rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017





Sensi di colpa


Il principio è: se qualcuno attacca noi o i nostri alleati, si tratta di terrorismo. Se invece siamo noi o i nostri alleati a eseguire atti spesso molto peggiori di quelli che hanno colpito noi, allora si tratta di controterrorismo o di guerra giusta”.
(Noam Chomsky, Power and Terror, post 9/11 talks, Seven Stories press, New York, 2003)

Credo che la vita di ognuno di noi venga segnata, più o meno consapevolmente, da certi avvenimenti storici che hanno incrociato la nostra personale vicenda umana. Per i miei nonni fu la maledetta grande guerra, per i genitori il fascismo, la seconda guerra mondiale, la resistenza. E io? Sono tante le vicende storiche che si sono intrecciate con la mia vita ma una che mi ha segnato profondamente è stata la guerra che, nel 1991, incendiò il Golfo Persico. Ricordo il senso di smarrimento che mi pervase di fronte agli avvenimenti che correvano veloci, amari e inarrestabili. Per poche settimane è stato un sentimento condiviso con decine di migliaia di altri concittadini che vedevano, per la prima volta dal dopoguerra, l'Italia direttamente coinvolta in un conflitto armato.
Chi c'era ricorderà: momenti di isteria collettiva, folle che invasero i supermercati per fare scorte alimentari e tante marce per la pace con le quali, in molti, consumammo voce, scarpe e selciati, nella vana speranza di far riflettere i politici che correvano verso il baratro. Prima di allora avevo nutrito l'ingenua convinzione che la guerra guerreggiata fosse, per l'Italia, un ricordo del passato. In quei giorni, però, tornò con forza nell'orizzonte del possibile, col suo carico di crudeltà e stupidi eroismi. I Tornado italiani cominciarono a sfrecciare sui cieli dell'Iraq, sganciando il loro carico di morte e mi fu subito chiaro che qualcosa di irreparabile stava accadendo. In quei giorni, assieme a mia moglie e ad alcuni amici, fui anche “identificato” dalla polizia per aver appeso, alla finestra dell'associazione di volontariato per cui operavamo, uno striscione su cui era scritto L'Italia ripudia la guerra. Il dissenso non era gradito, nemmeno quello espresso con le parole della Costituzione: ancora non erano scoppiate le ostilità e già ci trattavano come traditori della patria.

New York (USA) - Centro di reclutamento delle forze armate a Times Square

Bombardamenti chirurgici e danni collaterali

L'Italia entrava in guerra senza nemmeno dichiararla: questo pensiero non mi lasciò in pace per molti mesi a venire. Per settimane, ossessivamente, non potei fare altro che marciare, protestare e discutere animatamente. Molti sembravano invece aver metabolizzato rapidamente gli eventi e avevano deciso di credere alle fandonie dell'armamentario propagandistico esibito in quei giorni, dai bombardamenti chirurgici ai danni collaterali.
Le proteste cominciarono a scemare non appena si capì che l'Italia non avrebbe subito conseguenze pratiche sul suo territorio, che i giovani non sarebbero stati reclutati per andare a combattere nel deserto, che le merci non sarebbero state razionate e che, insomma, la vita sarebbe proseguita normalmente, anche se i nostri aerei lanciavano missili su un paese che non ci aveva fatto nulla e che la maggior parte di noi faceva fatica a individuare sulla carta geografica. Si smise di marciare e si preferì accendere la TV per guardare, affascinati, le immagini delle prime bombe che cadevano su Baghdad, i servizi senza storia della CNN e le facce ributtanti dei generali americani che sciorinavano i loro press release. La maggioranza si tranquillizzò, anzi, s'inorgoglì: anche l'Italia dava il suo contributo alla causa e due piccoli eroi tricolore erano tornati miracolosamente vivi dal disastro del loro bombardiere abbattuto.1 Nessuno sembrava più preoccuparsi dei morti e ben pochi alzarono la voce anche dopo, contro lo sterminio silenzioso e terribile che fece seguito a quel conflitto, con le sanzioni crudeli che colpirono per anni il popolo iracheno. La conta dei nemici caduti non la fecero mai2 anche se, dopo, gli episodi raccapriccianti sono venuti fuori, come il bombardamento inutile e senza pietà di una colonna nemica in rotta o le trincee nel deserto ricoperte di sabbia per seppellire vivi i soldati iracheni. Episodi utili a ricordarci che una guerra pulita non esiste. Ma in TV non si era visto nemmeno un cadavere e quando le atrocità vennero a galla non importava più niente a nessuno.
La vergogna di quei giorni non mi ha più lasciato. Da allora l'Italia ha mutato il proprio modello di difesa e i nostri militari partecipano a missioni cosiddette umanitarie, mascherati da agenti di pace. Non più difesa dei confini, ma degli interessi nazionali e, violando la Costituzione, le guerre le facciamo, senza nominarle. Aveva ragione Quasimodo: sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Non siamo riusciti ad impedire questo dramma e io me ne sento personalmente responsabile.
Sono pensieri che mi arrovellano da anni e me li sono ritrovati addosso, assieme a domande nuove, da quando vivo negli Stati Uniti. Sì, perché mi chiedo: se io mi sento responsabile per le nostre piccole avventure militari, come fanno gli americani, che amano la libertà e credono nella democrazia, a sopportare il peso di tutte le loro guerre, che sono costate al mondo milioni di morti e indicibili sofferenze? Come è possibile vivere con questo peso addosso, trascinare la propria vita da un giorno all'altro senza mai sentire la necessità di ribellarsi? Si può vivere nell'indifferenza?
Lasciamo da parte per un momento i massacri del passato, dalla conquista del west, alla morte nucleare sul Giappone: le generazioni del dopoguerra in fondo non sono colpevoli di quella storia. Ma i sette decenni che ci separano dalla fine del secondo conflitto mondiale hanno visto l'America distruggere, bombardare, tramare, scatenare guerre sanguinose e brutali, sperimentare armi nuove sempre più orribili, finanziare signori della guerra e regimi crudeli, fomentare disordini e colpi di stato, sostenere guerriglie reazionarie, scalzare governi democratici, fino all'ultimo ritrovato: i droni che piombano su villaggi lontani e sperduti terrorizzando intere popolazioni. Come accettano gli americani tutto questo? Con docilità, con indifferenza. È una terra libera e libero è il pensiero, ma la maggioranza è addomesticata, preferisce non approfondire, non sapere che questo modello di vita lo si paga col sangue di milioni di esseri umani.
Molti anni fa provai a discuterne con una turista americana incontrata sul treno. Domanda ingenua e diretta: “perché lo fate”? La ragazza mi guardò sorpresa. Risposta ingenua e diretta: to help, per aiutare. Secondo lei l'America invadeva e bombardava spinta da genuino altruismo. Non ci fu modo di scalfire quella convinzione anzi, la sua meraviglia era grande: come potevo non capire?

Boston (USA) - Le piastrine di riconoscimento dei soldati
caduti in guerra al Boston Memorial Garden

Vivere con questo peso addosso

Recentemente ho provato a parlarne con Barbara, una donna mite del Colorado, terra di importanti basi militari. Ha lavorato a lungo per l'esercito come esperta informatica. Quando le ho detto che non avrei mai potuto farlo, perché per me sarebbe come prender parte alla carneficina, non mi ha capito. “It was a great job”5, è stata la risposta.
Non posso domandare a tutti gli americani che incontro cosa ne pensano delle loro guerre, ma in uno studio molto serio del 2002 ho trovato questo passaggio illuminante: “Gli americani non sono consapevoli di quale sia l'impatto della loro cultura e delle scelte dei loro governi sul resto del mondo. La vasta maggioranza non crede che l'America abbia fatto o possa fare qualcosa di male”.6 L'America resta, per la maggior parte dei suoi cittadini, un'eccezione storica, che non ha ragione di essere criticata.7

