rivista anarchica
anno 47 n. 413
febbraio 2017





Yvonne Rainer/
L'anarchia a passo di danza

Yvonne Rainer è una ballerina, coreografa e regista americana che ha segnato la storia della danza postmoderna. Donna di grandissima intelligenza e spirito di sperimentazione, ha portato in ogni campo artistico, in cui si è confrontata, dei cambiamenti profondi e, per certi aspetti, irreversibili.
Nasce il 24 novembre del 1934, a San Francisco, in un ambiente in cui l'arte e la politica erano di casa: dal padre imparerà ad usare la telecamera e dalla madre apprenderà la tecnica della danza classica. Come lei stessa racconta, i suoi genitori erano considerati per l'epoca “radicali” e fu esposta, sin dalla più giovane età, “alle influenze inebrianti di poeti, scrittori e anarchici italiani”.
A 21 anni decide di trasferirsi a New York, città in cui studia con i grandi della danza contemporanea, ma come altri giovani dell'epoca, spinta da uno spirito libero, partecipa alla fondazione di un collettivo di ballerini, il Judson Dance Theater, in cui non c'è nessun maestro o coreografo che dispone dei corpi altrui, ma tutti sono maestri e coreografi di tutti. Il gruppo era formato da ballerini, compositori e artisti visivi che si riunivano ogni settimana per provare; il primo spettacolo ebbe luogo il 6 luglio 1962 e tra il 1962 e il 1964 produssero quasi duecento spettacoli. Era un luogo di collaborazione tra artisti in un clima di totale libertà, in cui l'ispirazione, per molti dei pezzi creati, era rappresentata dai gesti quotidiani e spesso gli interpreti per le perfomance di danza non erano ballerini.

Yvonne Rainer

Fu in questo contesto che Yvonne Rainer emerse con una critica fortissima e un rifiuto categorico a tutto quello che la danza in quel momento storico rappresentava e ai codici e alle limitazioni tecniche da questa imposta; infatti, nel 1965 pubblica il “No Manifesto”. Questo grido libertario sarà il punto di partenza della corrente artistica a lei attribuita, detta minimalismo: Yvonne porta la danza in un nuovo territorio, in cui ci si slega completamente dallo spettacolo, proponendo un'idea del tutto rivoluzionaria: tutti possono muoversi e quindi tutti possono danzare. Nel “No Manifesto” si concretizza non solo un'accusa sociale, ma vi sono una serie di istruzioni per l'artista. Questo documento le serve come terreno per demistificare la danza come spettacolo, che consenta di abbandonare una riflessione sullo spettatore volta unicamente a convincerlo di qualcosa, trasformandolo in un soggetto manipolato.
La sua idea era, invece, quella di creare una scena neutrale che non avvolgesse il pubblico, dove il movimento non rappresenterà niente di più che il movimento e dove la naturalezza dell'opera si concentra nella presenza obiettiva dell'essere umano sulla scena.
I no del Manifesto sono:
No allo spettacolo
No al virtuosismo
No alle trasformazioni, alla magia e alla finzione
No al fascino e alla trascendenza dell'immagine della star
No all'eroico
No all'antieroico
No alle immagini spazzatura
No al coinvolgimento dell'interprete e dello spettatore
No allo stile
No all'affettazione
No alla seduzione dello spettatore attraverso artifici dell'interprete
No all'eccentricità
No al far commuovere o ad essere commosso.
Convinta del fatto che l'arte è politica nella misura in cui destabilizza e crea tensione, Yvonne si allontana dal luogo comune della rappresentazione, poiché, mentre per la maggioranza la danza significava produzioni sceniche, lei cerca di allontanare il danzatore dallo spettatore. Si rifiuta di “vendere la fantasia”, come aveva fatto sino a quel momento la danza, ma propone un'idea nuova dove la danza non risponde alla semplice industria culturale che trasforma l'arte in bene di consumo, ai fini dell'intrattenimento e che viene legittimata per mezzo degli spettatori. È anche per questa ragione che la sua elezione spaziale va verso luoghi sino ad allora assolutamente impensabili per ospitare performance di danza: un modo anche questo per ribellarsi al “sistema dell'arte”.
In questa sfida a tutto campo della “danza tradizionale” non si chiede che cosa possa significare la danza o rappresentare la danza, ma va all'essenza della questione: cos'è la danza? La danza è il movimento del corpo umano e questo diventa la centralità della sua attenzione.
Emblematico è, a tal proposito, un pezzo intitolato Trio A, inserito in un progetto dal titolo eloquente The mind is a muscle (“La mente è un muscolo”, 1966): si tratta di una partitura coreografica nella quale non si vuole dare alcun minimo piacere allo spettatore - manca infatti qualsiasi contatto visivo col pubblico - in cui si rompe lo stereotipo del danzatore attraverso l'uso di movimenti isolati e programmati, con una distribuzione uniforme di energia. L'obiettivo è quello di proporre l'essere umano come un qualcosa di espressivo di per sè, senza la necessità di tutta una trasformazione drammatica o psicologica per comunicare qualcosa. Da qui, l'altro assunto rivoluzionario: il corpo significa per se stesso1.
Nel 1972 passa al cinema e in questo nuovo campo emerge una fiorente coscienza femminista: nei suoi film2 c'è un'attenzione forte al modo in cui il corpo viene visualizzato o oggettivato dall'obiettivo della fotocamera, non segue convenzioni narrative, ma affronta questioni sociali e politiche.
Dopo diversi anni dedicati al lavoro di regista e alla stesura di diversi libri3, ritorna alla danza4 e tuttora, ultraottantenne, continua a coreografare e a far sentire la sua voce libera.

