rivista anarchica
anno 47 n. 413
febbraio 2017


Cuba

Dopo la morte del dittatore Fidel

scritti di Rafael Cid e Octavio Alberola


È indiscutibile che Cuba, dopo la presa del potere da parte dei barbudos oltre mezzo secolo fa, è stato uno dei miti più resistenti del marxismo-leninismo. Alcuni miglioramenti nella vita sociale e soprattutto la figura di Ernesto “Che” Guevara, quale vittima della repressione internazionale, hanno contribuito all'immagine di un Paese socialista. La realtà è stata invece fin dall'inizio quella di una feroce dittatura, impersonata dal “lider maximo” (recentemente sostituito dal fratello Raúl), che ha costretto all'esilio milioni di cubani e in carcere decine di migliaia di persone, spesso colpevoli solo di non accettare il regime comunista.
Noi da sempre ci siamo schierati con l'opposizione anarchica e libertaria, senza cedere alle mitologie terzomondiste.
Le edizioni Cuba Libertaria hanno pubblicato, all'indomani della morte di Fidel Castro, un numero speciale contenente alcuni scritti “a caldo”.
Ne riprendiamo due. E ci ripromettiamo di tornare sull'argomento Cuba.


Più di mezzo secolo di alta Fidel-ità

di Rafael Cid

”Sembrava grande, ma era l'ombra che proiettava”
(El Roto)

Chi come noi ha vissuto da giovane il maggio francese del '68 fa parte di una generazione che ha visto nel trionfo della Rivoluzione cubana una speranza umanista diversa da tutto quello che aveva conosciuto fino ad allora. In quegli anni, nessuna sensibilità politica poteva ignorare le atrocità commesse dal colonialismo rampante. Omicidi sporchi come quelli del congolese Patrick Lumumba, del marocchino Ben Barka, del portoghese Humberto Delgado o dell'algerino Mohamed Khider evidenziavano la necessità di posizionarsi nettamente contro i regimi dispotici che volevano fermare il cammino dei popoli verso la propria autodeterminazione. Per questo, l'insurrezione capeggiata tra gli altri da Castro, Guevara, Cienfuegos e Matos per liquidare la dittatura di Batista fu accolta con una generale soddisfazione. Di fatto, quel “Sì, si può” degli insorti della Sierra Maestra, ispirò in Spagna il Fronte di Liberazione Popolare (FELIPE) nel tentativo di riprodurre quel modello insurrezionale nella Sierra di Segura, con l'aiuto della Jugoslavia non allineata di Tito.
Tuttavia, mentre noi ci mobilitavamo e protestavamo contro le aggressioni dello Zio Sam nel Terzo mondo, in Europa un altro impero interveniva allo stesso modo nel suo “cortile di casa” nella totale indifferenza di molti tra quelli che avevano occhi solo per “gli yankee”. Per prima scoppiò la sollevazione operaia di Berlino (1953), poi la rivoluzione ungherese (1956) e infine l'occupazione della Cecoslovacchia (1969), e uno dopo l'altro i sudditi dell'URSS che tentavano di opporsi allo stalinismo cadevano per mano dell'Esercito Rosso. Solo gli anarchici e il movimento libertario, gli stessi che avevano appoggiato i rivoluzionari cubani fin dai loro primi vagiti, osarono denunciare i soprusi commessi nelle “democrazie popolari”. Già da allora, la causa della sinistra si era convertita in quella del “comunismo sovietico”, soprattutto per il codismo di una gran parte dell'intellighenzia francese. Ricorrendo al tradizionale impegno sorto con il “caso Dreyfus” e al contempo per compensare il proprio “esilio interiore” durante l'occupazione nazista e il governo di Vichy, le “stelle” del momento si arruolarono nella causa del socialismo reale.
In tal modo contribuirono a legittimare nelle dirigenze politiche un culto della personalità poco appropriato per gente che si riconosceva nella missione di ragionare in libertà. Un fenomeno studiato e documentato con lucidità dallo storico britannico Tony Judt nella sua opera “Passato imperfetto”. E comunque, già a quel tempo gli studi sociologici più rigorosi avevano stabilito l'elemento differenziale tra le società occidentali e quelle sovietiche. Lo aveva formulato Raymond Aron, uno dei pochi intellettuali che, assieme ad Albert Camus, si era smarcato del tutto dal pensiero imperante, nell'ambito delle lezioni impartite alla Sorbonne di Parigi nel 1956/57 sull'evoluzione della società industriale e della società tradizionale. Il corso, che sarebbe poi stato pubblicato anni dopo in tre versioni editoriali successive (Diciotto lezioni sulla società industriale, La lotta di classe e Democrazia e totalitarismo), rimarcava le tendenze nel tipo di gestione politica applicata in ciascun caso (di pianificazione statale o di libera concorrenza) e le loro ripercussioni sulla conformazione delle rispettive classi sociali e regimi politici.
Una diagnosi che acquista attualità quando si soppesano molte delle analisi e riflessioni elaborate dopo la morte di Fidel Castro.

