Sensi di colpa
“Il principio è: se qualcuno attacca noi o i
nostri alleati, si tratta di terrorismo. Se invece siamo noi
o i nostri alleati a eseguire atti spesso molto peggiori di
quelli che hanno colpito noi, allora si tratta di controterrorismo
o di guerra giusta”.
(Noam Chomsky, Power and Terror, post 9/11 talks, Seven
Stories press, New York, 2003)
Credo che la vita di ognuno di noi venga segnata, più
o meno consapevolmente, da certi avvenimenti storici che hanno
incrociato la nostra personale vicenda umana. Per i miei nonni
fu la maledetta grande guerra, per i genitori il fascismo, la
seconda guerra mondiale, la resistenza. E io? Sono tante le
vicende storiche che si sono intrecciate con la mia vita ma
una che mi ha segnato profondamente è stata la guerra
che, nel 1991, incendiò il Golfo Persico. Ricordo il
senso di smarrimento che mi pervase di fronte agli avvenimenti
che correvano veloci, amari e inarrestabili. Per poche settimane
è stato un sentimento condiviso con decine di migliaia
di altri concittadini che vedevano, per la prima volta dal dopoguerra,
l'Italia direttamente coinvolta in un conflitto armato.
Chi c'era ricorderà: momenti di isteria collettiva, folle
che invasero i supermercati per fare scorte alimentari e tante
marce per la pace con le quali, in molti, consumammo voce, scarpe
e selciati, nella vana speranza di far riflettere i politici
che correvano verso il baratro. Prima di allora avevo nutrito
l'ingenua convinzione che la guerra guerreggiata fosse, per
l'Italia, un ricordo del passato. In quei giorni, però,
tornò con forza nell'orizzonte del possibile, col suo
carico di crudeltà e stupidi eroismi. I Tornado
italiani cominciarono a sfrecciare sui cieli dell'Iraq, sganciando
il loro carico di morte e mi fu subito chiaro che qualcosa di
irreparabile stava accadendo. In quei giorni, assieme a mia
moglie e ad alcuni amici, fui anche “identificato”
dalla polizia per aver appeso, alla finestra dell'associazione
di volontariato per cui operavamo, uno striscione su cui era
scritto L'Italia ripudia la guerra. Il dissenso non era
gradito, nemmeno quello espresso con le parole della Costituzione:
ancora non erano scoppiate le ostilità e già ci
trattavano come traditori della patria.
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New York (USA) - Centro di reclutamento delle forze armate a Times Square |
Bombardamenti chirurgici e danni collaterali
L'Italia entrava in guerra senza nemmeno dichiararla: questo
pensiero non mi lasciò in pace per molti mesi a venire.
Per settimane, ossessivamente, non potei fare altro che marciare,
protestare e discutere animatamente. Molti sembravano invece
aver metabolizzato rapidamente gli eventi e avevano deciso di
credere alle fandonie dell'armamentario propagandistico esibito
in quei giorni, dai bombardamenti chirurgici ai danni
collaterali.
Le proteste cominciarono a scemare non appena si capì
che l'Italia non avrebbe subito conseguenze pratiche sul suo
territorio, che i giovani non sarebbero stati reclutati per
andare a combattere nel deserto, che le merci non sarebbero
state razionate e che, insomma, la vita sarebbe proseguita normalmente,
anche se i nostri aerei lanciavano missili su un paese che non
ci aveva fatto nulla e che la maggior parte di noi faceva fatica
a individuare sulla carta geografica. Si smise di marciare e
si preferì accendere la TV per guardare, affascinati,
le immagini delle prime bombe che cadevano su Baghdad, i servizi
senza storia della CNN e le facce ributtanti dei generali americani
che sciorinavano i loro press release. La maggioranza
si tranquillizzò, anzi, s'inorgoglì: anche l'Italia
dava il suo contributo alla causa e due piccoli eroi tricolore
erano tornati miracolosamente vivi dal disastro del loro bombardiere
abbattuto.1 Nessuno sembrava
più preoccuparsi dei morti e ben pochi alzarono la voce
anche dopo, contro lo sterminio silenzioso e terribile che fece
seguito a quel conflitto, con le sanzioni crudeli che colpirono
per anni il popolo iracheno. La conta dei nemici caduti non
la fecero mai2 anche se, dopo,
gli episodi raccapriccianti sono venuti fuori, come il bombardamento
inutile e senza pietà di una colonna nemica in rotta
o le trincee nel deserto ricoperte di sabbia per seppellire
vivi i soldati iracheni. Episodi utili a ricordarci che una
guerra pulita non esiste. Ma in TV non si era visto nemmeno
un cadavere e quando le atrocità vennero a galla non
importava più niente a nessuno.
