rugby e società
Quell'oblunga palla di cuoio
di Giuseppe Ciarallo
Così veniva definita durante il Fascismo la palla ovale. È vero che il rugby è uno sport “macho”, violento e di destra? Assolutamente no, risponde qui il nostro collaboratore Giuseppe, orgoglioso del suo passato di rugbista. E spiega invece che il rugby...
Il rugby è come l´amore: ti fa ridere, gioire, sacrificare, soffrire, piangere, lottare, vivere: e perciò non ne puoi fare a meno!
(Sergio Parisse Senior)
Andate a parlare di sacrifici a chi scende in miniera o a chi tutte le mattine si alza dal letto pensando che fuori dalla porta lo attende la catena di montaggio.
Io sono fortunato, io gioco, non mi sacrifico.
(Jason Leonard)
La mia passione per il rugby ha radici molto
profonde nel tempo.
Alla fine degli anni sessanta, durante il mio primo anno alle
scuole medie, con classi ancora rigorosamente divise tra maschili
e femminili, l'insegnante di Educazione fisica, tale professor
Rossi, ebbe l'ottima idea di iniziarci non ai classici sport
da palestra scolastica, pallavolo e basket, ma alla pratica
della palla ovale. Non ricordo la reazione dei miei compagni
di classe, ma io mi entusiasmai da subito, e non poco, alla
possibilità che intravvedevo – dopo la necessaria
acquisizione dei primi rudimenti del gioco, delle regole, dei
fondamentali tecnici – di poter placcare, scontrarmi fisicamente
con l'avversario e, non ultimo, rotolarmi nel fango, attività
che inspiegabilmente ha da sempre un certo fascino per i ragazzi
e non solo.
L'anno successivo il professor Rossi riuscì persino a
mettere insieme un paio di squadre per partecipare a una sorta
di Giochi della gioventù del rugby, un torneo che si
svolse presso il mitico campo Giuriati (vecchio) di Milano,
peraltro luogo sacro dell'antifascismo per essere stato lo scenario,
tra il 14 gennaio e il 2 febbraio del 1945, di due spietate
rappresaglie da parte dei repubblichini, nelle quali persero
la vita, fucilati, nove giovanissimi ragazzi poco più
che ventenni, appartenenti al Fronte della Gioventù,
e cinque valorosi gappisti.
Qualche tempo dopo, nei primi anni settanta, giocai dapprima
nei Chicken - una simpatica e romantica squadra in cui i giovani
potevano imparare l'etica del rugby ancor prima che il gioco
in sé, e che fungeva da nave scuola e da vivaio per le
franchigie milanesi più quotate - per poi indossare la
gloriosa maglia a righe orizzontali bianche e nere del CUS Milano.
Di quel periodo, c'è un ricordo indelebile nella mia
memoria. Sono negli spogliatoi con i miei compagni, dopo una
partita. Dalle docce arrivano le note di una canzone, fischiettata
forte, quasi con rabbia. Sono le note di Bandiera rossa. I miei
compagni di squadra si irrigidiscono, poi scuotendo la testa
infastiditi ricominciano a riempire il borsone di scarpe, calzettoni,
maglie e calzoncini infangati. Incuriosito faccio la posta al
fischiator scortese, finché vedo uscire dalla doccia
il corpo massiccio e possente, ventre prominente, di Sandrone,
ex giocatore e aiuto coach, il quale mi guarda con aria di sfida,
non cattiva, ma pronto a rimettermi al mio posto qualora la
situazione lo richieda. “Ho sentito che fischiavi Bandiera
rossa” gli dico. “E allora?” mi risponde lui
in tono poco amichevole. “Sono un compagno” spiego.
Allora Sandrone si rilassa e mi sorride. “Lo faccio apposta”
mi dice. “Quegli stronzetti dei tuoi compagni di squadra
sono tutti fascisti. Fischio Bandiera rossa, e l'Internazionale,
aspettando che qualcuno mi dica qualcosa, pronto a distribuire
un po' di calci nel culo ben assestati. Finora nessuno ha mai
avuto il coraggio di dirmi qualcosa”.
