rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017





Questa rubrica. Una tecnologia non è un “prodotto” ineluttabile del Progresso, ma emerge da un contesto fatto di processi, tensioni tra attori differenti, finalità e interessi specifici. Con questa rubrica cercheremo di rompere l'effetto di naturalizzazione creato dalle retoriche dominanti: l'obiettivo è quello di restituire un piano prospettico alle analisi sui dispositivi digitali.
L'assunto di base è che esiste una reciproca influenza tra mondo reale e mondi digitali. Tuttavia non sono lo specchio l'uno dell'altro. Il loro intreccio, che diventa ogni giorno più denso, crea oggetti ibridi, propaggini cyborg che afferiscono tanto al mondo del corpo fisico tradizionalmente inteso, quanto a quello del così detto corpo virtuale. Il nostro agire inconsapevolmente all'interno di questi mondi, produce degli effetti su noi stessi e sulla realtà sociale in cui siamo inseriti.
Crediamo che interrogarsi non solo sui processi che attraversano le tecnologie su un piano generale, ma anche sulle pratiche quotidiane, ci consenta di rompere con l'immediatismo indotto: quel meccanismo per il quale agiamo in maniera “automatica” – cioè irriflessa, come se il gesto che compiamo fosse “naturale”, “scontato” – influenzati dalla “facilità” di utilizzo di alcuni dispositivi. Il rapporto con questi ultimi deve essere dunque “mediato” da noi stessi, solo in questo modo può essere autoderminato, consapevole, conscio.
Cogliere, restituire, le dimensioni di cui si compongono i fenomeni sociali che coinvolgono le tecnologie e il digitale ci aiuta a riconoscerne la complessità e – siamo convinti – è il primo passo per costruire un piano di riflessione e azione collettivo.

I.