La vergogna di quei giorni non mi ha più lasciato. Da
allora l'Italia ha mutato il proprio modello di difesa e i nostri
militari partecipano a missioni cosiddette umanitarie, mascherati
da agenti di pace. Non più difesa dei confini, ma degli
interessi nazionali e, violando la Costituzione, le guerre le
facciamo, senza nominarle. Aveva ragione Quasimodo: sei ancora
quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo.
Non siamo riusciti ad impedire questo dramma e io me ne sento
personalmente responsabile.
Sono pensieri che mi arrovellano da anni e me li sono ritrovati
addosso, assieme a domande nuove, da quando vivo negli Stati
Uniti. Sì, perché mi chiedo: se io mi sento responsabile
per le nostre piccole avventure militari, come fanno gli americani,
che amano la libertà e credono nella democrazia, a sopportare
il peso di tutte le loro guerre, che sono costate al mondo milioni
di morti e indicibili sofferenze? Come è possibile vivere
con questo peso addosso, trascinare la propria vita da un giorno
all'altro senza mai sentire la necessità di ribellarsi?
Si può vivere nell'indifferenza?
Lasciamo da parte per un momento i massacri del passato, dalla
conquista del west, alla morte nucleare sul Giappone: le generazioni
del dopoguerra in fondo non sono colpevoli di quella storia.
Ma i sette decenni che ci separano dalla fine del secondo conflitto
mondiale hanno visto l'America distruggere, bombardare, tramare,
scatenare guerre sanguinose e brutali, sperimentare armi nuove
sempre più orribili, finanziare signori della guerra
e regimi crudeli, fomentare disordini e colpi di stato, sostenere
guerriglie reazionarie, scalzare governi democratici, fino all'ultimo
ritrovato: i droni che piombano su villaggi lontani e sperduti
terrorizzando intere popolazioni. Come accettano gli americani
tutto questo? Con docilità, con indifferenza. È
una terra libera e libero è il pensiero, ma la maggioranza
è addomesticata, preferisce non approfondire, non sapere
che questo modello di vita lo si paga col sangue di milioni
di esseri umani.
Molti anni fa provai a discuterne con una turista americana
incontrata sul treno. Domanda ingenua e diretta: “perché
lo fate”? La ragazza mi guardò sorpresa. Risposta
ingenua e diretta: to help, per aiutare. Secondo lei
l'America invadeva e bombardava spinta da genuino altruismo.
Non ci fu modo di scalfire quella convinzione anzi, la sua meraviglia
era grande: come potevo non capire?
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Boston (USA) - Le piastrine di riconoscimento dei soldati caduti in guerra al Boston Memorial Garden |
Vivere con questo peso addosso
Recentemente ho provato a parlarne con Barbara, una donna mite
del Colorado, terra di importanti basi militari. Ha lavorato
a lungo per l'esercito come esperta informatica. Quando le ho
detto che non avrei mai potuto farlo, perché per me sarebbe
come prender parte alla carneficina, non mi ha capito. “It
was a great job”5, è
stata la risposta.
