Yvonne Rainer/
L'anarchia a passo di danza
Yvonne Rainer è una ballerina, coreografa e regista
americana che ha segnato la storia della danza postmoderna.
Donna di grandissima intelligenza e spirito di sperimentazione,
ha portato in ogni campo artistico, in cui si è confrontata,
dei cambiamenti profondi e, per certi aspetti, irreversibili.
Nasce il 24 novembre del 1934, a San Francisco, in un ambiente
in cui l'arte e la politica erano di casa: dal padre imparerà
ad usare la telecamera e dalla madre apprenderà la tecnica
della danza classica. Come lei stessa racconta, i suoi genitori
erano considerati per l'epoca “radicali” e fu esposta,
sin dalla più giovane età, “alle influenze
inebrianti di poeti, scrittori e anarchici italiani”.
A 21 anni decide di trasferirsi a New York, città in
cui studia con i grandi della danza contemporanea, ma come altri
giovani dell'epoca, spinta da uno spirito libero, partecipa
alla fondazione di un collettivo di ballerini, il Judson
Dance Theater, in cui non c'è nessun maestro o coreografo
che dispone dei corpi altrui, ma tutti sono maestri e coreografi
di tutti. Il gruppo era formato da ballerini, compositori e
artisti visivi che si riunivano ogni settimana per provare;
il primo spettacolo ebbe luogo il 6 luglio 1962 e tra il 1962
e il 1964 produssero quasi duecento spettacoli. Era un luogo
di collaborazione tra artisti in un clima di totale libertà,
in cui l'ispirazione, per molti dei pezzi creati, era rappresentata
dai gesti quotidiani e spesso gli interpreti per le perfomance
di danza non erano ballerini.
Fu in questo contesto che Yvonne Rainer emerse con una critica
fortissima e un rifiuto categorico a tutto quello che la danza
in quel momento storico rappresentava e ai codici e alle limitazioni
tecniche da questa imposta; infatti, nel 1965 pubblica il “No
Manifesto”. Questo grido libertario sarà il punto
di partenza della corrente artistica a lei attribuita, detta
minimalismo: Yvonne porta la danza in un nuovo territorio, in
cui ci si slega completamente dallo spettacolo, proponendo un'idea
del tutto rivoluzionaria: tutti possono muoversi e quindi tutti
possono danzare. Nel “No Manifesto” si concretizza
non solo un'accusa sociale, ma vi sono una serie di istruzioni
per l'artista. Questo documento le serve come terreno per demistificare
la danza come spettacolo, che consenta di abbandonare una riflessione
sullo spettatore volta unicamente a convincerlo di qualcosa,
trasformandolo in un soggetto manipolato.
La sua idea era, invece, quella di creare una scena neutrale
che non avvolgesse il pubblico, dove il movimento non rappresenterà
niente di più che il movimento e dove la naturalezza
dell'opera si concentra nella presenza obiettiva dell'essere
umano sulla scena.
I no del Manifesto sono:
No allo spettacolo
No al virtuosismo
No alle trasformazioni, alla magia e alla finzione
No al fascino e alla trascendenza dell'immagine della star
No all'eroico
No all'antieroico
No alle immagini spazzatura
No al coinvolgimento dell'interprete e dello spettatore
No allo stile
No all'affettazione
No alla seduzione dello spettatore attraverso artifici dell'interprete
No all'eccentricità
No al far commuovere o ad essere commosso.
Convinta del fatto che l'arte è politica nella misura
in cui destabilizza e crea tensione, Yvonne si allontana dal
luogo comune della rappresentazione, poiché, mentre per
la maggioranza la danza significava produzioni sceniche, lei
cerca di allontanare il danzatore dallo spettatore. Si rifiuta
di “vendere la fantasia”, come aveva fatto sino
a quel momento la danza, ma propone un'idea nuova dove la danza
non risponde alla semplice industria culturale che trasforma
l'arte in bene di consumo, ai fini dell'intrattenimento e che
viene legittimata per mezzo degli spettatori. È anche
per questa ragione che la sua elezione spaziale va verso luoghi
sino ad allora assolutamente impensabili per ospitare performance
di danza: un modo anche questo per ribellarsi al “sistema
dell'arte”.
In questa sfida a tutto campo della “danza tradizionale”
non si chiede che cosa possa significare la danza o rappresentare
la danza, ma va all'essenza della questione: cos'è la
danza? La danza è il movimento del corpo umano e questo
diventa la centralità della sua attenzione.
Emblematico è, a tal proposito, un pezzo intitolato Trio
A, inserito in un progetto dal titolo eloquente The mind
is a muscle (“La mente è un muscolo”,
1966): si tratta di una partitura coreografica nella quale non
si vuole dare alcun minimo piacere allo spettatore - manca infatti
qualsiasi contatto visivo col pubblico - in cui si rompe lo
stereotipo del danzatore attraverso l'uso di movimenti isolati
e programmati, con una distribuzione uniforme di energia. L'obiettivo
è quello di proporre l'essere umano come un qualcosa
di espressivo di per sè, senza la necessità di
tutta una trasformazione drammatica o psicologica per comunicare
qualcosa. Da qui, l'altro assunto rivoluzionario: il corpo significa
per se stesso1.
Nel 1972 passa al cinema e in questo nuovo campo emerge una
fiorente coscienza femminista: nei suoi film2
c'è un'attenzione forte al modo in cui il corpo viene
visualizzato o oggettivato dall'obiettivo della fotocamera,
non segue convenzioni narrative, ma affronta questioni sociali
e politiche.
Dopo diversi anni dedicati al lavoro di regista e alla stesura
di diversi libri3, ritorna alla
danza4 e tuttora, ultraottantenne,
continua a coreografare e a far sentire la sua voce libera.
Julka Fusco
- Tra i molti lavori di Yvonne Rainer ricordiamo: Three
Satie Spoons (1961); Ordinary Dance (1962); Terrain
(1962); We Shall Run (1963); Continuous Project-Altered
Daily (1969); War Street Action (1970); This
is the story of a woman who... (1973); Two People
on Bed/Table (1974).
- Journeys From Berlin (1971); Lives of Performers
(1972); Film About a Woman Who (1974); Kristina
Talking Pictures (1976); The Man Who Envied Women
(1985); Privilege (1990); MURDER and murder
(1996).
- Work 1961-73, Halifax 1974; A Woman Who... Essays, Interviews,
Scripts, Baltimore 1999; Feelings Are Facts: A Life, Cambridge
2006; Poems, New York 2011.
- AG Indexical, with a Little Help from H.M. (2000);
RoS Indexical (2007); The Rite of Spring Living:
Good Sports 2 (2010); Assisted Living: Do You Have
Any Money? (2013); The Concept of Dust, or How do you
look when there's nothing left to move? (2015).
La terra è di chi la canta/
Claudia Crabuzza, “portatrice sana” di tradizione
Vincitrice della targa Tenco 2016 per la categoria “miglior
album in dialetto e lingua minoritaria” con il lavoro
Com un soldat (in coabitazione con James Senese autore
dell'album 'O sanghe) Claudia Crabuzza, cantautrice,
compositrice, scrittrice, ricercatrice e attivista algherese,
è una delle voci “nomadi” più interessanti
del panorama musicale situato tra la ricerca cantautorale e
la matrice popolare.
Il nomadismo di cui parliamo si riferisce, oltre al viaggio
fisico tra le capitali europee e le “carreteras”
messicane che Claudia ha attraversato, in particolar modo alla
desueta capacità di metabolizzare i cambiamenti e le
trasformazioni, umane e sociali, che Claudia porta con naturalezza
con sé mettendo “in movimento”, e quindi
in connessione, vissuto personale e paesaggi sonori, attivismo
sociale e percorso artistico. La matrice popolare, invece, di
cui Claudia Crabuzza è “portatrice sana”,
si affranca dalla posticcia e sterile connotazione etnico-dialettale
ed emerge come nitida voce e fervido pensiero delle genti e
dei popoli che la storia da sempre relega a sudditi e comprimari.
Claudia è una sorta di cantastorie, anzi, cantora, che
utilizza la voce come veicolo di guarigione e come una sorta
di libro che svela finalmente pagine di storia (e di storie)
negate, messe al bando. Racconta con forza e delicatezza il
disagio e il dolore, la rabbia e la dignità, la bellezza
e le emozioni che l'essere umano produce per la sopravvivenza,
sulla linea di confine tra la festa e la lotta, tra la contemplazione
che trasforma il disagio in qualcosa di artistico e le tante
battaglie quotidiane che l'uomo, e soprattutto la donna, deve
compiere per “bonificare” i campi minati dalle ingiustizie
e dalle sopraffazioni, dalle solitudini e dal pensiero massificato.
Com un soldat, appunto.
Gerry - Cominciamo da qui, Claudia. Raccontaci di questo
tuo ultimo lavoro (il primo da solista, narrano le cronache)
e del significato del riconoscimento al Tenco.
Claudia - Com un soldat è un racconto dalla parte
delle donne. Non era un piano, mettendo insieme le canzoni mi
sono resa conto che il filo conduttore era la femminilità,
la mia e quella di ogni donna. C'è la maternità
e il legame spirituale con Madre Terra, ci sono gli omaggi alle
donne-modello come Frida Khalo, a cui avevo già dedicato
una canzone in Barbari dei Chichimeca, Lhasa de Sela e anche
un omaggio a Bianca D'Aponte, cantautrice aversana di cui ho
ripreso una ninna nanna che descrive un legame tragico tra figlia
e madre, quindi anche in questo caso un tema fortemente femminile.
Poi ci sono le paure che ho descritto in Com un soldat,
che ti chiudono in un'armatura che paralizza e impedisce movimenti
e sentimenti, come un soldato, e che in modo molto femminile
si possono invece abbandonare per ritornare alla libertà
e alla vita.
Mi ha sempre colpito la tua determinazione, la tua passione
e la tua voglia di stare “sulle barricate” dell'umano
cammino (dolente e leggero al tempo stesso). Molti ti conoscono
per la straordinaria esperienza che porta il nome Chichimeca,
Barbari. Raccontaci, non solo dal punto di vista biografico,
il percorso di Claudia Crabuzza.
Ho iniziato a cantare piccolissima e non ho mai smesso. Dopo
qualche anno di piano bar e piccole esperienze live ho fondato
i Chichimeca nel 2000, con Fabio Manconi e Andrea Lubino. Abbiamo
inciso tre dischi con l'etichetta indipendente di Cagliari Tajrà
insieme a Massimo Canu e Gianluca Gadau. Poi ritornati in trio
non abbiamo mai smesso, tanto che ora i Chichimeca storici mi
accompagnano come band nei miei live. Nel frattempo ho avute
tante belle esperienze con artisti come Il parto delle nuvole
pesanti, Mirco Menna, Tazenda, dr Boost, e un duo dedicato alla
Canción Americana con Caterinangela Fadda, ed anche lei,
insieme a Felice Carta che si occupa della parte elettronica,
fa parte della mia band live.
Tra le esperienze che fortemente hanno caratterizzato
il tuo cammino, sicuramente trova posto primario il tuo attivismo
a sostegno dei popoli indigeni del Messico e della lotta Zapatista.
Il sottoscritto viene da un'esperienza decennale con l'emittente
antagonista bresciana Radio Onda d'Urto e scrive sulle pagine
di A-rivista, due esperienze di informazione dal basso protagoniste
nel raccontare le vicende dell'insurgencia zapatista
a partire da quel 1 gennaio 1994. Cosa ti ha spinto verso quella
lotta (che hai anche cantato) e quali le istanze che fai tue
nella ricerca personale ed artistica.
Ho conosciuto la lotta zapatista a San Cristóbal de las
Casas quando un artigiano, Armando, mi ha raccontato tutto quello
che era successo aprendomi un mondo sino ad allora sconosciuto.
Nel mio secondo viaggio in Messico ho fatto un piccolo periodo
come osservatrice internazionale nella comunità di Polhó,
negli Altos del Chiapas, e ho avuto modo di vedere coi miei
occhi il lavoro fatto dagli zapatisti.