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Buenos Aires (Argentina), 1948 - A sinistra Ernesto “Che” Guevara, ventenne, giocatore del club Atalaya |
Per esempio, il Che
Dopo questa mia prima esperienza personale ho potuto constatare
in più di un'occasione come per lungo tempo il rugby
nell'immaginario collettivo sia stato considerato uno “sport
di destra” (oggi per fortuna non è più così,
forse anche per il fatto che sia la sinistra che la destra hanno
smarrito la connotazione chiara e forte che le caratterizzava
fino a qualche decennio fa, e che faceva nascere passioni politiche
e senso di appartenenza). Comunque, non sono mai riuscito a
trovare una risposta alla domanda che da sempre assilla il mio
cuore di militante rugbista di sinistra: com'è possibile
che in Italia una disciplina così aperta, collettivista,
operaia nella sua essenza (è vero che lo sport è
nato in un college ad opera di uno studente figlio della borghesia
britannica, ma è altrettanto inoppugnabile che si sia
poi sviluppato con particolare rigoglio tra i minatori e gli
operai gallesi, scozzesi, irlandesi e inglesi), sia stato considerato
nel passato uno sport tipicamente “fascista”?
Molto probabilmente il tutto prende spunto dalle parole che
Achille Starace, segretario nazionale del Partito Fascista e
presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano dal 1933
al 1939, pronunciò con la solita, retorica enfasi a proposito
di quello che all'epoca veniva definito lo sport della oblunga
palla di cuoio: “Il giuoco del rugby, sport da combattimento,
deve essere praticato e largamente diffuso tra la gioventù
fascista!”. Starace, evidentemente, ben guardandosi dal
praticare personalmente uno sport così duro e impegnativo,
si era limitato a estrapolare dall'insieme complesso di caratteristiche
di cui il rugby è composto, quel machismo da quattro
soldi che il fascismo non perdeva occasione di esibire e ostentare
a ogni pié sospinto. Mi piacerebbe vedere oggi la faccia
del gerarca, nell'apprendere che il calendario fotografico realizzato
ogni anno molto spiritosamente dai giocatori del campionato
francese, che vi compaiono in costume adamitico, è diventato
oggetto di culto e indiscussa icona tra le comunità gay
internazionali, senza che la cosa abbia per nulla turbato o
causato risentimento negli stessi giocatori. Senza contare i
coming-out, per nulla accompagnati da sensazionalismo
di alcun genere, di Gareth Thomas, colonna della nazionale gallese
fino al 2010, e di Nigel Owens, la cui dichiarata omosessualità
non ha minimamente intaccato la sua fama di miglior arbitro
internazionale in attività. Un bello schiaffo, questo,
all'omofobia che regna sovrana in altri sport.
Dunque, sfatiamo il mito. Il rugby non è affatto uno
sport di destra, anzi... se proprio vogliamo dirla tutta, se
Starace si è limitato a blaterare di coraggio, di cameratismo,
di gioco maschio e virile, un personaggio di tutt'altra caratura,
qualche anno dopo calcherà i campi fangosi d'Argentina
forgiando il proprio carattere e, secondo molti, gettando le
basi per una visione del mondo e della società che condizionerà
ineluttabilmente la sua vita futura. Sto parlando di Ernesto
“Che” Guevara.
Ecco cosa ne pensa Gerardo Enet, suo vecchio compagno di squadra:
“Salvando le logiche distanze, vedo un rapporto tra lo
sport che praticavamo e la vita successiva di Ernesto. Il rugby
è una lotta che implica un costante contatto fisico.
Per praticarlo ci vuole un gran temperamento e uno spirito molto
speciale”. Secondo Sergio Giuntini, poi, autore del saggio
Il Che e lo sport, è del tutto legittimo immaginare
che il Che abbia fatto tesoro di quel patrimonio di rude e spartana
vita rugbistica accumulato in gioventù, per utilizzarlo
durante le successive privazioni della guerriglia sulla Sierra
Maestra e nelle fatali giornate boliviane. L'autore del saggio
si spinge oltre, fino ad asserire che il rugby possa avere perfino
influenzato il pensiero del giovane Ernesto, affermando che
“su un altro piano, la filosofia rigidamente collettivista
del rugby richiama alcune delle categorie che informano la dottrina
socialista”.
Il rispetto per l'avversario, la solidarietà di gruppo
Forse ho un'idea ancora romantica del rugby, forse negli ultimi
anni le cose sono cambiate anche in questo ambito, perché
dove arrivano tanti soldi, e il professionismo esasperato, prima
o poi le cose si trasformano, e mai in meglio, ma le ragioni
per cui amo questo sport restano intatte. Innanzitutto perché
il rugby è uno sport strano. Strano e paradossale, a
cominciare dalla sua regola fondamentale che impone ai giocatori
di avanzare sul terreno di gioco passando la palla... rigorosamente
all'indietro! Sport per gente paziente il rugby, con mentalità
operaia, razza che conosce la fatica indispensabile per conquistare
ogni centimetro di campo, poco per volta, in una estenuante
guerra di logoramento, proprio e dell'avversario. Mica come
il calcio o, peggio, il più sbrigativo football americano
(che qualche profano confonde - orrore! - con il rugby), sport
“mentalmente capitalisti”, per persone che hanno
fretta, che non hanno tempo da perdere, discipline nelle quali
il passaggio in avanti è consentito e può risolvere
sbrigativamente e in un'unica soluzione il gioco d'attacco e
la segnatura, avendo “solo”, si fa per dire, cura
di evitare l'aggressiva violenza dei difensori.
Ma sono tante le affascinanti chiavi di lettura che si possono
dare alla regola numero uno del rugby. Una potrebbe essere quella
secondo la quale il futuro (la linea di meta, che è di
fronte a noi) può essere conquistata solo volgendosi
all'indietro (cioè verso le proprie radici, verso il
passato dal quale dovremmo sempre attingere per non ripetere
gli errori). Un'altra interpretazione potrebbe riguardare una
sorta di disposizione all'umiltà, come a dire “vai
pure avanti, ma ricordati di fare sempre un passo indietro per
non passare da arrogante”.
Altre e più importanti componenti, però, fanno
del rugby una disciplina oltre che spettacolare, altamente edificante.
Tanto per cominciare il rugby è senza alcun dubbio lo
sport più democratico che ci sia. Non c'è preclusione
per alcun tipo di fisico. Basta guardare la composizione delle
squadre. C'è quello basso e traccagnotto, adatto alla
prima linea, c'è quello piccolo e veloce per sgusciare
tra le maglie della difesa avversaria, c'è quello alto
e muscoloso, buono per gli sfondamenti, insomma che uno sia
piccolino, alto, robusto, grasso, mingherlino, non ha alcuna
importanza, essenziale per giocare a rugby è la voglia
e la capacità di versare sangue, sudore e lacrime (anche
se non sempre, solo metaforicamente). A conferma di questa mia
tesi, ponendo l'accento anche sull'aspetto caratteriale dei
giocatori, giungono le parole del giornalista e scrittore francese
Jean Girardoux, il quale afferma: “Otto giocatori forti
e attivi (quelli del pacchetto di mischia, nda), due
leggeri e scaltri, quattro veloci e un ultimo, modello di flemma
e sangue freddo... una squadra di rugby è la proporzione
ideale fra gli uomini”.
Inoltre, nel rugby sono regole imprescindibili il rispetto per
l'avversario, la solidarietà di gruppo, il ridimensionamento
dell'individualismo a favore di una visione collettivistica
del gioco, l'educazione alla pazienza, l'educazione al rispetto
delle regole e soprattutto dell'arbitro, l'educazione alla fatica,
al sudore, alla dovuta considerazione per il lavoro proprio
e degli altri, la fiducia nei propri mezzi che non deve mai
sfociare in spocchia. Ora, se pensiamo al triste periodo storico
che ci è toccato in sorte, nel quale il successo arride
a pupazzi senza arte né parte, a squallidi individui
che hanno diffuso la peste del disimpegno, della scorciatoia,
del risultato senza fatica, una disciplina che in totale controtendenza
predica la dedizione, l'elogio del sacrificio, il rispetto per
l'altro, la riuscita collettiva contrapposta al successo individuale,
è un tonico massaggio cerebrale e un balsamo rigenerante
per i cuori avviliti dei tanti che non hanno voluto piegarsi
alla logica perversa della società dello spettacolo (indegno).
Per non parlare di un concetto del tutto sconosciuto ai più,
oggi, quale è quello del rispetto delle regole e soprattutto
di chi quelle regole è tenuto a far adempiere.
Su un campo di rugby non si vedrà mai un giocatore inveire
contro l'arbitro o contestarne le decisioni, anche quando quelle
decisioni sono dubbie o quantomeno non condivise. La buona fede
dell'arbitro e la sua imparzialità, nel rugby sono fuori
discussione. Non v'è dubbio che gli altri sport, in primis
il calcio, sono più in linea con l'attuale posizione
politico/governativa e quindi con il conseguente comportamento
di un intero popolo: indifferenza nei confronti delle leggi,
per aggirare le quali ogni mezzo o mezzuccio è buono,
critica feroce verso chi impone il rispetto della legalità
(i giudici nella vita della nazione, l'arbitro nel gioco).
È conseguentemente naturale che la rigida disciplina
osservata dai giocatori in campo, abbia poi una benefica ricaduta
su chi assiste alla partita sugli spalti. Nel rugby non esistono
gli ultrà, i tifosi di opposto schieramento assistono
all'incontro fianco a fianco, scambiandosi commenti, facendosi
vicendevoli complimenti sulla squadra, il tutto magari bevendo
una bella pinta di birra o sorseggiando da una fiaschetta di
whisky, senza che mai si sia verificato il benché minimo
incidente (negli annali è riportato il quasi mitologico
episodio di un tifoso un po' esagitato che dopo aver scagliato
una bottiglia di plastica in campo, è stato immediatamente
individuato e “invitato” a lasciare lo stadio dopo
essere stato insultato dal resto della curva). Piccolo ricordo
personale: Italia - Nuova Zelanda, Stadio di San Siro prestato
per un pomeriggio al rugby, spalti gemiti da ottantamila persone,
metà delle quali, probabilmente provenienti dal tifo
calcistico, erano state attirate dal grande evento mediatico
e che subito dopo la haka, la danza maori eseguita prima di
ogni partita dai mitici All Blacks, avevano già esaurito
tutto l'interesse per il match essendo completamente a digiuno
delle regole della palla ovale. Ebbene, lo speaker dell'incontro
dovette ripetere per tutta la durata della partita che il fischiare
gli avversari è un gesto estraneo alla filosofia del
rugby.
120 a 0. Nessuna pietà
Il tifoso di rugby ama la sua squadra, ma soprattutto il bel
gioco. Sa sempre riconoscere l'eventuale superiorità
della squadra avversaria e incita la propria fino all'ultimo
secondo di partita. Faccio un esempio: se durante una partita
di calcio alla fine del primo tempo la propria squadra stesse
perdendo, chessò, 10 a 0 (o nel basket 70 a 10), alla
ripresa del gioco lo stadio (o il palazzetto) sarebbe mezzo
vuoto e i tifosi ancora presenti starebbero lì appositamente
per fischiare e insultare impietosamente i propri giocatori.
Nel rugby, invece, se a un minuto dalla fine la propria squadra
fosse sotto, pur con un punteggio esagerato, ma stesse spingendo
per fare una meta, il tifo sarebbe comunque alle stelle, e in
caso di esito positivo, meta segnata, il tifoso esulterebbe
come se la propria squadra quella partita l'avesse vinta, e
non malamente persa. È come se il tifoso di rugby fosse
capace di spezzettare la partita in ogni singolo episodio, isolandolo
dal contesto complessivo e dandogli la giusta importanza. E
al termine di ogni match la squadra sconfitta si schiera in
due ali per far passare, tra gli applausi, i vincitori, i quali
ricambiano schierandosi a loro volta e applaudendo gli avversari
sconfitti. Il tutto prima del cosiddetto “terzo tempo”,
momento di convivialità dove spesso capita, davanti a
una generosa pinta di birra, di vedere discorrere amabilmente
due energumeni che fino a un'ora prima, sul campo, se le stavano
suonando di santa ragione.
Può anche capitare che un eccesso di rispetto possa essere
letto, da un profano, come inutile crudeltà. Ci sono
partite, tra squadre fortissime e formazioni che in altri sport
verrebbero definite formazioni materasso, che terminano con
punteggi esagerati (ci sono stati dei 120 a zero). Di fronte
a tanta sproporzione il non rugbista si chiede perché
il più forte non lasci almeno l'onore delle armi allo
sconfitto, a un certo punto smettendo d'infierire. La logica
del rugby conduce in direzione diametralmente opposta. Io, più
forte, giocherò per tutti gli ottanta minuti con il massimo
dell'impegno, proprio perché il giocare con sufficienza,
il risparmio di energie rappresenterebbe per te, mio avversario,
il massimo dell'umiliazione. Questione di mentalità.
Troppe persone, e non solo in ambito sportivo, confondono il
rispetto con la pietà.
È per tutte queste ragioni che, se fossi ministro della
Pubblica Istruzione, e quindi una figura istituzionale deputata
alla salvaguardia della cultura di una nazione, ma soprattutto
a una sua crescita etica e morale, renderei obbligatorio nelle
scuole l'insegnamento del rugby, fondendo l'ora di ginnastica
con la riesumata lezione di educazione civica di antica memoria.
Ma siccome io mi occupo principalmente di letteratura, mi sono
chiesto quanti scrittori, una disciplina così complessa,
affascinante e ricca di possibili risvolti narrativi, possa
avere ispirato. Uno dei primi grandi nomi a citare, seppure
alla sua maniera, il gioco del rugby fu Oscar Wilde, che con
la sua tagliente ironia, inimitabile cifra della sua scrittura,
sentenziò che “il rugby è una buona occasione
per tener lontani trenta energumeni dal centro della città”.
E Pelham Grenwille Wodehouse, padre letterario di Jeeves aggiunse:
“Segnare una meta richiede una serie di azioni che in
qualunque altro contesto procurerebbe ai protagonisti una condanna
a quindici anni di galera”.
I giocatori e i tifosi, gente spiritosa e capace di autoironia,
ancora ci ridono a queste sottili battute.
Rugby e letteratura
Più recentemente, la scrittrice francese Dominique Manotti
ha sfiorato l'argomento: il suo commissario Daquin, protagonista
di alcuni romanzi, è bello e sofisticato, è omosessuale
e ama il jazz e soprattutto il rugby, sport che peraltro pratica
tra un'indagine e l'altra.
In italiano non sono molte le opere letterarie che parlano di
rugby. Al di là di alcune raccolte di novelle (I racconti
del rugby di Henri Garcia, Oltre la linea bianca
di Franco Paludetto, Novelle ovali di Antonio Falda,
Up & Under di Andrea Pelliccia) merita una menzione
particolare il bel romanzo Mar del Plata, di Claudio
Fava - figlio del giornalista Giuseppe Fava ucciso dalla mafia
nel 1984 - parlamentare di Sinistra Italiana. In questo libro
Fava racconta la storia di una squadra di rugby nell'Argentina
di Videla, quella dei 30mila desaparecidos, la storia di diciassette
ragazzi, militanti di varie galassie della sinistra politica
argentina degli anni '70, brutalmente trucidati dal regime.
Di storia (con la esse maiuscola) e sport parla anche una delle
realizzazioni editoriali di maggior successo - per avere ispirato
il film Invictus, regia di Clint Eastwood e l'attore
Morgan Freeman nei panni di Nelson Mandela – e cioè
il romanzo Ama il tuo nemico (titolo originale Playing
the Enemy) dell'inglese John Carlin. L'autore racconta come
l'intuizione politica del presidente sudafricano sia riuscita
a inventare la più audace e improbabile delle imprese:
usare il rugby (sport di esclusivo appannaggio della minoranza
bianca afrikaner) e il campionato del mondo di questo sport,
che si tenne nel 1995 proprio nel paese impegnato a superare
definitivamente le fratture sociali causate dall'apartheid,
per unire una volta per tutte i sudafricani di ogni etnia e
colore. In effetti può sembrare una favoletta a lieto
fine, ma nel complesso le cose andarono proprio così:
gli Springboks, i giocatori sudafricani, sostenuti anche dalla
popolazione nera che fino a quel momento aveva riversato verso
quello sport “bianco” tutta la propria avversione
e il proprio livore, sconfissero sul campo gli avversari neozelandesi
in una finale mitica, e Mandela, presente sugli spalti, venne
unanimemente acclamato dal popolo della sua nazione.