Non posso domandare a tutti gli americani che incontro cosa
ne pensano delle loro guerre, ma in uno studio molto serio del
2002 ho trovato questo passaggio illuminante: “Gli americani
non sono consapevoli di quale sia l'impatto della loro cultura
e delle scelte dei loro governi sul resto del mondo. La vasta
maggioranza non crede che l'America abbia fatto o possa fare
qualcosa di male”.6 L'America
resta, per la maggior parte dei suoi cittadini, un'eccezione
storica, che non ha ragione di essere criticata.7
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Boston (USA), Boston Memorial Day, 30 maggio 2016 - Un mare di bandiere, una per ogni soldato del Massachussets caduto in guerra |
Perché l'attacco all'istruzione pubblica
È una follia. Ma posso davvero essere critico? Quanto
ci abbiamo messo noi italiani ad abituarci alla guerra tornata
nella nostra quotidianità? È bastato poco per
farci accettare le nostre nuove missioni: Iraq, Afghanistan,
Kosovo... anche noi facciamo le guerre per aiutare. Rassicurati
dalla propaganda e addormentati dal benessere facciamo finta
di crederci o ci crediamo davvero. Come gli americani.
C'è chi resiste, si batte, denuncia. Uno dei più
noti a livello internazionale è Noam Chomsky che, già
alla fine del conflitto in Indocina, commentò con rabbiosa
ironia: “abbiamo realizzato la nostra missione di portare
stabilità e libertà distruggendo tre paesi e lasciando
sul terreno milioni di cadaveri”. È dal suo scrupoloso,
ossessivo lavoro di ricerca che possiamo meglio comprendere
l'atteggiamento della maggioranza.
Chomsky sostiene che l'istruzione pubblica qui è sotto
attacco da quarant'anni perché, per la classe dirigente,
rappresenta il vero pericolo, l'ostacolo alla formazione del
consenso. È nei campus universitari che, negli anni sessanta,
sono nate le lotte per i diritti civili, il femminismo, il movimento
contro la guerra e per questo, da allora, l'impegno del potere
per trasformare le scuole pubbliche in centri di indottrinamento
non è mai cessato. Secondo Chomsky due sono stati gli
strumenti utilizzati per impedire che scuole e università
continuassero ad essere fucine di pensiero e di protesta: da
una parte il taglio del finanziamento pubblico e la contestuale
apertura a quello privato, con la conseguenza di piegare le
università alle necessità delle aziende che le
sponsorizzano; dall'altra l'aumento vertiginoso delle tasse,
che ha spostato il costo dell'istruzione universitaria quasi
interamente sugli studenti, costringendo le famiglie a indebitarsi
per far studiare i figli. I giovani devono lavorare duramente
per ripagare il debito accumulato durante gli studi e di tempo
per protestare non ne è rimasto.
Ma le cose possono cambiare: arrivano quei momenti della storia
che si intrecciano con la propria vicenda personale, riempiono
di indignazione e ti costringono a pensare, ad agire. Nel febbraio
2003 milioni di persone in tutto il mondo hanno protestato contro
l'imminente guerra in Iraq: centinaia di migliaia anche qui,
negli USA. Non accadeva dai tempi del Vietnam. Nel 2011 Occupy
Wall Street ha fatto tremare il mondo della finanza: una ribellione
senza precedenti nel cuore dell'impero che ha impressionato
il mondo, un virus che prima di placarsi, si è propagato
rapidamente da New York a Boston, Philadelphia, Chicago. Era
la fiamma illusoria di una candela che si è consumata
fino in fondo? O è fuoco che cova sotto la cenere? Difficile
dirlo. “Non abbiamo capito cosa volevano” dice la
gente qui, mentre se ne va per la sua strada. Quella folla multicolore
che per due mesi ha occupato lo Zuccotti Park, nel cuore del
distretto finanziario di New York, proclamando: “siamo
il 99%” è già un ricordo sbiadito. Ma le
motivazioni che hanno ispirato quella lotta sono ancora valide
e chissà che il novantanove percento non torni un giorno,
con nuove idee, a occupare le piazze.
Per prendere coscienza della realtà qui la gente dovrebbe
leggersi la storia degli USA scritta da Howard Zinn8,
grande intellettuale e attivista che ha dedicato tutta la vita
a smascherare l'imperialismo guerrafondaio. Nel 1943 Zinn si
arruolò volontario nell'aviazione per combattere il nazifascismo
e scaricò a lungo la morte dal cielo volando sull'Europa.
Dalle successive, dolorose riflessioni su quell'esperienza nacque
il suo instancabile impegno contro ogni guerra.9
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New York (USA), Museum of The City - Il manifesto pro guerra in Vietnam firmato dai Giovani americani per la libertà recita “Ditelo ad Hanoi” |
Defezioni tra le fila dell'esercito
“Dobbiamo tutti impegnarci a diffondere la verità”,
disse Zinn nel 2005 in una conversazione organizzata a Roma
da Emergency. “Dobbiamo smascherare le vere motivazioni
dei politici, mostrare le connessioni col potere aziendale,
mostrare come dalla morte e dalla sofferenza vengano enormi
profitti. L'Iraq non è stato invaso solo dai nostri soldati
ma anche dalle grandi corporazioni, da Halliburton e Betchel10
a cui sono stati dati milioni di dollari per sostenere l'occupazione
del paese”.
Quando Zinn, quasi novantenne ma ancora instancabile, ci ha lasciati, nel gennaio 2010, il potere ha tirato un sospiro di sollievo: “Questo terribile studioso antiamericano finalmente è morto”, scrisse in un posting l'allora governatore dell'Indiana.
Oggi assistiamo a molte defezioni fra le file dell'esercito americano. Disertori forse inconsapevolmente sulle orme di Zinn. I reduci sono in prima fila nelle proteste contro la guerra e non possiamo perdere la speranza che si possa diffondere una nuova consapevolezza, che gli americani, chiusi al fresco delle loro casette, imbambolati davanti alla TV, possano davvero cambiare, smettere di credere che missili, bombe e droni siano il loro modo di portare al mondo democrazia e libertà. Solo i cittadini di questo paese potranno impedire al loro governo di continuare la sua guerra infinita.
Santo Barezini
Da
militare ad antimilitarista
La
presa di coscienza dello storico e militante Howard Zinn,
raccontata da lui stesso
Da
bambino leggevo libri d'avventura sulla prima guerra mondiale,
storie di eroismo e cameratismo che presentavano una guerra
pulita e gloriosa, senza morte e sofferenze.
Quella nozione romantica fu sradicata a diciott'anni dalla
lettura di Johnny Got His Gun3,
il romanzo forse più sconvolgente che sia mai stato
scritto contro la guerra.
Eppure, a vent'anni, all'inizio del 1943, mi arruolai
volontario nell'aviazione: volevo dare il mio contributo
alla sconfitta del fascismo. Avevo imparato a odiare la
guerra ma ritenevo che quella non fosse un guerra per
il profitto o per l'impero ma una guerra del popolo contro
la brutalità fascista.
Ho sganciato bombe su Berlino e su altre città
tedesche, ungheresi, cecoslovacche e persino su una piccola
città francese della costa atlantica. Ero fiero
di me stesso e non mi facevo domande: il fascismo doveva
essere sconfitto.
Finita la guerra in Europa tornai a casa in licenza, con
la prospettiva di ripartire per nuove missioni, stavolta
contro i giapponesi. Ma il 7 agosto del 1945, mentre andavo
verso la stazione, mi cadde l'occhio sui grandi titoli
dei giornali: “Lanciata bomba atomica su Hiroshima,
città distrutta”. Non avevo idea di cosa
fosse una bomba atomica ma provai un senso di sollievo:
la guerra sarebbe finita presto e non sarei dovuto partire
per il Pacifico.
Subito dopo la fine della guerra, però, lessi il
resoconto di un giornalista che era andato a Hiroshima
poco dopo il bombardamento e aveva parlato coi sopravvissuti.
Potete immaginare l'aspetto di quella gente: qualcuno
senza una gamba, altri senza un braccio, altri ancora
resi ciechi o con la pelle così bruciata che non
si riusciva a guardarli. Lessi quelle storie e per la
prima volta mi resi conto delle conseguenze dei bombardamenti
sulla popolazione. Capii che non avevo idea di quel che
facevo agli esseri umani quando lanciavo bombe sulle città
europee. Quando sganci bombe da otto chilometri di altezza
non vedi quello che accade sotto, non senti le urla, non
vedi il sangue, i bambini fatti a pezzi. Compresi come,
in tempo di guerra, le atrocità vengano commesse
da persone ordinarie che non vedono le loro vittime come
esseri umani ma come nemici, anche se sono bambini di
cinque anni.