Julka Fusco

  1. Tra i molti lavori di Yvonne Rainer ricordiamo: Three Satie Spoons (1961); Ordinary Dance (1962); Terrain (1962); We Shall Run (1963); Continuous Project-Altered Daily (1969); War Street Action (1970); This is the story of a woman who... (1973); Two People on Bed/Table (1974).
  2. Journeys From Berlin (1971); Lives of Performers (1972); Film About a Woman Who (1974); Kristina Talking Pictures (1976); The Man Who Envied Women (1985); Privilege (1990); MURDER and murder (1996).
  3. Work 1961-73, Halifax 1974; A Woman Who... Essays, Interviews, Scripts, Baltimore 1999; Feelings Are Facts: A Life, Cambridge 2006; Poems, New York 2011.
  4. AG Indexical, with a Little Help from H.M. (2000); RoS Indexical (2007); The Rite of Spring Living: Good Sports 2 (2010); Assisted Living: Do You Have Any Money? (2013); The Concept of Dust, or How do you look when there's nothing left to move? (2015).



La terra è di chi la canta/
Claudia Crabuzza, “portatrice sana” di tradizione

Vincitrice della targa Tenco 2016 per la categoria “miglior album in dialetto e lingua minoritaria” con il lavoro Com un soldat (in coabitazione con James Senese autore dell'album 'O sanghe) Claudia Crabuzza, cantautrice, compositrice, scrittrice, ricercatrice e attivista algherese, è una delle voci “nomadi” più interessanti del panorama musicale situato tra la ricerca cantautorale e la matrice popolare.
Il nomadismo di cui parliamo si riferisce, oltre al viaggio fisico tra le capitali europee e le “carreteras” messicane che Claudia ha attraversato, in particolar modo alla desueta capacità di metabolizzare i cambiamenti e le trasformazioni, umane e sociali, che Claudia porta con naturalezza con sé mettendo “in movimento”, e quindi in connessione, vissuto personale e paesaggi sonori, attivismo sociale e percorso artistico. La matrice popolare, invece, di cui Claudia Crabuzza è “portatrice sana”, si affranca dalla posticcia e sterile connotazione etnico-dialettale ed emerge come nitida voce e fervido pensiero delle genti e dei popoli che la storia da sempre relega a sudditi e comprimari.
Claudia è una sorta di cantastorie, anzi, cantora, che utilizza la voce come veicolo di guarigione e come una sorta di libro che svela finalmente pagine di storia (e di storie) negate, messe al bando. Racconta con forza e delicatezza il disagio e il dolore, la rabbia e la dignità, la bellezza e le emozioni che l'essere umano produce per la sopravvivenza, sulla linea di confine tra la festa e la lotta, tra la contemplazione che trasforma il disagio in qualcosa di artistico e le tante battaglie quotidiane che l'uomo, e soprattutto la donna, deve compiere per “bonificare” i campi minati dalle ingiustizie e dalle sopraffazioni, dalle solitudini e dal pensiero massificato.
Com un soldat, appunto.