Socialismo reale e assenza di libertà

Lasciamo da parte, in quanto mendaci e sterili, le opinioni partorite su impulso di un anticomunismo patologico, che negherebbero l'evidenza in qualunque luogo e circostanza. E andiamo direttamente alle valutazioni elaborate sulla base dell'empatia di una sinistra mancina, che considera solo una parte del problema, i successi della rivoluzione, ingranditi dal fatto di essersi prodotti contro le persecuzioni continue della prima potenza mondiale. Si tratta di una realtà non esente da vittimismo, perché gli avvenimenti, certamente accaduti, sui quali basano la propria postura (invasione della Baia dei Porci da parte della CIA, embargo, operazioni di destabilizzazione, ecc.) sono utilizzati per negare, se non addirittura per giustificare, il carattere dittatoriale del regime castrista.
Con questa morte si produce il crollo storico di un modello di costruzione del socialismo che non è mai stato capace di coabitare con un sistema di piene libertà civili. La brutale repressione degli oppositori; la proibizione di uscire dal paese (in vigore fino a poco tempo fa); la concentrazione del potere in una sola persona; la disciplina militare imposta alla società; il monopolio governativo dei canali di informazione (che arriva alla censura di internet); le migliaia di cubani affogati in mare durante la fuga (le prime ondate di “barconi” del XX secolo); le fucilazioni extragiudiziali; l'annientamento della pluralità politica e sindacale; la persecuzione degli intellettuali critici (caso Padilla, caso Jorge Edwards, ecc.) la subordinazione delle risorse economiche del paese (terra, lavoro e capitale) al servizio del partito unico in un contesto di razionamento alimentare; le persecuzioni contro gli omosessuali (caso Reynaldo Arenas); l'esilio forzato di più di due milioni di abitanti; e altri simili abusi sono giustificati con la scusa di alcune conquiste sociali (innegabili), senza paragoni nel continente in campi come la sanità e l'educazione.
Sarebbe come dire, accettando questa tesi, che noi esseri umani dovremmo obbligatoriamente scegliere tra morire o perdere la vita. Vegetare all'ombra di una nomenklatura politica marxista-leninista che ci permette cortesemente di utilizzare la sanità e la formazione o correre il rischio di essere i più liberi del cimitero. E tutto ciò nel contesto dell'epoca con più risorse tecniche, materiali e scientifiche della storia. Su questi temi rifletteva, cifre alla mano, un corrispondente veterano da Cuba: “Per i difensori della rivoluzione, i dati che contano sono altri: prima del 1959 la mortalità infantile era superiore al 60 per mille nati vivi, ora è del 4,2; la speranza di vita era di 60 anni per gli uomini e 65 per le donne, oggi la cifra è aumentata di 15 anni per ambo i sessi”.
Fatti incontestabili ed enormemente meritori, ma basta questo per benedire una dittatura? E soprattutto, è giusto attribuire queste conquiste all'opera di un solo individuo, la cui deificazione ha portato le autorità a proibire il consumo di alcool e la musica inappropriata durante i nove giorni di lutto nazionale decretati? Perché non è vero che queste statistiche siano state possibili solo per la saggezza di Castro e del regime che ha ispirato.