Quelle bombe al napalm
Mi tornò alla mente un raid, portato a termine
poco prima che finisse la guerra, vicino a Royan, una
cittadina francese sulla costa atlantica. Lì erano
accampati dei soldati tedeschi che non facevano nulla,
aspettavano semplicemente la fine delle ostilità.
Fummo avvisati che questa volta avremmo usato un nuovo
tipo di bomba chiamata “Jelled Gasoline”4:
era il napalm. La città di Royan fu distrutta e
migliaia di persone, fra soldati tedeschi e civili francesi,
morirono, ma dal cielo non vidi gli esseri umani, i bambini
bruciati vivi dal napalm.
È un episodio al quale non ripensai fino a quando
non lessi delle vittime di Hiroshima e Nagasaki. Vent'anni
dopo andai a visitare Royan, feci delle ricerche e capii
che quella gente era morta senza motivo, era morta perché
qualcuno in alto loco voleva più medaglie e voleva
verificare gli effetti del napalm sulla carne umana.
Capii allora gli effetti dei bombardamenti alleati sulle
popolazioni civili. Eravamo rimasti inorriditi quando,
anni prima, gli italiani avevano bombardato Addis Abeba
o quando i tedeschi avevano colpito Coventry, Londra e
Rotterdam. Ma poi gli alleati scelsero di mettere in atto
bombardamenti massicci per minare il morale del civili
tedeschi e Churchill, con l'approvazione dell'alto comando
americano, decise di colpire i quartieri abitati dai lavoratori
tedeschi. Cominciarono così i bombardamenti a tappeto
su Francoforte, Colonia, Amburgo, col massacro di decine
di migliaia di persone: erano bombardamenti terroristici.
Nel febbraio 1945 Dresda fu bombardata per un giorno e
una notte e, a causa dell'intenso calore generato dalle
esplosioni, un gigantesco incendio divorò la città,
all'epoca piena di rifugiati. Nessuno sa esattamente quante
persone morirono, forse centomila.
Studiai anche le circostanze che avevano portato al bombardamento
atomico sulle città giapponesi e conclusi, come
altri studiosi, che le motivazioni ufficiali di quell'orrore
erano false: quei bombardamenti non erano necessari perché
i giapponesi stavano comunque per arrendersi. Quelle bombe
erano il primo atto della guerra fredda fra Stati Uniti
e Unione Sovietica, con centinaia di migliaia di ignari
giapponesi utilizzati come cavie. Nella primavera del
1945 venne anche portato a termine un attacco notturno
su Tokyo: non ci fu alcun tentativo di colpire obiettivi
specifici e forse centomila uomini, donne e bambini ne
morirono.
Ma quale guerra giusta?
Giunsi a concludere che ogni guerra, anche quella che
avevamo chiamato buona e giusta per sconfiggere il fascismo,
corrompe tutti coloro che vi partecipano, avvelena la
mente e l'anima della gente su entrambi i fronti. Compresi
che la guerra mette in atto un processo per cui io e tutti
gli altri eravamo diventati inconsapevoli assassini di
innocenti. Perché all'inizio del conflitto decidi
che la tua parte è quella giusta e che gli altri
sono i cattivi e una volta presa questa decisione smetti
di pensare e qualunque cosa tu faccia, anche la più
terribile, diviene accettabile.
L'idea di guerra giusta si basa un salto logico perché
una causa può effettivamente essere giusta ma questo
non significa che l'uso della guerra, come rimedio a quella
ingiustizia, sia giusto. È tempo di prendere in
considerazione un'idea che non fa parte del pensiero convenzionale
in materia di relazioni internazionali: laddove accadono
ingiustizie nel mondo è necessario cercare un rimedio
che non sia la guerra.
