rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017


rugby e società

Quell'oblunga palla di cuoio

di Giuseppe Ciarallo


Così veniva definita durante il Fascismo la palla ovale.
È vero che il rugby è uno sport “macho”, violento e di destra? Assolutamente no, risponde qui il nostro collaboratore Giuseppe, orgoglioso del suo passato di rugbista. E spiega invece che il rugby...


Il rugby è come l´amore: ti fa ridere, gioire, sacrificare, soffrire, piangere, lottare, vivere: e perciò non ne puoi fare a meno!
(Sergio Parisse Senior)

Andate a parlare di sacrifici a chi scende in miniera o a chi tutte le mattine si alza dal letto pensando che fuori dalla porta lo attende la catena di montaggio.
Io sono fortunato, io gioco, non mi sacrifico.
(Jason Leonard)

La mia passione per il rugby ha radici molto profonde nel tempo.
Alla fine degli anni sessanta, durante il mio primo anno alle scuole medie, con classi ancora rigorosamente divise tra maschili e femminili, l'insegnante di Educazione fisica, tale professor Rossi, ebbe l'ottima idea di iniziarci non ai classici sport da palestra scolastica, pallavolo e basket, ma alla pratica della palla ovale. Non ricordo la reazione dei miei compagni di classe, ma io mi entusiasmai da subito, e non poco, alla possibilità che intravvedevo – dopo la necessaria acquisizione dei primi rudimenti del gioco, delle regole, dei fondamentali tecnici – di poter placcare, scontrarmi fisicamente con l'avversario e, non ultimo, rotolarmi nel fango, attività che inspiegabilmente ha da sempre un certo fascino per i ragazzi e non solo.
L'anno successivo il professor Rossi riuscì persino a mettere insieme un paio di squadre per partecipare a una sorta di Giochi della gioventù del rugby, un torneo che si svolse presso il mitico campo Giuriati (vecchio) di Milano, peraltro luogo sacro dell'antifascismo per essere stato lo scenario, tra il 14 gennaio e il 2 febbraio del 1945, di due spietate rappresaglie da parte dei repubblichini, nelle quali persero la vita, fucilati, nove giovanissimi ragazzi poco più che ventenni, appartenenti al Fronte della Gioventù, e cinque valorosi gappisti.
Qualche tempo dopo, nei primi anni settanta, giocai dapprima nei Chicken - una simpatica e romantica squadra in cui i giovani potevano imparare l'etica del rugby ancor prima che il gioco in sé, e che fungeva da nave scuola e da vivaio per le franchigie milanesi più quotate - per poi indossare la gloriosa maglia a righe orizzontali bianche e nere del CUS Milano.
Di quel periodo, c'è un ricordo indelebile nella mia memoria. Sono negli spogliatoi con i miei compagni, dopo una partita. Dalle docce arrivano le note di una canzone, fischiettata forte, quasi con rabbia. Sono le note di Bandiera rossa. I miei compagni di squadra si irrigidiscono, poi scuotendo la testa infastiditi ricominciano a riempire il borsone di scarpe, calzettoni, maglie e calzoncini infangati. Incuriosito faccio la posta al fischiator scortese, finché vedo uscire dalla doccia il corpo massiccio e possente, ventre prominente, di Sandrone, ex giocatore e aiuto coach, il quale mi guarda con aria di sfida, non cattiva, ma pronto a rimettermi al mio posto qualora la situazione lo richieda. “Ho sentito che fischiavi Bandiera rossa” gli dico. “E allora?” mi risponde lui in tono poco amichevole. “Sono un compagno” spiego. Allora Sandrone si rilassa e mi sorride. “Lo faccio apposta” mi dice. “Quegli stronzetti dei tuoi compagni di squadra sono tutti fascisti. Fischio Bandiera rossa, e l'Internazionale, aspettando che qualcuno mi dica qualcosa, pronto a distribuire un po' di calci nel culo ben assestati. Finora nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmi qualcosa”.

Buenos Aires (Argentina), 1948 - A sinistra
Ernesto “Che” Guevara, ventenne,
giocatore del club Atalaya

Per esempio, il Che

Dopo questa mia prima esperienza personale ho potuto constatare in più di un'occasione come per lungo tempo il rugby nell'immaginario collettivo sia stato considerato uno “sport di destra” (oggi per fortuna non è più così, forse anche per il fatto che sia la sinistra che la destra hanno smarrito la connotazione chiara e forte che le caratterizzava fino a qualche decennio fa, e che faceva nascere passioni politiche e senso di appartenenza). Comunque, non sono mai riuscito a trovare una risposta alla domanda che da sempre assilla il mio cuore di militante rugbista di sinistra: com'è possibile che in Italia una disciplina così aperta, collettivista, operaia nella sua essenza (è vero che lo sport è nato in un college ad opera di uno studente figlio della borghesia britannica, ma è altrettanto inoppugnabile che si sia poi sviluppato con particolare rigoglio tra i minatori e gli operai gallesi, scozzesi, irlandesi e inglesi), sia stato considerato nel passato uno sport tipicamente “fascista”?
Molto probabilmente il tutto prende spunto dalle parole che Achille Starace, segretario nazionale del Partito Fascista e presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano dal 1933 al 1939, pronunciò con la solita, retorica enfasi a proposito di quello che all'epoca veniva definito lo sport della oblunga palla di cuoio: “Il giuoco del rugby, sport da combattimento, deve essere praticato e largamente diffuso tra la gioventù fascista!”. Starace, evidentemente, ben guardandosi dal praticare personalmente uno sport così duro e impegnativo, si era limitato a estrapolare dall'insieme complesso di caratteristiche di cui il rugby è composto, quel machismo da quattro soldi che il fascismo non perdeva occasione di esibire e ostentare a ogni pié sospinto. Mi piacerebbe vedere oggi la faccia del gerarca, nell'apprendere che il calendario fotografico realizzato ogni anno molto spiritosamente dai giocatori del campionato francese, che vi compaiono in costume adamitico, è diventato oggetto di culto e indiscussa icona tra le comunità gay internazionali, senza che la cosa abbia per nulla turbato o causato risentimento negli stessi giocatori. Senza contare i coming-out, per nulla accompagnati da sensazionalismo di alcun genere, di Gareth Thomas, colonna della nazionale gallese fino al 2010, e di Nigel Owens, la cui dichiarata omosessualità non ha minimamente intaccato la sua fama di miglior arbitro internazionale in attività. Un bello schiaffo, questo, all'omofobia che regna sovrana in altri sport.
Dunque, sfatiamo il mito. Il rugby non è affatto uno sport di destra, anzi... se proprio vogliamo dirla tutta, se Starace si è limitato a blaterare di coraggio, di cameratismo, di gioco maschio e virile, un personaggio di tutt'altra caratura, qualche anno dopo calcherà i campi fangosi d'Argentina forgiando il proprio carattere e, secondo molti, gettando le basi per una visione del mondo e della società che condizionerà ineluttabilmente la sua vita futura. Sto parlando di Ernesto “Che” Guevara.
Ecco cosa ne pensa Gerardo Enet, suo vecchio compagno di squadra: “Salvando le logiche distanze, vedo un rapporto tra lo sport che praticavamo e la vita successiva di Ernesto. Il rugby è una lotta che implica un costante contatto fisico. Per praticarlo ci vuole un gran temperamento e uno spirito molto speciale”. Secondo Sergio Giuntini, poi, autore del saggio Il Che e lo sport, è del tutto legittimo immaginare che il Che abbia fatto tesoro di quel patrimonio di rude e spartana vita rugbistica accumulato in gioventù, per utilizzarlo durante le successive privazioni della guerriglia sulla Sierra Maestra e nelle fatali giornate boliviane. L'autore del saggio si spinge oltre, fino ad asserire che il rugby possa avere perfino influenzato il pensiero del giovane Ernesto, affermando che “su un altro piano, la filosofia rigidamente collettivista del rugby richiama alcune delle categorie che informano la dottrina socialista”.

Il rispetto per l'avversario, la solidarietà di gruppo

Forse ho un'idea ancora romantica del rugby, forse negli ultimi anni le cose sono cambiate anche in questo ambito, perché dove arrivano tanti soldi, e il professionismo esasperato, prima o poi le cose si trasformano, e mai in meglio, ma le ragioni per cui amo questo sport restano intatte. Innanzitutto perché il rugby è uno sport strano. Strano e paradossale, a cominciare dalla sua regola fondamentale che impone ai giocatori di avanzare sul terreno di gioco passando la palla... rigorosamente all'indietro! Sport per gente paziente il rugby, con mentalità operaia, razza che conosce la fatica indispensabile per conquistare ogni centimetro di campo, poco per volta, in una estenuante guerra di logoramento, proprio e dell'avversario. Mica come il calcio o, peggio, il più sbrigativo football americano (che qualche profano confonde - orrore! - con il rugby), sport “mentalmente capitalisti”, per persone che hanno fretta, che non hanno tempo da perdere, discipline nelle quali il passaggio in avanti è consentito e può risolvere sbrigativamente e in un'unica soluzione il gioco d'attacco e la segnatura, avendo “solo”, si fa per dire, cura di evitare l'aggressiva violenza dei difensori.
Ma sono tante le affascinanti chiavi di lettura che si possono dare alla regola numero uno del rugby. Una potrebbe essere quella secondo la quale il futuro (la linea di meta, che è di fronte a noi) può essere conquistata solo volgendosi all'indietro (cioè verso le proprie radici, verso il passato dal quale dovremmo sempre attingere per non ripetere gli errori). Un'altra interpretazione potrebbe riguardare una sorta di disposizione all'umiltà, come a dire “vai pure avanti, ma ricordati di fare sempre un passo indietro per non passare da arrogante”.
Altre e più importanti componenti, però, fanno del rugby una disciplina oltre che spettacolare, altamente edificante. Tanto per cominciare il rugby è senza alcun dubbio lo sport più democratico che ci sia. Non c'è preclusione per alcun tipo di fisico. Basta guardare la composizione delle squadre. C'è quello basso e traccagnotto, adatto alla prima linea, c'è quello piccolo e veloce per sgusciare tra le maglie della difesa avversaria, c'è quello alto e muscoloso, buono per gli sfondamenti, insomma che uno sia piccolino, alto, robusto, grasso, mingherlino, non ha alcuna importanza, essenziale per giocare a rugby è la voglia e la capacità di versare sangue, sudore e lacrime (anche se non sempre, solo metaforicamente). A conferma di questa mia tesi, ponendo l'accento anche sull'aspetto caratteriale dei giocatori, giungono le parole del giornalista e scrittore francese Jean Girardoux, il quale afferma: “Otto giocatori forti e attivi (quelli del pacchetto di mischia, nda), due leggeri e scaltri, quattro veloci e un ultimo, modello di flemma e sangue freddo... una squadra di rugby è la proporzione ideale fra gli uomini”.