Pena capitale, nessuna libertà di stampa, partito unico, ecc.

Non esiste il paradigma di una rivoluzione cubana genuinamente progressista. Nessuno può onestamente affermare che le tre generazioni sacrificate in questo abbondante mezzo secolo di alta Fidel-ità non avrebbero potuto approfittare di queste conquiste per battere altri sentieri, meno distruttivi. In questo senso sono utili alcuni esempi paradossali. Nel 1960 la Spagna aveva una speranza di vita di 60,68 anni per gli uomini e di 68,71 per le donne, ed è passata nel 2014 a 80,40 per i primi e 88,20 per le seconde; nel caso della mortalità infantile il salto è stato dal 64,2 per mille nati nel 1950 a 3,8 nel 2006.
Sebbene le comparazioni siano odiose, anche il nostro paese ha sofferto una lunga dittatura, che tuttavia è riuscita a sviluppare nel 1963 le basi della vigente sicurezza sociale. Dunque, non sembra che queste trasformazioni sostanziali siano una prerogativa esclusiva del castrismo e del suo egualitarismo verde oliva. Nei fatti, il podio mondiale per la salute infantile lo ostenta una delle icone del capitalismo mondiale. Un'altra dittatura dove si violano sistematicamente i diritti umani (fonte Freedom House) e che risulta essere uno dei primi tre paesi con maggiori disuguaglianze di reddito del mondo, secondo il coefficiente Gini. Si tratta di Singapore, isola come Cuba ma con la metà della popolazione e molte meno risorse, all'origine, di quante ne disponesse la perla del Caribe nel 1959. Al suo attivo: detenere il minor indice di mortalità infantile del pianeta (1,9 nel 2010); essere all'ottavo posto per speranza di vita, con 85 anni per le donne e 80 per gli uomini (OMS); avere una disoccupazione praticamente nulla (2%) e un indice di corruzione quasi a zero (Transparency International); essere considerato un punto di riferimento universale a livello di formazione di qualità; e disporre di un 85% di popolazione residente in case pubbliche.
Al suo passivo: la pena capitale (come a Cuba); carenza di libertà di stampa (Reporter senza frontiere); imporre punizioni corporali per crimini comuni; il sistema del partito unico; e infine la proibizione di fare graffiti e di masticare chewing gum (sic.). Lee Kuan Yew, considerato il padre della patria di Singapore, è la copia autocratica del castrismo in Asia. Vite parallele nella distanza geografica e ideologica, il Cesare visionario malese arrivò al potere nello stesso 1959 e non lo abbandonò fino al 2004, dopo aver lasciato le sue cariche al figlio, il generale Lee Hsien Loong. Questa transizione interna alla famiglia ha avuto luogo appena quattro anni prima che Fidel cedesse la presidenza a suo fratello Raúl. Conviene ancora una volta ricordare quell'affermazione di Bakunin: “Libertà senza socialismo è privilegio e ingiustizia; socialismo senza libertà, è schiavitù e brutalità”.

Rafael Cid


Quale Cuba senza Fidel?

di Octavio Alberola

Per trovare la risposta a questa domanda è necessario riflettere sulla Cuba che Fidel lascia dopo più di mezzo secolo di occupazione, assieme a suo fratello Raúl, dei vertici del potere, per essere portato a spasso dall'Havana fino al cimitero di Santiago de Cuba, in una cassetta di cristallo con le sue ceneri. