rivista anarchica
anno 47 n. 413
febbraio 2017


dibattito pedagogia

Educazione e anarchismo

di Raffaele Mantegazza


Un pedagogista, attento all'anarchismo e alle sue proposte in campo educativo, ne sottolinea anche limiti e problemi. Partendo da pratiche questioni educative, nella relazione con il bambino/a.


Preso nel suo senso più rigoroso l'anarchismo dovrebbe negare l'educazione. Considerandola come strumento di potere o comunque come struttura legata al dominio, contribuisce a demitizzarla e a offrire su di essa uno sguardo critico. Ma al tempo stesso dovrebbe conseguentemente dissolverla, perché le tracce del dominio in essa sarebbero troppo profonde. Che un essere umano ne educhi altri dovrebbe essere il peccato originale del dominio; ognuno educa se stesso, o meglio nessuno educa alcuno e ci si limita a vivere.
Ovviamente queste radicalizzazioni sono vacue, anche perché, per fortuna, il pensiero anarchico si è spesso occupato di questioni educative. Ma a mio parere è quando il pensiero anarchico si occupa di altro (di politica, di speranza, di costruire l'utopia) che propone alla riflessione pedagogica elementi profondi di riflessione e di smascheramento delle istanze di potere presenti, indubbiamente, nei processi educativi.
La prima questione è ovviamente legata all'antiautoritarismo; non si ringrazierà mai abbastanza il pensiero anarchico per avere posto con forza questo problema all'interno delle pratiche educative. Smascherare il carattere autoritario dell'educazione è urgente, oggi come ieri, così come proporre pratiche che rifiutino l'autoritarismo come fondamento dell'educazione. Ma come si caratterizzano queste pratiche? Spesso si propone l'autorevolezza come alternativa all'autoritarismo: un concetto quanto mai vago. E poi l'educazione antiautoritaria è necessariamente una educazione paritaria? L'asimmetria educatore/educando è sempre segno di autoritarismo? Credo fermamente di no.
Se un ragazzo che sa suonare la chitarra vuole insegnarlo ai suoi amici si pone inevitabilmente in una posizione asimmetrica, almeno dal punto di vista della competenza. Ma un padre, per usare un esempio che risale a Socrate, scioglie nella minestra del bambino una medicina salvavita che il bimbo non vuole assumere, e gli mente dicendogli che non l'ha fatto: in questo caso non siamo di fronte a un vero e proprio plagio, a una menzogna? Come mai dunque giustifichiamo e lodiamo il gesto del padre? Forse perché esiste una ineliminabile asimmetria nella relazione educativa che prevede che, almeno da un certo punto di vista, qualcuno sappia “che cosa è meglio per l'altro”?
Un altro contributo decisivo del pensiero anarchico all'educazione è la sua insistenza sull'irriducibilità del singolo, che lo porta a criticare le pratiche educative omologanti in funzione della libera manifestazione delle attitudini del ragazzo; da Neill in poi le pratiche educative anarchiche insistono sul fatto che i ragazzi non devono essere forzati a studiare nulla perché sarà la loro natura a spingerli ad interessarsi di ciò che veramente servirà loro.
Ovviamente importare almeno in parte un approccio del genere nelle nostre scuole avrebbe un enorme effetto dirompente e positivo; ma la filosofia di fondo presenta qualche problema.
Mi sembra che l'idea di una naturale predisposizione dei ragazzi a ciò che servirà loro, predisposizione che si manifesterà nei tempi e nei luoghi debiti, sia frutto di una destorificazione del ragazzo concreto, quello che ho davanti agli occhi in questo momento. Infatti questo ragazzo è figlio dell'epoca, della classe sociale, della situazione economica, della provenienza geografica: e tutto questo ha depositato dentro di lui fin dalla più tenera infanzia, attitudini, interessi, curiosità, orientamenti che non sono affatto “naturali” ma sociali fin nella più intima fibra. Ora o si torna all'idea del bambino come “tabula rasa” (un bambino del tutto desocializzato, astratto, un'idea e non una persona) oppure si risale all'indietro alla ricerca delle attitudini “naturali” dei bambino fino ad arrivare al momento della nascita, ma anche qui si è costretti a tornare indietro fino dentro il grembo materno.
Se il bambino è un essere sociale come si può pensare che a 12 anni sappia “naturalmente” quello che è meglio per lui, e che lo sappia soprattutto oggi, in una società che fa dei bambini piccoli il bersaglio di pratiche e comunicazioni di pubblicità e di marketing con una violenza e una forza di penetrazione senza precedenti?
Il bambino è gravato del peccato originale dell'appartenenza a un mondo segnato fin nelle sue intime fibre dal dominio; cosa si vuole e-ducere dal ragazzo, oltre alle tracce che il potere gli ha depositato dentro? A quale “naturalità” si fa riferimento, soprattutto nella società iper-mediatizzata e iper-mediata di oggi?
Anche l'insistenza sul concetto di libertà, tanto cara giustamente al pensiero anarchico, incontra alcune aporie quando viene a contatto con il mondo dell'educazione. Un esempio provocatorio: le divise scolastiche sono qualcosa che molti di noi non amano, a partire dal nome. Sono uni-formi, omologano, livellano le differenze. Benissimo. Ma basta entrare in una scuola dell'infanzia per veder come le differenze “liberamente” esibite dai bambini siano in realtà il ricalco fedele delle differenze di classe relative alla famiglie di origine. È liberante e libertario che una bambina con addosso una maglietta di marca di 200 € sieda di fianco a un coetaneo che porta la stessa maglia da una settimana perché non ne possiede altre? In questo caso la scuola sta esaltando le differenze individuali o sta ricalcando le differenze di classe? (La questione è complessa perché alla bambina ricca la sua maglietta piace, l'ha scelta lei, entra nel novero dei suoi gusti personali che in nome della libertà individuale l'educazione non dovrebbe permettersi di sfiorare).
In nome della libertà si criticano le istituzioni educative che vogliono normare l'abbigliamento dei ragazzi; ma non si vede, in questa critica, che l'abbigliamento dei ragazzi è già iper-normato dal Mercato (il più potente e pervasivo educatore di sempre) e che tale normazione avviene in silenzio, senza regole, senza motivazioni e senza possibilità reale di critica.
Ma è forse il tema del conflitto ad essere chiamato in causa dal confronto fecondo ma critico tra pensiero anarchico ed educazione: perché a volte sembra che un certo irenismo pedagogico, in nome della dissoluzione di qualunque istanza autoritaria nell'azione educativa (principio, questo, irrinunciabile) butti via però anche la questione della necessità e della fecondità del conflitto nell'educazione. Non si sta parlando banalmente dei cosiddetti “no che aiutano a crescere” (anche i sì aiutano a crescere, eccome); ma del fatto che l'educatore stesso è una istanza di potere perché l'educazione è strutturalmente una forma di potere; e che se si vuole educare alla resistenza, alla critica, al rivoluzionamento della forma storica del potere incarnata in questa società capitalistica, in qualche modo occorre anche educare alla critica nei confronti dell'educazione e dell'educatore.
L'educazione deve generare persone felici. Non vi è dubbio. Ma non è la stessa cosa dire che l'educazione deve generare educandi sempre e solo felici. L'educazione genera persone che lottano per la felicità, perché qui ed ora, in questo contesto sociale rapace e diseguale, la felicità non è possibile, se non per un'élite (e si spera proprio che l'educazione libertaria e antiautoritaria non diventi una opzione elitaria perché così facendo si autodistruggerebbe).

Quale sede della libertà

Ma come imparare ad opporsi a resistere se non applicando tale opposizione e tale resistenza proprio all'educatore? L'educatore può “fare la parte” della società proprio all'interno della relazione educativa, allenando i ragazzi alla resistenza e al pensiero critico soprattutto nei confronti delle proprie parole. Il pensiero anarchico non può essere qualcosa che venga preso per oro colato e ripetuto pedissequamente, ma deve essere a sua volta criticato e discusso aspramente. Ma in quel momento l'educatore è colui che provoca la sfida, che suscita l'opposizione e lo fa occupando una posizione di potere dal quale poi (ma solo poi) si farà scalzare.
Forse allora la questione è più complessa e riguarda la sede della libertà. Secondo me la libertà è da costruire nel mondo della vita e non nel mondo dell'educazione; il che significa che l'educazione è uno strumento che non si libera mai del tutto del suo carattere di potere perché figlia di una società che ha il potere come fondamento, legittimazione e sfondo.
Nel mondo liberato ci sarà ancora l'educazione? Forse sì, come necessità di trasmettere tecniche, modi di fare e di essere, atteggiamenti; e come necessità di valorizzare il contributo e il talento di ognuno. Ma forse sarà qualcosa di così differente da ciò che oggi definiamo “educazione” che non ne possiamo neanche concepire l'idea. L'approccio critico alle istituzioni e la deistituzionalizzazione sono veri e propri gioielli del pensiero anarchico; ma pensare di costruire qui ed ora, magari attraverso l'educazione, la società utopica relegandola a qualche spazio liberato significa sottovalutare la forza del dominio e peraltro lascia fuori troppe persone. Educare all'anarchia significa oggi educare alla lotta per l'anarchia. “Nessuna emancipazione è possibile senza l'emancipazione della società” (Theodor Adorno).

Raffaele Mantegazza