Claudia Crabuzza

Gerry - Cominciamo da qui, Claudia. Raccontaci di questo tuo ultimo lavoro (il primo da solista, narrano le cronache) e del significato del riconoscimento al Tenco.
Claudia - Com un soldat è un racconto dalla parte delle donne. Non era un piano, mettendo insieme le canzoni mi sono resa conto che il filo conduttore era la femminilità, la mia e quella di ogni donna. C'è la maternità e il legame spirituale con Madre Terra, ci sono gli omaggi alle donne-modello come Frida Khalo, a cui avevo già dedicato una canzone in Barbari dei Chichimeca, Lhasa de Sela e anche un omaggio a Bianca D'Aponte, cantautrice aversana di cui ho ripreso una ninna nanna che descrive un legame tragico tra figlia e madre, quindi anche in questo caso un tema fortemente femminile. Poi ci sono le paure che ho descritto in Com un soldat, che ti chiudono in un'armatura che paralizza e impedisce movimenti e sentimenti, come un soldato, e che in modo molto femminile si possono invece abbandonare per ritornare alla libertà e alla vita.

Mi ha sempre colpito la tua determinazione, la tua passione e la tua voglia di stare “sulle barricate” dell'umano cammino (dolente e leggero al tempo stesso). Molti ti conoscono per la straordinaria esperienza che porta il nome Chichimeca, Barbari. Raccontaci, non solo dal punto di vista biografico, il percorso di Claudia Crabuzza.
Ho iniziato a cantare piccolissima e non ho mai smesso. Dopo qualche anno di piano bar e piccole esperienze live ho fondato i Chichimeca nel 2000, con Fabio Manconi e Andrea Lubino. Abbiamo inciso tre dischi con l'etichetta indipendente di Cagliari Tajrà insieme a Massimo Canu e Gianluca Gadau. Poi ritornati in trio non abbiamo mai smesso, tanto che ora i Chichimeca storici mi accompagnano come band nei miei live. Nel frattempo ho avute tante belle esperienze con artisti come Il parto delle nuvole pesanti, Mirco Menna, Tazenda, dr Boost, e un duo dedicato alla Canción Americana con Caterinangela Fadda, ed anche lei, insieme a Felice Carta che si occupa della parte elettronica, fa parte della mia band live.

Tra le esperienze che fortemente hanno caratterizzato il tuo cammino, sicuramente trova posto primario il tuo attivismo a sostegno dei popoli indigeni del Messico e della lotta Zapatista. Il sottoscritto viene da un'esperienza decennale con l'emittente antagonista bresciana Radio Onda d'Urto e scrive sulle pagine di A-rivista, due esperienze di informazione dal basso protagoniste nel raccontare le vicende dell'insurgencia zapatista a partire da quel 1 gennaio 1994. Cosa ti ha spinto verso quella lotta (che hai anche cantato) e quali le istanze che fai tue nella ricerca personale ed artistica.
Ho conosciuto la lotta zapatista a San Cristóbal de las Casas quando un artigiano, Armando, mi ha raccontato tutto quello che era successo aprendomi un mondo sino ad allora sconosciuto. Nel mio secondo viaggio in Messico ho fatto un piccolo periodo come osservatrice internazionale nella comunità di Polhó, negli Altos del Chiapas, e ho avuto modo di vedere coi miei occhi il lavoro fatto dagli zapatisti.
Condivido tutto il percorso politico, a partire dalla consapevolezza che le armi non avrebbero potuto rappresentare nessuno e che la difesa vera è da fare dall'interno, sradicando alcolismo e violenze dalle comunità devastate dal degrado a cui erano state condannate dai governi centrali, garantendo pace attraverso la ricostruzione dall'interno della scuola, della sanità, del lavoro cooperativo. Per molti anni i rapporti internazionali favoriti dall'impatto mediatico di Marcos hanno aiutato a raggiungere gli obiettivi iniziali, poi le comunità hanno imparato a marciare da sole dimostrando la capacità di autogovernarsi con una democrazia partecipativa che noi occidentali ci sogniamo. Mi ritrovo in questo percorso anche come paradigma e credo che tutti dovrebbero imparare da questo grande esempio dal basso.

Inevitabile e ineluttabile parlare del tuo “mondo indigeno”, quello sardo-algherese. Cosa rappresentano per te lingua e territorio e come si fa a non lasciarsi ammaliare dalle sirene esotico-demagogiche della questione legata alla cosiddetta appartenenza etnica? Che valore attribuisci alla cultura di tradizione popolare e quale significato riveste per te cantare nel catalano di Alghero? Parlaci anche della connotazione storico-linguistica di Alghero.
Alghero è un porto e ha assorbito mille culture. La traccia più forte che abbiamo conservato, quella a cui teniamo di più, è quella linguistica, che deriva dalla dominazione catalana iniziata nel 1354 da cui abbiamo ereditato architettura e lingua catalana. Oggi il nostro algherese è riconosciuto come lingua minoritaria e riassume in sé il senso di identità che ci distingue, anche se purtroppo la trasmissione si è interrotta per molti della mia generazione. Credo che si debba fare uno sforzo per non perdere quello che è forse il nostro unico tesoro tradizionale. Avevo il desiderio di contribuire a questo lavoro di utilizzo reale più che di conservazione. Il sound del disco, elettronico e contemporaneo, serve a riportare tutto ad un uso corrente e “normale”, allontanandosi dal suono del folk/etnico.

Restiamo agganciati ai temi di cui sopra e alla tua città. Uno dei lavori più belli e significativi del tuo nomadismo artistico e del tuo ruolo di “portatrice sana” di tradizione è stato l'omaggio al poeta e cantautore Pino Piras, Un home del país e alla sua indole libertaria, anarchica. Raccontaci di Pino, del suo pensiero in forma di attualità, e del progetto successivamente da te ideato.
Proprio da Piras è partito il mio riavvicinamento al catalano di Alghero. Pino Piras è un autore completo, con una produzione immensa e ancora oggi non del tutto esplorata. Ha scritto canzoni e opere teatrali, fiabe e diari. Lo considero un De André del popolo. Ha messo nelle sue opere la critica del potere e dei vizi del popolo, ma anche la tenerezza e l'amore per il centro storico in cui era nato e i suoi abitanti, con uno sguardo acuto e mai gratuito, sempre inflessibile. È un De André che non aveva dalla sua né l'istruzione né i soldi. Ha fatto tutto da solo imparando e studiando tutto quello che poteva, perché si sentiva responsabile della propria crescita e del miglioramento della sua classe sociale. Il mio omaggio è partito da un piccolo documentario video in cui ho intervistato l'anziana madre Maria e tanti che l'hanno conosciuto e amato.

Con il progetto Violeta Azul, avevi ricevuto il premio Maria Carta. Senti dei punti di contatto con questa straordinaria testimone del canto di festa e di lotta? Che sensazione hai quando si parla di canto politico? Qual è la funzione principale del canto secondo Claudia Crabuzza?
Il canto è sempre politico, come la vita. È una forma di pensiero e di lotta. Violeta è stata la maestra del canto politico e la prima ricercatrice del canto popolare. È il mio modello, ma il suo contributo è inarrivabile. Io canto quando posso, come posso, diceva il poeta, cercando di dare un segno utile, e l'utilità sta anche solo nel fare delle canzoni che diano un goccio di gioia a chi le ascolta.

Un po' di considerazioni sparse che sono indissolubilmente legate fra loro.
Mi piacerebbe intanto che tu parlassi anche del progetto di produzione indipendente Tajrà (anche da un punto di vista etimologico). Cosa si può ancora dire rispetto alla polverosa e fossile iconografia con la quale si innesta un artista in un genere musicale? Il maestro Jannacci cantava “quelli che cantano dentro ai dischi perché c'hanno i figli da mantenere”; non è il tuo caso, mi sembra di capire, anche se di figli ne hai tre. Rispetto all'annosa questione del diritto d'autore Claudia Crabuzza che idea si è fatta in merito?
Ho inciso i tre dischi dei Chichimeca con Tajrà, etichetta indipendente di Cagliari fondata da Gianni Menicucci, che ha un nome onomatopeico, richiama il tajrarà con cui si canticchia allegri ignorando le parole. La politica di Tajrà e anche la nostra è sempre stata quella del puro piacere. Piacere di fare quello che ti piace e senza porsi problemi di successo o di riscontro. L'Italia non è un paese per romantici, e infatti nessuno di noi ha campato di musica sino ad ora ma convinta che sia l'unica maniera di creare qualcosa di duraturo e sincero. I diritti d'autore sono l'unica eredità che lascerò ai miei figli, un giorno spero che varranno qualcosa, e sono fiduciosa che il mastodonte SIAE si adatti ai nuovi sistemi di scambio in rete in cui gli autori ottengono il pagamento delle royalties, anche se per ora sono molto basse. Confido anche nelle società come il Nuovoimaie che riconoscono il diritto di esecuzione, che oggi invece può fare la differenza.

Crabuzza scrittrice. Dovessi pensare ad un racconto per A-rivista che trame e che personaggi sceglieresti? E ancora, di chi e di cosa vorrebbe scrivere e cantare Claudia Crabuzza nei suoi prossimi viaggi randagi?
Proporrei un pezzo che ho appena scritto che si chiama Femminicidio. Un racconto in versi che starebbe bene in un Poetry Slam, con cui do il mio punto di vista sulla violenza, che inizia molto prima di finire ammazzate da un uomo.
Ancora non so di cosa scriverò, non scrivo tanto, ogni tanto faccio il punto della situazione e mi accorgo di aver scritto un po' di cose e ci lavoro. Il prossimo disco spero che sia con i Chichimeca e che sia un disco di festa e di lotta con un suono internazionale ed elettronico. Per niente folk.

Per contattare Claudia Crabuzza: www.claudiacrabuzza.eu

Gerry Ferrara




Educazione libertaria/
Un incontro molto vivace e partecipato

Le realtà che costituiscono la REL hanno organizzato il 7° Incontro nazionale della Rete per l'Educazione Libertaria ad Abbiategrasso il 10 e 11 settembre 2016, con il contributo di Ubuntu, realtà di autoapprendimento libertario presente proprio ad Abbiategrasso.
La forma decisa collettivamente è stata quella dell'incontro aperto al pubblico per entrambi i due giorni. Il primo giorno è stato dedicato a gruppi di discussione su temi proposti e condivisi nell'iniziale assemblea plenaria. Questi i temi scelti: La comunicazione nel gruppo: condividere, confrontarsi, confliggere; L'accoglienza e la relazione tra il gruppo e le famiglie; Oltre i generi: la sessuazione nei contesti di educazione libertaria; Educazione libertaria, non elitaria!; Statale libertario? Rapporti tra educazione libertaria e scuola di Stato; Filosofia con bambin* e ragazz*; L'educazione libertaria, questa sconosciuta.

Abbiategrasso (Mi), settembre 2016 - Il pubblico interessato alle discussioni

Un momento dell'apertura dell'incontro

La mezza giornata successiva si sono invece svolti incontri con ospiti invitati a dialogare su questioni ritenute particolarmente significative: Più che un “successo scolastico”, con i/le ragazz* delle scuole libertarie Kether e Ubuntu; Giovani migranti. Oltre l'identità reti di solidarietà linguistica, con Sara Honegger Fresco (Presidente APS Asnada - Milano); L'educazione capovolta. Pratiche avverse alla congiura contro i giovani, con Stefano Laffi (ricercatore presso l'agenzia di ricerca “Codici” a Milano); Educazione, scuole e cultura libertaria. Una lunga storia anche italiana, con Goffredo Fofi (saggista, attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale) e Francesco Codello (pedagogista, per anni insegnante e dirigente scolastico, cofondatore della REL, referente italiano dell'IDEN e dell'EUDEC). Il programma completo si può trovare sul sito: www.educazionelibertaria.org.
Tra sabato e domenica hanno partecipato all'incontro più di duecento persone provenienti da diverse regioni. Una parte apparteneva a realtà di autoeducazione libertaria che costituiscono la stessa REL; il resto erano educatori/educatrici che operano in contesti differenti, in un certo numero insegnanti della scuola di Stato, in presenza minore genitori interessati. La qualità della partecipazione ha confermato la crescita di interesse verso le esperienze di autoeducazione libertaria; espressione di un bisogno collettivo sempre più consapevole e convinto della necessità di realizzare esperienze di autoapprendimento autentiche e autonome, nate dai liberi interessi di bambin* e ragazz*, distanti dai diktat degli stati nazionali come dalle imposizioni familiari e, più in generale, dal dominio degli adulti.
Per quanto riguarda gli incontri del sabato i gruppi di discussione sui temi proposti hanno dovuto misurarsi con il difficile esercizio di confrontarsi in gruppi fortemente eterogenei. Diversa provenienza, differenti aspettative e motivazioni producono spesso difficoltà che per essere sciolte bisognano di un tempo di esplicitazione, di ascolto attivo e di disposizioni d'animo non sempre facilmente e felicemente raggiunti.
D'altro canto per chi è consapevole della necessità di un'opera di divulgazione è difficile esimersi da tale esercizio e, in ogni caso, tale esercizio è quotidiano per chi è consapevole che i processi di apprendimento libero si nutrono di incidentalità.
È certo che le difficoltà di comprensione divengono occasione reciprocamente proficua solo se l'esercizio di ascolto viene liberamente scelto e/o accettato. Va aggiunto che ogni incontro, per dirsi significativo, necessita di un tempo che consenta di riconoscersi; un tempo più disteso di quanto non siamo riusciti a darci in quest'ultimo incontro.

Goffredo Fofi e Francesco Codello

La giornata di domenica ha proposto degli ospiti che, a parte gli studenti di Kiskanu/Kether e di Ubuntu, non appartenevano propriamente al “mondo” dell'educazione libertaria. Per alcun* di loro, per loro stessa ammissione, l'educazione libertaria risultava una realtà alquanto sconosciuta. Il loro dire procedeva quindi da uno sguardo altro su temi e con osservazioni che riguardano anche le esperienze di autoeducazione libertaria: il dialogo tra provenienze culturali e sociali differenti, la questione della lingua, il nodo politico della differenza di genere (Sara Honegger Fresco); la dominazione adulta, la possibile liberazione dell'infanzia e dell'adolescenza dalla prefigurazioni del mondo adulto, la denuncia critica di un mondo della prestazione che l'adulto impone sin prima della nascita (Stefano Laffi).
Dal canto loro Goffredo Fofi e Francesco Codello hanno dialogato amichevolmente. Fofi si è subito dichiarato “pessimista attivo” e in quanto tale per nulla disposto a riconoscere nell'esistente l'immagine del mondo migliore possibile. Ne ha invece rintracciato e descritto tutti quegli elementi che ne fanno una realtà il più possibile distante da un mondo realmente libero. Riguardo all'oggi ha svolto una critica serrata al mercato culturale riconoscendo alla produzione culturale la funzione di essere sempre più strumento di un potere che ha ridotto anche la cultura alle logiche del mercato e del commercio in forme adeguate ad un “popolo di consumatori”: “La cultura è l'oppio dei popoli. La cultura serve oggi per addormentare le coscienze, per far consumare cultura”. A partire da ciò Goffredo Fofi ha riconosciuto l'importanza e la necessità di costruire una trasformazione radicale dell'esistente. Tale trasformazione può essere possibile a partire proprio da forme di apprendimento che realizzino un'esperienza critica del mondo: “Siamo in una fase in cui la mutazione ci impone di essere anche noi dei mutanti, di mutare anche noi. Di essere all'altezza dei bisogni, delle speranze e delle paure di questo tempo”.