Inoltre, nel rugby sono regole imprescindibili il rispetto per l'avversario, la solidarietà di gruppo, il ridimensionamento dell'individualismo a favore di una visione collettivistica del gioco, l'educazione alla pazienza, l'educazione al rispetto delle regole e soprattutto dell'arbitro, l'educazione alla fatica, al sudore, alla dovuta considerazione per il lavoro proprio e degli altri, la fiducia nei propri mezzi che non deve mai sfociare in spocchia. Ora, se pensiamo al triste periodo storico che ci è toccato in sorte, nel quale il successo arride a pupazzi senza arte né parte, a squallidi individui che hanno diffuso la peste del disimpegno, della scorciatoia, del risultato senza fatica, una disciplina che in totale controtendenza predica la dedizione, l'elogio del sacrificio, il rispetto per l'altro, la riuscita collettiva contrapposta al successo individuale, è un tonico massaggio cerebrale e un balsamo rigenerante per i cuori avviliti dei tanti che non hanno voluto piegarsi alla logica perversa della società dello spettacolo (indegno). Per non parlare di un concetto del tutto sconosciuto ai più, oggi, quale è quello del rispetto delle regole e soprattutto di chi quelle regole è tenuto a far adempiere.
Su un campo di rugby non si vedrà mai un giocatore inveire contro l'arbitro o contestarne le decisioni, anche quando quelle decisioni sono dubbie o quantomeno non condivise. La buona fede dell'arbitro e la sua imparzialità, nel rugby sono fuori discussione. Non v'è dubbio che gli altri sport, in primis il calcio, sono più in linea con l'attuale posizione politico/governativa e quindi con il conseguente comportamento di un intero popolo: indifferenza nei confronti delle leggi, per aggirare le quali ogni mezzo o mezzuccio è buono, critica feroce verso chi impone il rispetto della legalità (i giudici nella vita della nazione, l'arbitro nel gioco).
È conseguentemente naturale che la rigida disciplina osservata dai giocatori in campo, abbia poi una benefica ricaduta su chi assiste alla partita sugli spalti. Nel rugby non esistono gli ultrà, i tifosi di opposto schieramento assistono all'incontro fianco a fianco, scambiandosi commenti, facendosi vicendevoli complimenti sulla squadra, il tutto magari bevendo una bella pinta di birra o sorseggiando da una fiaschetta di whisky, senza che mai si sia verificato il benché minimo incidente (negli annali è riportato il quasi mitologico episodio di un tifoso un po' esagitato che dopo aver scagliato una bottiglia di plastica in campo, è stato immediatamente individuato e “invitato” a lasciare lo stadio dopo essere stato insultato dal resto della curva). Piccolo ricordo personale: Italia - Nuova Zelanda, Stadio di San Siro prestato per un pomeriggio al rugby, spalti gemiti da ottantamila persone, metà delle quali, probabilmente provenienti dal tifo calcistico, erano state attirate dal grande evento mediatico e che subito dopo la haka, la danza maori eseguita prima di ogni partita dai mitici All Blacks, avevano già esaurito tutto l'interesse per il match essendo completamente a digiuno delle regole della palla ovale. Ebbene, lo speaker dell'incontro dovette ripetere per tutta la durata della partita che il fischiare gli avversari è un gesto estraneo alla filosofia del rugby.