Se muoviamo guerra contro una nazione governata da un
tiranno le persone che uccidiamo, in realtà, sono
le vittime stesse della sua tirannia.
Nelle guerre del ventesimo secolo il 90% delle vittime
sono civili: la guerra è uccisione indiscriminata
di esseri umani ed è sempre, fondamentalmente,
contro i bambini. E allora, anche quando una causa giusta
ci viene presentata, vera o inventata che sia, quando
ci dicono che dobbiamo combattere per la libertà,
o per la democrazia, o per sconfiggere la tirannia, dobbiamo
sempre rigettare la guerra come soluzione.
Albert Einstein era a Ginevra quando i delegati di sessanta
nazioni si incontrarono per stabilire le regole di condotta
della guerra. Ne fu così inorridito che decise
di convocare una conferenza stampa per dichiarare che
la guerra non poteva essere umanizzata, poteva solo essere
abolita.
L'idea di guerra giusta, inoltre, si disintegra quando
l'analisi storica viene estesa oltre le conseguenze immediate
di un conflitto. Ho un ricordo vivido delle celebrazioni
seguite alla sconfitta delle potenze dell'asse e avevamo
ben ragione a festeggiare. Ma se guardiamo al mondo dopo
la fine della seconda guerra mondiale possiamo forse dire
che il fascismo, il totalitarismo, il razzismo, il militarismo
furono davvero sconfitti? No, ci siamo ritrovati invece
con due superpotenze armate con migliaia di testate nucleari
che, se fossero state utilizzate, avrebbero fatto impallidire
l'olocausto di Hitler. E dopo i cinquanta milioni di morti
del secondo conflitto mondiale le guerre sono forse finite?
No, sono continuate nei decenni successivi lasciando altre
decine di milioni di vittime sul terreno.
Howard Zinn
traduzione di Santo Barezini
Quanto precede sono frammenti di un discorso tenuto
a Roma il 23 giugno 2005 da Howard Zinn nell'ambito di
un evento organizzato da Emergency. Il testo completo
dell'intervento è stato pubblicato negli USA in
varie raccolte. Il testo qui riprodotto è stato
tradotto da “Just War”, pubblicato nel dicembre
2005 dall'editore Charta. Il testo completo in italiano
è reperibile all'indirizzo it.peacereporter.net/articolo/3038/La+guerra+giusta |
Note
- Chi non ricorda Bellini e Cocciolone, i due piloti del Tornado abbattuto dalla contraerea irachena durante il primo raid? Il paese intero era in ansia per la sorte dei due aviatori italiani che contavano di più di tutte le vittime dei loro missili. Quei piccoli eroi furono presto restituiti. Oggi Cocciolone è colonnello dell'aviazione militare. Di Bellini, congedatosi da generale di corpo d'armata, si dice gestisca un ristorante italiano in Virginia, dove non andrò mai a mangiare.
- Ai giornalisti che lo interrogavano sul numero delle vittime irachene, il generale Colin Powell rispose che la questione non lo interessava.
- Di un soggettista di Hollywood, Donald Trumbo, che finì anche in carcere durante il maccartismo per aver rifiutato di rivelare le proprie affiliazioni politiche a una commissione parlamentare.
- Benzina gelatinosa.
- “Era un lavoro fantastico”.
- Z. Sardar e M. W. Davies: “Why Do People Hate America?”, ed. Disinformation, 2002.
- Tornerò in futuro sullo stupefacente e radicato mito dell'eccezionalismo americano.
- A People's History of the United States, 1980: una storia degli USA
rigorosa ma letta dal punto di vista dei perdenti, del perseguitati,
delle minoranze. Zinn (1922-2007) è stato docente di
storia, intellettuale del dissenso e instancabile attivista
dei movimenti di base.
- Vedi pagina 72.
- Betchel è la più grande società edilizia degli Usa, Hulliburton una multinazionale del petrolio con sede in Texas. Entrambe hanno avuto contratti d'oro in Iraq anche attraverso USAID, l'agenzia USA di cooperazione allo sviluppo.
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