Quegli anarco-capitalisti di WikiLeaks

Sono ormai dieci anni che si sente parlare di WikiLeaks in un crescendo parossistico di rivelazioni e scandali, corroborati da una mole sempre consistente di dati. Ma all'interno di quale cornice politica? Qual è il suo posizionamento nell'asse “destra” – “sinistra”? La domanda può apparire un esercizio di stile, ma è utile per cercare di comprendere discorsi e pratiche che costituiscono l'immaginario sociale mobilitato da WikiLeaks.
Il gruppo nasce nel 2006 come portale per la divulgazione di materiale protetto da segreto, confidenziale. Il sistema permette, solo da alcuni anni, di effettuare l'invio di documenti in maniera cifrata anche se questo non sempre garantisce l'anonimato delle fonti. Prima di essere divulgato, il materiale viene vagliato da uno staff. Al contrario di altri gruppi rivolti a questo tipo di attività, WikiLeaks è organizzata gerarchicamente, tendenza amplificata dall'arrivo del suo volto più noto, Julian Assange. Ed è proprio attraverso la mediatizzazione della sua figura – dal 2010 rifugiato presso l'ambasciata ecuadoriana a Londra per sfuggire all'estradizione in Svezia, dov'è accusato di violenza sessuale nei confronti di due donne – che emerge il discorso di WikiLeaks. A differenza dei tanti attivisti, militanti e sostenitori dei più vari orientamenti politici, anche di sinistra, che hanno contribuito alla costruzione del gruppo, la posizione libertariana di Assange è nota.
In una lunga intervista del 2010 rilasciata a Andy Greenberg su Forbes l'hacker australiano chiariva l'obiettivo delle rivelazioni di WikiLeaks nel quadro del mercato capitalista: “perché ci sia un mercato, ci vuole informazione. Un mercato perfetto necessita un'informazione perfetta”. In questo modo le persone sono libere di giudicare su quale prodotto orientarsi. Si dichiarava “libertariano” in economia: “WikiLeaks – aggiungeva – è concepito per rendere il capitalismo più libero ed etico”.
Ma cosa significa essere hacker “libertariani”? La cultura politica che Assange ha infuso in WikiLeaks ha origine da un gruppo a cui egli stesso ha partecipato per molti anni: i Cypherpunks (cypher sta per “cifra”, nel senso di cifratura) attivi a partire dalla fine degli anni Ottanta. Strenui sostenitori della crittografia (quando ancora era reato penale negli Usa), gli affiliati ritenevano che la questione politica centrale nell'era di Internet riguardasse la sorveglianza da parte dello Stato e la guerra per difendere la privacy. Nei loro manifesti esaltavano l'avvento di individui autonomi in grado di minare e persino distruggere lo Stato, grazie all'uso di armi elettroniche. Sprezzanti nei confronti di qualsiasi visione sociale, si dichiaravano “anarco-capitalisti”. Un'ideologia che nella Silicon Valley è ben radicata, e ha trovato uno dei suoi campioni nel venture capitalist Peter Thiel, creatore di PayPal, primo finanziatore di Facebook e sostenitore di Trump.
A noi europei sembra un ossimoro, perché facciamo discendere la parola anarchia dalla tradizione socialista: non è così negli Stati Uniti dove invece si può essere left libertarian o right libertarian (libertari di sinistra o libertari di destra). Per questo traduciamo con “libertariani” e non “libertari” quando vogliamo indicare i right libertarian. Quando ci chiediamo se WikiLeaks sia di destra o di sinistra, dunque non facciamo una domanda naive. Accantonare le più semplici categorie della filosofia politica non significa emanciparsi dall'ideologia, ma perdere la cognizione dei flussi di potere, di discorsi e pratiche, che informano e articolano le tecnologie. Significa spesso confondere la tecnocrazia con la democrazia, non scorgere il proscenio sul quale gli attori si esibiscono. Abbandonarsi alla retorica del neo-darwinismo sociale che ammanta qualsiasi prodotto di consumo che sia digitale, promuovere il novismo tecno-entusiasta e il senso di ineluttabilità della tecnica, ci permette di assolverci e mistificare la nostra profonda ignoranza informatica.
I metodi e le finalità di WikiLeaks sono prossime ai social network commerciali. Gli attivisti del gruppo applicano su scala governativa un progetto di trasparenza radicale e i risultati infatti sono più vicini alla condivisione in formato Facebook che a un ideale di giustizia: svelano le malefatte dei governi cattivi, spiano il lato sporco dei potenti come sui social monitoriamo e spiamo quello dei nostri “amici”, mentre l'infrastruttura panottica del servizio ci sorveglia tutti. Inoltre, al di là dei dettagli, le rivelazioni sono piuttosto banali: le guerre non si fanno per esportare la democrazia, ma per il controllo delle risorse e l'ansia di dominazione. I militari in guerra tendono a uccidere altri militari, e spesso anche civili. I politici mentono e imbrogliano, a volte sono in combutta con affaristi corrotti.
Dopo un decennio passato a gettare senza filtro nella pubblica arena milioni di documenti segreti è legittimo chiedersi se qualcosa è cambiato, e come. Forse si è globalmente accentuato un voyeurismo di massa che genera insensibilità di massa. Gli scandali si succedono con una rapidità tale che sembra impossibile costruire una narrazione condivisa. La verità tutta insieme – quella della montagna di documenti che la tecnologia di WikiLeaks ci offre – non può renderci in alcun modo più liberi. Il dato, in sé, non spiega, non è autoevidente. Agitare il feticcio della trasparenza, sotto il pretesto della verità innanzitutto, senza alcuna riflessione sui meccanismi tecnici che formano i contesti sociali non ci porta molto in là. Nella conclusione di Internet è il nemico scritta da Assange, si afferma che nel futuro a venire «sarà libera soltanto un'elite di ribelli hi-tech, gli astuti topi che scorrazzeranno dentro il teatro dell'opera»: una visione elitista e suprematista, solo un'altra faccia delle tecnologie del dominio.
Come abbiamo visto un fenomeno come WikiLeaks, che viene generalmente collocato all'interno di un frame binario “trasparenza-positivo, opacità-negativo” mostra la sua complessità e ambivalenza proprio quando se ne va a osservare la sua dimensione tecnologica e l'ideologia che la informa. Il suo disvelamento mostra come la tecnologia non sia neutra né “liberatrice” in sé e come, per comprendere appieno la portata di questi fenomeni, sia necessario rifuggire da una visione lineare e monodimensionale ricostruendo tensioni e processi che stanno alla base della loro formazione e sviluppo.

Ippolita
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Ippolita È

Ippolita è un gruppo di ricerca conviviale, una comunità scrivente, un collettivo di studio composto da hacker, pedagogisti, antropologi, filosofi, sociologi, non solo sparsi in giro per l'Italia, ma anche per il mondo.
Ippolita conduce una riflessione ad ampio raggio sulle 'tecnologie del dominio' e i loro effetti sociali. Pratica scritture collettive in testi a circolazione trasversale, dal sottobosco delle comunità hacker alle aule universitarie.
Tra i saggi pubblicati: Anime Elettriche (Jaca Book 2016); La Rete è libera e democratica. FALSO! (Laterza 2014, tradotto in spagnolo e francese), Nell'acquario di Facebook (Ledizioni 2013, tradotto in francese, spagnolo e inglese), Luci e ombre di Google (Feltrinelli 2007, tradotto in francese, spagnolo e inglese). Open non è free. Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale (Elèuthera 2005)
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