120 a 0. Nessuna pietà

Il tifoso di rugby ama la sua squadra, ma soprattutto il bel gioco. Sa sempre riconoscere l'eventuale superiorità della squadra avversaria e incita la propria fino all'ultimo secondo di partita. Faccio un esempio: se durante una partita di calcio alla fine del primo tempo la propria squadra stesse perdendo, chessò, 10 a 0 (o nel basket 70 a 10), alla ripresa del gioco lo stadio (o il palazzetto) sarebbe mezzo vuoto e i tifosi ancora presenti starebbero lì appositamente per fischiare e insultare impietosamente i propri giocatori. Nel rugby, invece, se a un minuto dalla fine la propria squadra fosse sotto, pur con un punteggio esagerato, ma stesse spingendo per fare una meta, il tifo sarebbe comunque alle stelle, e in caso di esito positivo, meta segnata, il tifoso esulterebbe come se la propria squadra quella partita l'avesse vinta, e non malamente persa. È come se il tifoso di rugby fosse capace di spezzettare la partita in ogni singolo episodio, isolandolo dal contesto complessivo e dandogli la giusta importanza. E al termine di ogni match la squadra sconfitta si schiera in due ali per far passare, tra gli applausi, i vincitori, i quali ricambiano schierandosi a loro volta e applaudendo gli avversari sconfitti. Il tutto prima del cosiddetto “terzo tempo”, momento di convivialità dove spesso capita, davanti a una generosa pinta di birra, di vedere discorrere amabilmente due energumeni che fino a un'ora prima, sul campo, se le stavano suonando di santa ragione.
Può anche capitare che un eccesso di rispetto possa essere letto, da un profano, come inutile crudeltà. Ci sono partite, tra squadre fortissime e formazioni che in altri sport verrebbero definite formazioni materasso, che terminano con punteggi esagerati (ci sono stati dei 120 a zero). Di fronte a tanta sproporzione il non rugbista si chiede perché il più forte non lasci almeno l'onore delle armi allo sconfitto, a un certo punto smettendo d'infierire. La logica del rugby conduce in direzione diametralmente opposta. Io, più forte, giocherò per tutti gli ottanta minuti con il massimo dell'impegno, proprio perché il giocare con sufficienza, il risparmio di energie rappresenterebbe per te, mio avversario, il massimo dell'umiliazione. Questione di mentalità.
Troppe persone, e non solo in ambito sportivo, confondono il rispetto con la pietà.
È per tutte queste ragioni che, se fossi ministro della Pubblica Istruzione, e quindi una figura istituzionale deputata alla salvaguardia della cultura di una nazione, ma soprattutto a una sua crescita etica e morale, renderei obbligatorio nelle scuole l'insegnamento del rugby, fondendo l'ora di ginnastica con la riesumata lezione di educazione civica di antica memoria.
Ma siccome io mi occupo principalmente di letteratura, mi sono chiesto quanti scrittori, una disciplina così complessa, affascinante e ricca di possibili risvolti narrativi, possa avere ispirato. Uno dei primi grandi nomi a citare, seppure alla sua maniera, il gioco del rugby fu Oscar Wilde, che con la sua tagliente ironia, inimitabile cifra della sua scrittura, sentenziò che “il rugby è una buona occasione per tener lontani trenta energumeni dal centro della città”. E Pelham Grenwille Wodehouse, padre letterario di Jeeves aggiunse: “Segnare una meta richiede una serie di azioni che in qualunque altro contesto procurerebbe ai protagonisti una condanna a quindici anni di galera”.
I giocatori e i tifosi, gente spiritosa e capace di autoironia, ancora ci ridono a queste sottili battute.

Rugby e letteratura

Più recentemente, la scrittrice francese Dominique Manotti ha sfiorato l'argomento: il suo commissario Daquin, protagonista di alcuni romanzi, è bello e sofisticato, è omosessuale e ama il jazz e soprattutto il rugby, sport che peraltro pratica tra un'indagine e l'altra.
In italiano non sono molte le opere letterarie che parlano di rugby. Al di là di alcune raccolte di novelle (I racconti del rugby di Henri Garcia, Oltre la linea bianca di Franco Paludetto, Novelle ovali di Antonio Falda, Up & Under di Andrea Pelliccia) merita una menzione particolare il bel romanzo Mar del Plata, di Claudio Fava - figlio del giornalista Giuseppe Fava ucciso dalla mafia nel 1984 - parlamentare di Sinistra Italiana. In questo libro Fava racconta la storia di una squadra di rugby nell'Argentina di Videla, quella dei 30mila desaparecidos, la storia di diciassette ragazzi, militanti di varie galassie della sinistra politica argentina degli anni '70, brutalmente trucidati dal regime.
Di storia (con la esse maiuscola) e sport parla anche una delle realizzazioni editoriali di maggior successo - per avere ispirato il film Invictus, regia di Clint Eastwood e l'attore Morgan Freeman nei panni di Nelson Mandela – e cioè il romanzo Ama il tuo nemico (titolo originale Playing the Enemy) dell'inglese John Carlin. L'autore racconta come l'intuizione politica del presidente sudafricano sia riuscita a inventare la più audace e improbabile delle imprese: usare il rugby (sport di esclusivo appannaggio della minoranza bianca afrikaner) e il campionato del mondo di questo sport, che si tenne nel 1995 proprio nel paese impegnato a superare definitivamente le fratture sociali causate dall'apartheid, per unire una volta per tutte i sudafricani di ogni etnia e colore. In effetti può sembrare una favoletta a lieto fine, ma nel complesso le cose andarono proprio così: gli Springboks, i giocatori sudafricani, sostenuti anche dalla popolazione nera che fino a quel momento aveva riversato verso quello sport “bianco” tutta la propria avversione e il proprio livore, sconfissero sul campo gli avversari neozelandesi in una finale mitica, e Mandela, presente sugli spalti, venne unanimemente acclamato dal popolo della sua nazione.