Boston (USA), Boston Memorial Day, 30 maggio 2016 - Un mare di bandiere,
una per ogni soldato del Massachussets caduto in guerra

Perché l'attacco all'istruzione pubblica

È una follia. Ma posso davvero essere critico? Quanto ci abbiamo messo noi italiani ad abituarci alla guerra tornata nella nostra quotidianità? È bastato poco per farci accettare le nostre nuove missioni: Iraq, Afghanistan, Kosovo... anche noi facciamo le guerre per aiutare. Rassicurati dalla propaganda e addormentati dal benessere facciamo finta di crederci o ci crediamo davvero. Come gli americani.
C'è chi resiste, si batte, denuncia. Uno dei più noti a livello internazionale è Noam Chomsky che, già alla fine del conflitto in Indocina, commentò con rabbiosa ironia: “abbiamo realizzato la nostra missione di portare stabilità e libertà distruggendo tre paesi e lasciando sul terreno milioni di cadaveri”. È dal suo scrupoloso, ossessivo lavoro di ricerca che possiamo meglio comprendere l'atteggiamento della maggioranza.
Chomsky sostiene che l'istruzione pubblica qui è sotto attacco da quarant'anni perché, per la classe dirigente, rappresenta il vero pericolo, l'ostacolo alla formazione del consenso. È nei campus universitari che, negli anni sessanta, sono nate le lotte per i diritti civili, il femminismo, il movimento contro la guerra e per questo, da allora, l'impegno del potere per trasformare le scuole pubbliche in centri di indottrinamento non è mai cessato. Secondo Chomsky due sono stati gli strumenti utilizzati per impedire che scuole e università continuassero ad essere fucine di pensiero e di protesta: da una parte il taglio del finanziamento pubblico e la contestuale apertura a quello privato, con la conseguenza di piegare le università alle necessità delle aziende che le sponsorizzano; dall'altra l'aumento vertiginoso delle tasse, che ha spostato il costo dell'istruzione universitaria quasi interamente sugli studenti, costringendo le famiglie a indebitarsi per far studiare i figli. I giovani devono lavorare duramente per ripagare il debito accumulato durante gli studi e di tempo per protestare non ne è rimasto.
Ma le cose possono cambiare: arrivano quei momenti della storia che si intrecciano con la propria vicenda personale, riempiono di indignazione e ti costringono a pensare, ad agire. Nel febbraio 2003 milioni di persone in tutto il mondo hanno protestato contro l'imminente guerra in Iraq: centinaia di migliaia anche qui, negli USA. Non accadeva dai tempi del Vietnam. Nel 2011 Occupy Wall Street ha fatto tremare il mondo della finanza: una ribellione senza precedenti nel cuore dell'impero che ha impressionato il mondo, un virus che prima di placarsi, si è propagato rapidamente da New York a Boston, Philadelphia, Chicago. Era la fiamma illusoria di una candela che si è consumata fino in fondo? O è fuoco che cova sotto la cenere? Difficile dirlo. “Non abbiamo capito cosa volevano” dice la gente qui, mentre se ne va per la sua strada. Quella folla multicolore che per due mesi ha occupato lo Zuccotti Park, nel cuore del distretto finanziario di New York, proclamando: “siamo il 99%” è già un ricordo sbiadito. Ma le motivazioni che hanno ispirato quella lotta sono ancora valide e chissà che il novantanove percento non torni un giorno, con nuove idee, a occupare le piazze.
Per prendere coscienza della realtà qui la gente dovrebbe leggersi la storia degli USA scritta da Howard Zinn8, grande intellettuale e attivista che ha dedicato tutta la vita a smascherare l'imperialismo guerrafondaio. Nel 1943 Zinn si arruolò volontario nell'aviazione per combattere il nazifascismo e scaricò a lungo la morte dal cielo volando sull'Europa. Dalle successive, dolorose riflessioni su quell'esperienza nacque il suo instancabile impegno contro ogni guerra.9

New York (USA), Museum of The City - Il manifesto pro guerra in Vietnam
firmato dai Giovani americani per la libertà recita “Ditelo ad Hanoi”

Defezioni tra le fila dell'esercito

“Dobbiamo tutti impegnarci a diffondere la verità”, disse Zinn nel 2005 in una conversazione organizzata a Roma da Emergency. “Dobbiamo smascherare le vere motivazioni dei politici, mostrare le connessioni col potere aziendale, mostrare come dalla morte e dalla sofferenza vengano enormi profitti. L'Iraq non è stato invaso solo dai nostri soldati ma anche dalle grandi corporazioni, da Halliburton e Betchel10 a cui sono stati dati milioni di dollari per sostenere l'occupazione del paese”.
Quando Zinn, quasi novantenne ma ancora instancabile, ci ha lasciati, nel gennaio 2010, il potere ha tirato un sospiro di sollievo: “Questo terribile studioso antiamericano finalmente è morto”, scrisse in un posting l'allora governatore dell'Indiana.
Oggi assistiamo a molte defezioni fra le file dell'esercito americano. Disertori forse inconsapevolmente sulle orme di Zinn. I reduci sono in prima fila nelle proteste contro la guerra e non possiamo perdere la speranza che si possa diffondere una nuova consapevolezza, che gli americani, chiusi al fresco delle loro casette, imbambolati davanti alla TV, possano davvero cambiare, smettere di credere che missili, bombe e droni siano il loro modo di portare al mondo democrazia e libertà. Solo i cittadini di questo paese potranno impedire al loro governo di continuare la sua guerra infinita.

Santo Barezini


Da militare ad antimilitarista
La presa di coscienza dello storico e militante Howard Zinn, raccontata da lui stesso

Da bambino leggevo libri d'avventura sulla prima guerra mondiale, storie di eroismo e cameratismo che presentavano una guerra pulita e gloriosa, senza morte e sofferenze.
Quella nozione romantica fu sradicata a diciott'anni dalla lettura di Johnny Got His Gun3, il romanzo forse più sconvolgente che sia mai stato scritto contro la guerra.
Eppure, a vent'anni, all'inizio del 1943, mi arruolai volontario nell'aviazione: volevo dare il mio contributo alla sconfitta del fascismo. Avevo imparato a odiare la guerra ma ritenevo che quella non fosse un guerra per il profitto o per l'impero ma una guerra del popolo contro la brutalità fascista.
Ho sganciato bombe su Berlino e su altre città tedesche, ungheresi, cecoslovacche e persino su una piccola città francese della costa atlantica. Ero fiero di me stesso e non mi facevo domande: il fascismo doveva essere sconfitto.
Finita la guerra in Europa tornai a casa in licenza, con la prospettiva di ripartire per nuove missioni, stavolta contro i giapponesi. Ma il 7 agosto del 1945, mentre andavo verso la stazione, mi cadde l'occhio sui grandi titoli dei giornali: “Lanciata bomba atomica su Hiroshima, città distrutta”. Non avevo idea di cosa fosse una bomba atomica ma provai un senso di sollievo: la guerra sarebbe finita presto e non sarei dovuto partire per il Pacifico.
Subito dopo la fine della guerra, però, lessi il resoconto di un giornalista che era andato a Hiroshima poco dopo il bombardamento e aveva parlato coi sopravvissuti. Potete immaginare l'aspetto di quella gente: qualcuno senza una gamba, altri senza un braccio, altri ancora resi ciechi o con la pelle così bruciata che non si riusciva a guardarli. Lessi quelle storie e per la prima volta mi resi conto delle conseguenze dei bombardamenti sulla popolazione. Capii che non avevo idea di quel che facevo agli esseri umani quando lanciavo bombe sulle città europee. Quando sganci bombe da otto chilometri di altezza non vedi quello che accade sotto, non senti le urla, non vedi il sangue, i bambini fatti a pezzi. Compresi come, in tempo di guerra, le atrocità vengano commesse da persone ordinarie che non vedono le loro vittime come esseri umani ma come nemici, anche se sono bambini di cinque anni.

Quelle bombe al napalm

Mi tornò alla mente un raid, portato a termine poco prima che finisse la guerra, vicino a Royan, una cittadina francese sulla costa atlantica. Lì erano accampati dei soldati tedeschi che non facevano nulla, aspettavano semplicemente la fine delle ostilità. Fummo avvisati che questa volta avremmo usato un nuovo tipo di bomba chiamata “Jelled Gasoline”4: era il napalm. La città di Royan fu distrutta e migliaia di persone, fra soldati tedeschi e civili francesi, morirono, ma dal cielo non vidi gli esseri umani, i bambini bruciati vivi dal napalm.
È un episodio al quale non ripensai fino a quando non lessi delle vittime di Hiroshima e Nagasaki. Vent'anni dopo andai a visitare Royan, feci delle ricerche e capii che quella gente era morta senza motivo, era morta perché qualcuno in alto loco voleva più medaglie e voleva verificare gli effetti del napalm sulla carne umana.
Capii allora gli effetti dei bombardamenti alleati sulle popolazioni civili. Eravamo rimasti inorriditi quando, anni prima, gli italiani avevano bombardato Addis Abeba o quando i tedeschi avevano colpito Coventry, Londra e Rotterdam. Ma poi gli alleati scelsero di mettere in atto bombardamenti massicci per minare il morale del civili tedeschi e Churchill, con l'approvazione dell'alto comando americano, decise di colpire i quartieri abitati dai lavoratori tedeschi. Cominciarono così i bombardamenti a tappeto su Francoforte, Colonia, Amburgo, col massacro di decine di migliaia di persone: erano bombardamenti terroristici. Nel febbraio 1945 Dresda fu bombardata per un giorno e una notte e, a causa dell'intenso calore generato dalle esplosioni, un gigantesco incendio divorò la città, all'epoca piena di rifugiati. Nessuno sa esattamente quante persone morirono, forse centomila.
Studiai anche le circostanze che avevano portato al bombardamento atomico sulle città giapponesi e conclusi, come altri studiosi, che le motivazioni ufficiali di quell'orrore erano false: quei bombardamenti non erano necessari perché i giapponesi stavano comunque per arrendersi. Quelle bombe erano il primo atto della guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con centinaia di migliaia di ignari giapponesi utilizzati come cavie. Nella primavera del 1945 venne anche portato a termine un attacco notturno su Tokyo: non ci fu alcun tentativo di colpire obiettivi specifici e forse centomila uomini, donne e bambini ne morirono.

Ma quale guerra giusta?

Giunsi a concludere che ogni guerra, anche quella che avevamo chiamato buona e giusta per sconfiggere il fascismo, corrompe tutti coloro che vi partecipano, avvelena la mente e l'anima della gente su entrambi i fronti. Compresi che la guerra mette in atto un processo per cui io e tutti gli altri eravamo diventati inconsapevoli assassini di innocenti. Perché all'inizio del conflitto decidi che la tua parte è quella giusta e che gli altri sono i cattivi e una volta presa questa decisione smetti di pensare e qualunque cosa tu faccia, anche la più terribile, diviene accettabile.
L'idea di guerra giusta si basa un salto logico perché una causa può effettivamente essere giusta ma questo non significa che l'uso della guerra, come rimedio a quella ingiustizia, sia giusto. È tempo di prendere in considerazione un'idea che non fa parte del pensiero convenzionale in materia di relazioni internazionali: laddove accadono ingiustizie nel mondo è necessario cercare un rimedio che non sia la guerra.
Se muoviamo guerra contro una nazione governata da un tiranno le persone che uccidiamo, in realtà, sono le vittime stesse della sua tirannia.
Nelle guerre del ventesimo secolo il 90% delle vittime sono civili: la guerra è uccisione indiscriminata di esseri umani ed è sempre, fondamentalmente, contro i bambini. E allora, anche quando una causa giusta ci viene presentata, vera o inventata che sia, quando ci dicono che dobbiamo combattere per la libertà, o per la democrazia, o per sconfiggere la tirannia, dobbiamo sempre rigettare la guerra come soluzione.
Albert Einstein era a Ginevra quando i delegati di sessanta nazioni si incontrarono per stabilire le regole di condotta della guerra. Ne fu così inorridito che decise di convocare una conferenza stampa per dichiarare che la guerra non poteva essere umanizzata, poteva solo essere abolita.
L'idea di guerra giusta, inoltre, si disintegra quando l'analisi storica viene estesa oltre le conseguenze immediate di un conflitto. Ho un ricordo vivido delle celebrazioni seguite alla sconfitta delle potenze dell'asse e avevamo ben ragione a festeggiare. Ma se guardiamo al mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale possiamo forse dire che il fascismo, il totalitarismo, il razzismo, il militarismo furono davvero sconfitti? No, ci siamo ritrovati invece con due superpotenze armate con migliaia di testate nucleari che, se fossero state utilizzate, avrebbero fatto impallidire l'olocausto di Hitler. E dopo i cinquanta milioni di morti del secondo conflitto mondiale le guerre sono forse finite? No, sono continuate nei decenni successivi lasciando altre decine di milioni di vittime sul terreno.

Howard Zinn

traduzione di Santo Barezini

Quanto precede sono frammenti di un discorso tenuto a Roma il 23 giugno 2005 da Howard Zinn nell'ambito di un evento organizzato da Emergency. Il testo completo dell'intervento è stato pubblicato negli USA in varie raccolte. Il testo qui riprodotto è stato tradotto da “Just War”, pubblicato nel dicembre 2005 dall'editore Charta. Il testo completo in italiano è reperibile all'indirizzo it.peacereporter.net/articolo/3038/La+guerra+giusta



Note

  1. Chi non ricorda Bellini e Cocciolone, i due piloti del Tornado abbattuto dalla contraerea irachena durante il primo raid? Il paese intero era in ansia per la sorte dei due aviatori italiani che contavano di più di tutte le vittime dei loro missili. Quei piccoli eroi furono presto restituiti. Oggi Cocciolone è colonnello dell'aviazione militare. Di Bellini, congedatosi da generale di corpo d'armata, si dice gestisca un ristorante italiano in Virginia, dove non andrò mai a mangiare.
  2. Ai giornalisti che lo interrogavano sul numero delle vittime irachene, il generale Colin Powell rispose che la questione non lo interessava.
  3. Di un soggettista di Hollywood, Donald Trumbo, che finì anche in carcere durante il maccartismo per aver rifiutato di rivelare le proprie affiliazioni politiche a una commissione parlamentare.
  4. Benzina gelatinosa.
  5. “Era un lavoro fantastico”.
  6. Z. Sardar e M. W. Davies: “Why Do People Hate America?”, ed. Disinformation, 2002.
  7. Tornerò in futuro sullo stupefacente e radicato mito dell'eccezionalismo americano.
  8. A People's History of the United States, 1980: una storia degli USA rigorosa ma letta dal punto di vista dei perdenti, del perseguitati, delle minoranze. Zinn (1922-2007) è stato docente di storia, intellettuale del dissenso e instancabile attivista dei movimenti di base.
  9. Vedi pagina 72.
  10. Betchel è la più grande società edilizia degli Usa, Hulliburton una multinazionale del petrolio con sede in Texas. Entrambe hanno avuto contratti d'oro in Iraq anche attraverso USAID, l'agenzia USA di cooperazione allo sviluppo.