I ragazzi e ragazze di di Kether (Verona) e di Ubuntu
(Abbiategrasso) si confrontano con la platea

Sotto il segno di questa “necessaria” critica dell'esistente, Fofi ha pubblicamente dichiarato il proprio definitivo avvicinamento all'anarchia: “Io fino a poco tempo fa mi definivo socialista vagamente libertario. [...] Sono diventato anarchico perché il sistema di potere di quest'epoca non mi lascia tanta speranza. L'anarchia per me è diventata un obbligo e un bisogno. Non è un ideale generico, è una necessità fisica fondamentale oggi. Il sistema di potere è talmente capillare, talmente oppressivo, talmente vasto, talmente onnipresente in tutte le nostre esperienze quotidiane che resistere a questo sistema oggi è un dovere. Essere anarchici vuol dire non aderire alle ideologie del mondo così come è. [...] Bisogna avere la capacità di stare in questo mondo mentre si costruisce un altro mondo. È fondamentale”.
Riprendendo parte del discorso di Fofi, Francesco Codello ha chiuso il 7° Incontro nazionale richiamando alcuni problemi aperti:
- innanzitutto la necessità di crescere insieme: “Il futuro del cambiamento non può essere futuro di poche persone, di un'avanguardia più o meno illuminata”;
- la consapevolezza che “la REL è soprattutto fatta dalle esperienze delle scuole libertarie e questo comporta una responsabilità collettiva per le persone, bambin*, adolescenti e adulti in esse coinvolte. Vite che sperimentano e rischiano quotidianamente successi e fallimenti passando dal desiderio alla realizzazione”;
- la consapevolezza che dietro a parole, concetti, esperienze dichiarati e vissuti c'è una storia di cui ci si sente parte e rispetto alla quale ci si sente altrettanto responsabili. Una storia che appartiene a “una tradizione di pratiche e di riflessioni che viene da lontano” che nell'anarchismo ha la sua principale fonte di teoria e di prassi: “L'educazione libertaria è qualche cosa di preciso e caratterizzato e non può essere confusa con altre teorie e pratiche, poiché assume, anche, una precisa dimensione “politica” antiautoritaria e rappresenta, sicuramente, di fatto, un consapevole e fondamentale ruolo nel processo di radicale trasformazione della società in senso libertario”.
Queste considerazioni finali confermano quali siano, per chi liberamente compone la REL, gli impegni al presente e per l'immediato futuro. Da un lato la costante verifica di quali siano oggi in Italia le possibilità per realizzare esperienze di educazione libertaria pubbliche e non di Stato. Quale e quanto impegno si rende necessario per sostenerle, renderle sempre più diffuse, qui e ora, nella convinzione di quanto queste esperienze contribuiscano alla “radicale trasformazione della società in senso libertario”. D'altro lato evitare il rischio di chiudersi nell'autoreferenzialità. Occorre “cercare costantemente di andare al di là del proprio specifico, magari gratificante, bello, positivo. Mantenere e sviluppare la capacità di leggere l'insieme delle cose. Far sì che le scuole libertarie divengano punto di riferimento, specchio nel quale riconoscersi”. Per fare questo bisogna anche “saper ascoltare e attendere queste persone; perché anch'esse possono essere specchio per le scuole libertarie in un'esperienza di reciproco riconoscimento”.
Il 7° Incontro nazionale si è quindi concluso nella convinzione che un'altra educazione è possibile e con il rinnovato impegno di costruire insieme esperienze di autoapprendimento pubbliche, non di Stato, radicalmente libertarie, non solo “progressiste” o “democratiche”, in forme sempre più ampie e partecipate.

Maurizio Giannangeli