“Stavo con la testa contro il sedere di Mellor, aspettando che la palla gli arrivasse tra le gambe. Lui fu lento. Già mi spostavo, quando il cuoio mi rimbalzò tra le mani e, prima che riuscissi a passare, una spalla mi colpì alla mascella. Mi fece sbattere i denti con tale violenza che mi s'abbuiò tutto intorno”. Comincia con queste parole, nel bel mezzo di una mischia, quella che è forse l'opera più importante che abbia come sfondo il mondo del rugby. Il campione, del britannico David Storey, la cui prima edizione inglese è datata 1960, è stato definito “il miglior romanzo sportivo che sia mai stato scritto”. Ambientato in un desolato distretto minerario del nord dell'Inghilterra, il libro narra delle vicende di Arthur Machin, onesto lavoratore e idolo di piccole folle paesane, costretto a combattere, sui campi come nella vita, per sfuggire al destino di un'esistenza stentata e senza orizzonti, che la miniera offre. Particolare curioso, nel disegno di copertina della prima edizione italiana, un acquerello di Heiri Steiner, compaiono giocatori inequivocabilmente in tenuta da... football americano!

Ma un vero e proprio capolavoro, secondo il mio modesto parere, non poteva che essere scritto da un neozelandese. Il libro della gloria, di Lloyd Jones, frutto di un colossale lavoro di scrupolosa ricerca tra giornali, riviste e documenti vecchi di oltre un secolo, racconta la leggendaria prima tournée internazionale degli All Blacks, nel 1905, con i ventisette ragazzoni di nero vestiti, a calcare i campi e le strade d'Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda, Francia e poi Stati Uniti, senza mai perdere l'ingenuità e lo stupore per essere loro malgrado oggetto d'attenzione per intere nazioni. Seppure il ritmo del romanzo è inevitabilmente scandito dalle partite che vengono giocate in un incalzante susseguirsi, sono i pensieri dei giocatori, le impressioni, i sentimenti a delineare la storia, i ricordi... “La richiesta di un piccolo paralitico a George Smith, di fargli la firma sugli arti atrofizzati [...] A Blackfriar, la piccola fiammiferaia che corse ad accendere la pipa di Jimmy Duncan [...] I francesi, pazzi di gioia, celebrarono la loro meta con capriole, verticali, ruote e salti mortali [...] Le due anziane contadine che, riconosciutili, regalarono a Gillett e Harper un cestino di uova sode [...] Tutte le miniere di carbone della zona di Forest Green chiuse nel giorno della partita con il Gloucester [...] Scrivere false lettere d'amore a quelli di noi che non ne ricevevano”. Gentile, delicato, pulito, questi i tre aggettivi che paradossalmente mi vengono in mente per connotare un libro chiamato a parlare di uno sport violento, rude e in cui inevitabilmente ci si sporca.