“Stavo con la testa contro il sedere di Mellor, aspettando
che la palla gli arrivasse tra le gambe. Lui fu lento. Già
mi spostavo, quando il cuoio mi rimbalzò tra le mani
e, prima che riuscissi a passare, una spalla mi colpì
alla mascella. Mi fece sbattere i denti con tale violenza che
mi s'abbuiò tutto intorno”. Comincia con queste
parole, nel bel mezzo di una mischia, quella che è forse
l'opera più importante che abbia come sfondo il mondo
del rugby. Il campione, del britannico David Storey,
la cui prima edizione inglese è datata 1960, è
stato definito “il miglior romanzo sportivo che sia mai
stato scritto”. Ambientato in un desolato distretto minerario
del nord dell'Inghilterra, il libro narra delle vicende di Arthur
Machin, onesto lavoratore e idolo di piccole folle paesane,
costretto a combattere, sui campi come nella vita, per sfuggire
al destino di un'esistenza stentata e senza orizzonti, che la
miniera offre. Particolare curioso, nel disegno di copertina
della prima edizione italiana, un acquerello di Heiri Steiner,
compaiono giocatori inequivocabilmente in tenuta da... football
americano!
Ma un vero e proprio capolavoro, secondo il mio modesto parere,
non poteva che essere scritto da un neozelandese. Il libro
della gloria, di Lloyd Jones, frutto di un colossale lavoro
di scrupolosa ricerca tra giornali, riviste e documenti vecchi
di oltre un secolo, racconta la leggendaria prima tournée
internazionale degli All Blacks, nel 1905, con i ventisette
ragazzoni di nero vestiti, a calcare i campi e le strade d'Inghilterra,
Scozia, Galles, Irlanda, Francia e poi Stati Uniti, senza mai
perdere l'ingenuità e lo stupore per essere loro malgrado
oggetto d'attenzione per intere nazioni. Seppure il ritmo del
romanzo è inevitabilmente scandito dalle partite che
vengono giocate in un incalzante susseguirsi, sono i pensieri
dei giocatori, le impressioni, i sentimenti a delineare la storia,
i ricordi... “La richiesta di un piccolo paralitico a
George Smith, di fargli la firma sugli arti atrofizzati [...]
A Blackfriar, la piccola fiammiferaia che corse ad accendere
la pipa di Jimmy Duncan [...] I francesi, pazzi di gioia, celebrarono
la loro meta con capriole, verticali, ruote e salti mortali
[...] Le due anziane contadine che, riconosciutili, regalarono
a Gillett e Harper un cestino di uova sode [...] Tutte le miniere
di carbone della zona di Forest Green chiuse nel giorno della
partita con il Gloucester [...] Scrivere false lettere d'amore
a quelli di noi che non ne ricevevano”. Gentile, delicato,
pulito, questi i tre aggettivi che paradossalmente mi vengono
in mente per connotare un libro chiamato a parlare di uno sport
violento, rude e in cui inevitabilmente ci si sporca.
Calcio e rugby, discipline così
diverse
Nel Belpaese, però, la palma di cantore della palla ovale va indubbiamente assegnato a Marco Paolini, che ha scritto e portato in scena le esilaranti e commoventi avventure di una squadra di ragazzi, ex contadini riconvertitisi in idraulici, menatubi, impiantisti, elettricisti nel laborioso e mitizzato nordest. Raccontate da Paolini, le rigogliose lande delle province venete non sono poi così dissimili dai claustrofobici bacini minerari gallesi. L'autore ci spiega, con rara capacità di cantastorie, del perché il rugby abbia così tanto attecchito nel suo Veneto, rispetto al resto della penisola. “Classe operaia e sapienza contadina fanno una miscela micidiale. Se hai la terra nel cognome giochi bene: Visentin, Trevisin, Furlan, Mestriner... Più terra c'è nel cognome meglio giocano, è fisiologico”. Ma un'altra riflessione di Paolini, degna di nota, riguarda il confronto tra il rugby e il calcio, discipline così diverse, che vengono paragonate rispettivamente, sempre per rimanere in ambito di metafore bellicistiche, alla prima e alla seconda guerra mondiale. Col rugby che ricorda la logorante conquista, palmo per palmo, della trincea nemica, e il calcio più simile alle battaglie aeree nelle quali si può vincere senza nemmeno sporcarsi le mani.