Condivido tutto il percorso politico, a partire dalla consapevolezza
che le armi non avrebbero potuto rappresentare nessuno e che
la difesa vera è da fare dall'interno, sradicando alcolismo
e violenze dalle comunità devastate dal degrado a cui
erano state condannate dai governi centrali, garantendo pace
attraverso la ricostruzione dall'interno della scuola, della
sanità, del lavoro cooperativo. Per molti anni i rapporti
internazionali favoriti dall'impatto mediatico di Marcos hanno
aiutato a raggiungere gli obiettivi iniziali, poi le comunità
hanno imparato a marciare da sole dimostrando la capacità
di autogovernarsi con una democrazia partecipativa che noi occidentali
ci sogniamo. Mi ritrovo in questo percorso anche come paradigma
e credo che tutti dovrebbero imparare da questo grande esempio
dal basso.
Inevitabile e ineluttabile parlare del tuo “mondo
indigeno”, quello sardo-algherese. Cosa rappresentano
per te lingua e territorio e come si fa a non lasciarsi ammaliare
dalle sirene esotico-demagogiche della questione legata alla
cosiddetta appartenenza etnica? Che valore attribuisci alla
cultura di tradizione popolare e quale significato riveste per
te cantare nel catalano di Alghero? Parlaci anche della connotazione
storico-linguistica di Alghero.
Alghero è un porto e ha assorbito mille culture. La traccia
più forte che abbiamo conservato, quella a cui teniamo
di più, è quella linguistica, che deriva dalla
dominazione catalana iniziata nel 1354 da cui abbiamo ereditato
architettura e lingua catalana. Oggi il nostro algherese è
riconosciuto come lingua minoritaria e riassume in sé
il senso di identità che ci distingue, anche se purtroppo
la trasmissione si è interrotta per molti della mia generazione.
Credo che si debba fare uno sforzo per non perdere quello che
è forse il nostro unico tesoro tradizionale. Avevo il
desiderio di contribuire a questo lavoro di utilizzo reale più
che di conservazione. Il sound del disco, elettronico e contemporaneo,
serve a riportare tutto ad un uso corrente e “normale”,
allontanandosi dal suono del folk/etnico.
Restiamo agganciati ai temi di cui sopra e alla tua città.
Uno dei lavori più belli e significativi del tuo nomadismo
artistico e del tuo ruolo di “portatrice sana” di
tradizione è stato l'omaggio al poeta e cantautore Pino
Piras, Un home del país e alla sua indole libertaria,
anarchica. Raccontaci di Pino, del suo pensiero in forma di
attualità, e del progetto successivamente da te ideato.
Proprio da Piras è partito il mio riavvicinamento al
catalano di Alghero. Pino Piras è un autore completo,
con una produzione immensa e ancora oggi non del tutto esplorata.
Ha scritto canzoni e opere teatrali, fiabe e diari. Lo considero
un De André del popolo. Ha messo nelle sue opere la critica
del potere e dei vizi del popolo, ma anche la tenerezza e l'amore
per il centro storico in cui era nato e i suoi abitanti, con
uno sguardo acuto e mai gratuito, sempre inflessibile. È
un De André che non aveva dalla sua né l'istruzione
né i soldi. Ha fatto tutto da solo imparando e studiando
tutto quello che poteva, perché si sentiva responsabile
della propria crescita e del miglioramento della sua classe
sociale. Il mio omaggio è partito da un piccolo documentario
video in cui ho intervistato l'anziana madre Maria e tanti che
l'hanno conosciuto e amato.
Con il progetto Violeta Azul, avevi ricevuto il premio
Maria Carta. Senti dei punti di contatto con questa straordinaria
testimone del canto di festa e di lotta? Che sensazione hai
quando si parla di canto politico? Qual è la funzione
principale del canto secondo Claudia Crabuzza?
Il canto è sempre politico, come la vita. È una
forma di pensiero e di lotta. Violeta è stata la maestra
del canto politico e la prima ricercatrice del canto popolare.
È il mio modello, ma il suo contributo è inarrivabile.
Io canto quando posso, come posso, diceva il poeta, cercando
di dare un segno utile, e l'utilità sta anche solo nel
fare delle canzoni che diano un goccio di gioia a chi le ascolta.
Un po' di considerazioni sparse che sono indissolubilmente
legate fra loro.
Mi piacerebbe intanto che tu parlassi anche del progetto
di produzione indipendente Tajrà (anche da un punto di
vista etimologico). Cosa si può ancora dire rispetto
alla polverosa e fossile iconografia con la quale si innesta
un artista in un genere musicale? Il maestro Jannacci cantava
“quelli che cantano dentro ai dischi perché c'hanno
i figli da mantenere”; non è il tuo caso, mi sembra
di capire, anche se di figli ne hai tre. Rispetto all'annosa
questione del diritto d'autore Claudia Crabuzza che idea si
è fatta in merito?
Ho inciso i tre dischi dei Chichimeca con Tajrà, etichetta
indipendente di Cagliari fondata da Gianni Menicucci, che ha
un nome onomatopeico, richiama il tajrarà con cui si
canticchia allegri ignorando le parole. La politica di Tajrà
e anche la nostra è sempre stata quella del puro piacere.
Piacere di fare quello che ti piace e senza porsi problemi di
successo o di riscontro. L'Italia non è un paese per
romantici, e infatti nessuno di noi ha campato di musica sino
ad ora ma convinta che sia l'unica maniera di creare qualcosa
di duraturo e sincero. I diritti d'autore sono l'unica eredità
che lascerò ai miei figli, un giorno spero che varranno
qualcosa, e sono fiduciosa che il mastodonte SIAE si adatti
ai nuovi sistemi di scambio in rete in cui gli autori ottengono
il pagamento delle royalties, anche se per ora sono molto basse.
Confido anche nelle società come il Nuovoimaie che riconoscono
il diritto di esecuzione, che oggi invece può fare la
differenza.
Crabuzza scrittrice. Dovessi pensare ad un racconto per
A-rivista che trame e che personaggi sceglieresti? E ancora,
di chi e di cosa vorrebbe scrivere e cantare Claudia Crabuzza
nei suoi prossimi viaggi randagi?
Proporrei un pezzo che ho appena scritto che si chiama Femminicidio.
Un racconto in versi che starebbe bene in un Poetry Slam, con
cui do il mio punto di vista sulla violenza, che inizia molto
prima di finire ammazzate da un uomo.
Ancora non so di cosa scriverò, non scrivo tanto, ogni
tanto faccio il punto della situazione e mi accorgo di aver
scritto un po' di cose e ci lavoro. Il prossimo disco spero
che sia con i Chichimeca e che sia un disco di festa e di lotta
con un suono internazionale ed elettronico. Per niente folk.
Per contattare Claudia Crabuzza: www.claudiacrabuzza.eu
Gerry Ferrara
Educazione libertaria/
Un incontro molto vivace e partecipato
Le realtà che costituiscono la REL hanno organizzato
il 7° Incontro nazionale della Rete per l'Educazione Libertaria
ad Abbiategrasso il 10 e 11 settembre 2016, con il contributo
di Ubuntu, realtà di autoapprendimento libertario presente
proprio ad Abbiategrasso.
La forma decisa collettivamente è stata quella dell'incontro
aperto al pubblico per entrambi i due giorni. Il primo giorno
è stato dedicato a gruppi di discussione su temi proposti
e condivisi nell'iniziale assemblea plenaria. Questi i temi
scelti: La comunicazione nel gruppo: condividere, confrontarsi,
confliggere; L'accoglienza e la relazione tra il gruppo e le
famiglie; Oltre i generi: la sessuazione nei contesti di educazione
libertaria; Educazione libertaria, non elitaria!; Statale libertario?
Rapporti tra educazione libertaria e scuola di Stato; Filosofia
con bambin* e ragazz*; L'educazione libertaria, questa sconosciuta.
|
Abbiategrasso (Mi), settembre 2016 - Il pubblico interessato alle discussioni |
|
Un momento dell'apertura dell'incontro |
La mezza giornata successiva si sono invece svolti incontri
con ospiti invitati a dialogare su questioni ritenute particolarmente
significative: Più che un “successo scolastico”,
con i/le ragazz* delle scuole libertarie Kether e Ubuntu; Giovani
migranti. Oltre l'identità reti di solidarietà
linguistica, con Sara Honegger Fresco (Presidente APS Asnada
- Milano); L'educazione capovolta. Pratiche avverse alla
congiura contro i giovani, con Stefano Laffi (ricercatore
presso l'agenzia di ricerca “Codici” a Milano);
Educazione, scuole e cultura libertaria. Una lunga storia
anche italiana, con Goffredo Fofi (saggista, attivista,
giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale)
e Francesco Codello (pedagogista, per anni insegnante e dirigente
scolastico, cofondatore della REL, referente italiano dell'IDEN
e dell'EUDEC). Il programma completo si può trovare sul
sito: www.educazionelibertaria.org.
Tra sabato e domenica hanno partecipato all'incontro più
di duecento persone provenienti da diverse regioni. Una parte
apparteneva a realtà di autoeducazione libertaria che
costituiscono la stessa REL; il resto erano educatori/educatrici
che operano in contesti differenti, in un certo numero insegnanti
della scuola di Stato, in presenza minore genitori interessati.
La qualità della partecipazione ha confermato la crescita
di interesse verso le esperienze di autoeducazione libertaria;
espressione di un bisogno collettivo sempre più consapevole
e convinto della necessità di realizzare esperienze di
autoapprendimento autentiche e autonome, nate dai liberi interessi
di bambin* e ragazz*, distanti dai diktat degli stati
nazionali come dalle imposizioni familiari e, più in
generale, dal dominio degli adulti.
Per quanto riguarda gli incontri del sabato i gruppi di discussione
sui temi proposti hanno dovuto misurarsi con il difficile esercizio
di confrontarsi in gruppi fortemente eterogenei. Diversa provenienza,
differenti aspettative e motivazioni producono spesso difficoltà
che per essere sciolte bisognano di un tempo di esplicitazione,
di ascolto attivo e di disposizioni d'animo non sempre facilmente
e felicemente raggiunti.
D'altro canto per chi è consapevole della necessità
di un'opera di divulgazione è difficile esimersi da tale
esercizio e, in ogni caso, tale esercizio è quotidiano
per chi è consapevole che i processi di apprendimento
libero si nutrono di incidentalità.
È certo che le difficoltà di comprensione divengono
occasione reciprocamente proficua solo se l'esercizio di ascolto
viene liberamente scelto e/o accettato. Va aggiunto che ogni
incontro, per dirsi significativo, necessita di un tempo che
consenta di riconoscersi; un tempo più disteso di quanto
non siamo riusciti a darci in quest'ultimo incontro.
|
Goffredo Fofi e Francesco Codello |
La giornata di domenica ha proposto degli ospiti che, a parte
gli studenti di Kiskanu/Kether e di Ubuntu, non
appartenevano propriamente al “mondo” dell'educazione
libertaria. Per alcun* di loro, per loro stessa ammissione,
l'educazione libertaria risultava una realtà alquanto
sconosciuta. Il loro dire procedeva quindi da uno sguardo altro
su temi e con osservazioni che riguardano anche le esperienze
di autoeducazione libertaria: il dialogo tra provenienze culturali
e sociali differenti, la questione della lingua, il nodo politico
della differenza di genere (Sara Honegger Fresco); la dominazione
adulta, la possibile liberazione dell'infanzia e dell'adolescenza
dalla prefigurazioni del mondo adulto, la denuncia critica di
un mondo della prestazione che l'adulto impone sin prima della
nascita (Stefano Laffi).
Dal canto loro Goffredo Fofi e Francesco Codello hanno dialogato
amichevolmente. Fofi si è subito dichiarato “pessimista
attivo” e in quanto tale per nulla disposto a riconoscere
nell'esistente l'immagine del mondo migliore possibile. Ne ha
invece rintracciato e descritto tutti quegli elementi che ne
fanno una realtà il più possibile distante da
un mondo realmente libero. Riguardo all'oggi ha svolto una critica
serrata al mercato culturale riconoscendo alla produzione culturale
la funzione di essere sempre più strumento di un potere
che ha ridotto anche la cultura alle logiche del mercato e del
commercio in forme adeguate ad un “popolo di consumatori”:
“La cultura è l'oppio dei popoli. La cultura serve
oggi per addormentare le coscienze, per far consumare cultura”.
A partire da ciò Goffredo Fofi ha riconosciuto l'importanza
e la necessità di costruire una trasformazione radicale
dell'esistente. Tale trasformazione può essere possibile
a partire proprio da forme di apprendimento che realizzino un'esperienza
critica del mondo: “Siamo in una fase in cui la mutazione
ci impone di essere anche noi dei mutanti, di mutare anche noi.
Di essere all'altezza dei bisogni, delle speranze e delle paure
di questo tempo”.
|
I ragazzi e ragazze di di Kether (Verona) e di Ubuntu (Abbiategrasso) si confrontano con la platea |
Sotto il segno di questa “necessaria” critica
dell'esistente, Fofi ha pubblicamente dichiarato il proprio
definitivo avvicinamento all'anarchia: “Io fino a poco
tempo fa mi definivo socialista vagamente libertario. [...]
Sono diventato anarchico perché il sistema di potere
di quest'epoca non mi lascia tanta speranza. L'anarchia per
me è diventata un obbligo e un bisogno. Non è
un ideale generico, è una necessità fisica fondamentale
oggi. Il sistema di potere è talmente capillare, talmente
oppressivo, talmente vasto, talmente onnipresente in tutte le
nostre esperienze quotidiane che resistere a questo sistema
oggi è un dovere. Essere anarchici vuol dire non aderire
alle ideologie del mondo così come è. [...]
Bisogna avere la capacità di stare in questo mondo mentre
si costruisce un altro mondo. È fondamentale”.
Riprendendo parte del discorso di Fofi, Francesco Codello ha
chiuso il 7° Incontro nazionale richiamando alcuni problemi
aperti:
- innanzitutto la necessità di crescere insieme: “Il
futuro del cambiamento non può essere futuro di poche
persone, di un'avanguardia più o meno illuminata”;
- la consapevolezza che “la REL è soprattutto fatta
dalle esperienze delle scuole libertarie e questo comporta una
responsabilità collettiva per le persone, bambin*, adolescenti
e adulti in esse coinvolte. Vite che sperimentano e rischiano
quotidianamente successi e fallimenti passando dal desiderio
alla realizzazione”;
- la consapevolezza che dietro a parole, concetti, esperienze
dichiarati e vissuti c'è una storia di cui ci si sente
parte e rispetto alla quale ci si sente altrettanto responsabili.
Una storia che appartiene a “una tradizione di pratiche
e di riflessioni che viene da lontano” che nell'anarchismo
ha la sua principale fonte di teoria e di prassi: “L'educazione
libertaria è qualche cosa di preciso e caratterizzato
e non può essere confusa con altre teorie e pratiche,
poiché assume, anche, una precisa dimensione “politica”
antiautoritaria e rappresenta, sicuramente, di fatto, un consapevole
e fondamentale ruolo nel processo di radicale trasformazione
della società in senso libertario”.
Queste considerazioni finali confermano quali siano, per chi
liberamente compone la REL, gli impegni al presente e per l'immediato
futuro. Da un lato la costante verifica di quali siano oggi
in Italia le possibilità per realizzare esperienze di
educazione libertaria pubbliche e non di Stato. Quale e quanto
impegno si rende necessario per sostenerle, renderle sempre
più diffuse, qui e ora, nella convinzione di quanto queste
esperienze contribuiscano alla “radicale trasformazione
della società in senso libertario”. D'altro lato
evitare il rischio di chiudersi nell'autoreferenzialità.
Occorre “cercare costantemente di andare al di là
del proprio specifico, magari gratificante, bello, positivo.
Mantenere e sviluppare la capacità di leggere l'insieme
delle cose. Far sì che le scuole libertarie divengano
punto di riferimento, specchio nel quale riconoscersi”.
Per fare questo bisogna anche “saper ascoltare e attendere
queste persone; perché anch'esse possono essere specchio
per le scuole libertarie in un'esperienza di reciproco riconoscimento”.
Il 7° Incontro nazionale si è quindi concluso nella
convinzione che un'altra educazione è possibile e con
il rinnovato impegno di costruire insieme esperienze di autoapprendimento
pubbliche, non di Stato, radicalmente libertarie, non solo “progressiste”
o “democratiche”, in forme sempre più ampie
e partecipate.
Maurizio Giannangeli
|