radicale ai miei occhi
“anomalo”, anche se a quell'epoca con i radicali
organizzammo a Milano – per esempio – la manifestazione
dell'11 febbraio da Porta Venezia contro i Patti Lateranensi
e l'ingerenza clericale in Italia, la marcia antimilitarista
Milano-Vicenza (e Luca era in piazza Sire Raul alla partenza).
Nella foto che pubblichiamo, Luca è nel 1969 con l'anarchico
siciliano Michele Camiolo, residente a Milano e impegnato in
un lungo sciopero della fame davanti al palazzo di giustizia
per protesta contro gli arresti del 25 aprile (vennero poi assolti
oltre due anni dopo, dopo due anni di carcere per loro).
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Milano, Palazzo di Giustizia, 1969 - L'avvocato Luca Boneschi (a sin.) con Michele Camiolo, anarchico, ai tempi dello sciopero della fame di quest'ultimo contro la repressione anti-anarchica |
I rapporti umani non si interruppero mai. Luca è di nuovo
al nostro fianco, disponibile, professionale, alto, dinoccolato,
sorridente, quando come rivista ci troviamo a muoverci in campo
legale – e siamo ormai in questo nuovo millennio, qualche
decennio dopo. La Rizzoli cambia il titolo di Annabella
in A, noi le contestiamo che A siamo noi dal 1971,
l'ufficio legale Rizzoli ci risponde spiegando che in realtà
loro possono farlo ai sensi di questo e quell'altro, poi contattano
Luca e nelle nostre casse entrano ventimila euro. In bianco,
sia chiaro. Con tanto di accordo scritto. Una piccola soddisfazione,
anche per Luca – impegnato dalla parte dei “piccoli
editori”.
Analoga soluzione extra-giudiziaria con la Rai, da sempre poco
attenta ai piccolissimi e abituata a utilizzare loro filmati
anche amatoriali senza tanto badare ai diritti – che invece
vengono logicamente pagati fino all'ultimo euro ai “grandi”.
Ma con “A” cade male. Utilizzano più volte
brani dal nostro Dvd sullo sterminio nazista dei Rom, una volta
addirittura 8 minuti in coda a un Tg. Non ci chiedono la liberatoria,
pensano forse di risparmiare. Luca si muove con decisione e
i cinquecento euro al minuto che vengono in genere riconosciuti
ci vengono saldati. E siccome siamo dei “signori”,
rinunciamo a chiederli alla trasmissione “Alle falde del
Kilimangiaro” perché la conduttrice Licia Colò
sua sponte cita il nostro lavoro con simpatia e correttezza.
Era bello lavorare con Luca, valutar con lui le vie migliori
da percorrere, notare dietro la sua “scienza” compassata
la passione di battaglie civili (e mi piace qui ricordare il
suo associato Andrea Ottolini).
Ultima azione legale (vinta, come sempre). Aver ottenuto che
la casa editrice Ponte alle Grazie e il giornalista Paolo Cucchiarelli,
autore del volume Il segreto di piazza Fontana (che costituì
la base del film Rai Romanzo di una strage) pubblicassero
una netta e chiara rettifica su Corriere della sera e
su La Stampa. Cucchiarelli si è rimangiato pubblicamente
(e chiedendomene scusa) le illazioni su di me quale vigliacco
(non avrei confermato un mio incontro con Pinelli, nel pomeriggio
del 12 dicembre, indebolendo il suo alibi rispetto all'attentato
di piazza Fontana) e anche come potenziale possibile autore,
io stesso, della strage.
“Ma sei scemo a rivolgerti a Luca Boneschi, è bravo
ma è carissimo” mi diceva qualcuno. Non sapendo
che tra di noi il legame di quelle lontane e appassionanti vicende
era solido. E la battaglia per verità e giustizia che
ci animava in quegli anni (giovanili per entrambi) Luca aveva
sempre continuato a sentirla sua.
È questo il Luca che mi piace ricordare, con quel suo
bel sorriso sotto i baffi che sapeva tanto di ‘68. E di
ironia, di intelligenza, di pulizia morale.
Certo, quando in redazione avremo un problema di tipo legale
(come è meglio scrivere questa notizia? Che cosa rischiamo
se pubblichiamo in questi termini questa critica a una multinazionale?
ecc. ecc.), qualcuno troveremo. Gente disposta a darci una mano
ne abbiamo trovata tanta in 46 anni. Ma non sarà più
Luca.
Paolo Finzi
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