Ma ciò che meglio definisce la bellezza di uno sport, metafora della vita, che insegna ad affrontare con impegno ma anche con leggerezza i colpi che l'esistenza inevitabilmente riserva all'uomo, sono le parole dei fratelli Bergamasco, Mauro e Mirco, ex colonne della nazionale italiana, che di terra nel loro cognome ne hanno eccome: “Forse la radice dell'atteggiamento scanzonato che si coglie nel nostro ambiente deriva dall'enorme sproporzione tra gli sforzi messi in atto da atleti dal fisico imponente e lo scopo del tutto futile per cui questi sforzi sono dispiegati con tanta dedizione. Questa sproporzione sembra quasi caricaturale: anche se l'ambiente è ricco di riferimenti bellici e marziali, non stiamo andando in guerra, anche se ci comportiamo come se dovessimo entrare nell'arena davanti a Cesare, non siamo gladiatori... stiamo solo correndo dietro a un pallone!”
Giuseppe Ciarallo
Leggere
il rugby
Mauro
e Mirco Bergamasco con Matteo Rampin, Andare avanti
guardando indietro, Ponte alle Grazie, 2011;
AA.VV., Che Guevara, il rugby e altri scritti sulla
palla ovale, Sedizioni, 2011;
Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare,
Baldini & Castoldi, 1992;
Dominique Manotti, Il sentiero della speranza,
Marco Tropea Editore, 2002;
Henri Garcia, I racconti del rugby, Possibilia
Editore, 2010;
Franco Paludetto, Oltre la linea bianca, Libreria
dello Sport, 2004;
Antonio Falda, Novelle Ovali, La Riflessione Editore,
2009;
Andrea Pelliccia, Up & Under, Absolutely Free
Editore, 2011;
John Carlin, Ama il tuo nemico, Sperling &
Kupfer, 2010;
Claudio Fava, Mar del Plata, Add Editore, 2013
David Storey, Il campione, Feltrinelli, 1962;
Lloyd Jones, Il libro della gloria, Einaudi, 2009;
Marco Paolini, Gli album Vol. 1, Einaudi, 2005.
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E per concludere, una carrellata
di massime sul rugby
Un vero rugbista disprezza la violenza.
Paolo Vaccari
Vincere con modestia e perdere con leggerezza: questo è il marchio di un grande sportivo.
Gareth Edwards
Il rugby è trenta uomini che inseguono un sacco di vento.
Willie John Mc Bride
Il rugby: una voce del verbo dare. A ogni allenamento, a ogni partita, a ogni placcaggio, a ogni sostegno, dai un po' di te stesso. Prima o poi qualcosa ti tornerà indietro.
Marco Pastonesi
Nel rugby ci sono quelli che suonano il piano e quelli che lo spostano.
Pierre Danos
È sporco il rugby? Solo quando è fatto bene.
Fabio Treves
E tra i tanti aforismi sulla palla ovale ce n'è anche uno che si attaglia perfettamente all'anarchia, anzi, che traccia un parallelo tra il rugby e l'anarchia, perlomeno per come entrambi vengono erroneamente considerati da chi non ha la minima idea di cosa sia l'uno e di cosa l'altra rappresenti:
“Il rugby è l'assoluto ordine nell'apparente disordine.”
Sandro Cepparulo
Ma comunque, a mio avviso la più bella definizione del rugby resta quella del celebre attore gallese Richard Burton:
“Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all'improvviso il sangue di un delitto”.
G. C.
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