Calcio e rugby, discipline così diverse

Nel Belpaese, però, la palma di cantore della palla ovale va indubbiamente assegnato a Marco Paolini, che ha scritto e portato in scena le esilaranti e commoventi avventure di una squadra di ragazzi, ex contadini riconvertitisi in idraulici, menatubi, impiantisti, elettricisti nel laborioso e mitizzato nordest. Raccontate da Paolini, le rigogliose lande delle province venete non sono poi così dissimili dai claustrofobici bacini minerari gallesi. L'autore ci spiega, con rara capacità di cantastorie, del perché il rugby abbia così tanto attecchito nel suo Veneto, rispetto al resto della penisola. “Classe operaia e sapienza contadina fanno una miscela micidiale. Se hai la terra nel cognome giochi bene: Visentin, Trevisin, Furlan, Mestriner... Più terra c'è nel cognome meglio giocano, è fisiologico”. Ma un'altra riflessione di Paolini, degna di nota, riguarda il confronto tra il rugby e il calcio, discipline così diverse, che vengono paragonate rispettivamente, sempre per rimanere in ambito di metafore bellicistiche, alla prima e alla seconda guerra mondiale. Col rugby che ricorda la logorante conquista, palmo per palmo, della trincea nemica, e il calcio più simile alle battaglie aeree nelle quali si può vincere senza nemmeno sporcarsi le mani.
Ma ciò che meglio definisce la bellezza di uno sport, metafora della vita, che insegna ad affrontare con impegno ma anche con leggerezza i colpi che l'esistenza inevitabilmente riserva all'uomo, sono le parole dei fratelli Bergamasco, Mauro e Mirco, ex colonne della nazionale italiana, che di terra nel loro cognome ne hanno eccome: “Forse la radice dell'atteggiamento scanzonato che si coglie nel nostro ambiente deriva dall'enorme sproporzione tra gli sforzi messi in atto da atleti dal fisico imponente e lo scopo del tutto futile per cui questi sforzi sono dispiegati con tanta dedizione. Questa sproporzione sembra quasi caricaturale: anche se l'ambiente è ricco di riferimenti bellici e marziali, non stiamo andando in guerra, anche se ci comportiamo come se dovessimo entrare nell'arena davanti a Cesare, non siamo gladiatori... stiamo solo correndo dietro a un pallone!”

Giuseppe Ciarallo


Leggere il rugby

Mauro e Mirco Bergamasco con Matteo Rampin, Andare avanti guardando indietro, Ponte alle Grazie, 2011;

AA.VV., Che Guevara, il rugby e altri scritti sulla palla ovale, Sedizioni, 2011;

Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, Palla lunga e pedalare, Baldini & Castoldi, 1992;

Dominique Manotti, Il sentiero della speranza, Marco Tropea Editore, 2002;

Henri Garcia, I racconti del rugby, Possibilia Editore, 2010;

Franco Paludetto, Oltre la linea bianca, Libreria dello Sport, 2004;

Antonio Falda, Novelle Ovali, La Riflessione Editore, 2009;

Andrea Pelliccia, Up & Under, Absolutely Free Editore, 2011;

John Carlin, Ama il tuo nemico, Sperling & Kupfer, 2010;

Claudio Fava, Mar del Plata, Add Editore, 2013

David Storey, Il campione, Feltrinelli, 1962;

Lloyd Jones, Il libro della gloria, Einaudi, 2009;

Marco Paolini, Gli album Vol. 1, Einaudi, 2005.



E per concludere, una carrellata di massime sul rugby

Un vero rugbista disprezza la violenza.
Paolo Vaccari

Vincere con modestia e perdere con leggerezza: questo è il marchio di un grande sportivo.
Gareth Edwards

Il rugby è trenta uomini che inseguono un sacco di vento.
Willie John Mc Bride

Il rugby: una voce del verbo dare. A ogni allenamento, a ogni partita, a ogni placcaggio, a ogni sostegno, dai un po' di te stesso. Prima o poi qualcosa ti tornerà indietro.
Marco Pastonesi

Nel rugby ci sono quelli che suonano il piano e quelli che lo spostano.
Pierre Danos

È sporco il rugby? Solo quando è fatto bene.
Fabio Treves

E tra i tanti aforismi sulla palla ovale ce n'è anche uno che si attaglia perfettamente all'anarchia, anzi, che traccia un parallelo tra il rugby e l'anarchia, perlomeno per come entrambi vengono erroneamente considerati da chi non ha la minima idea di cosa sia l'uno e di cosa l'altra rappresenti:
Il rugby è l'assoluto ordine nell'apparente disordine.”
Sandro Cepparulo

Ma comunque, a mio avviso la più bella definizione del rugby resta quella del celebre attore gallese Richard Burton:
Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all'improvviso il sangue di un delitto”.

G. C.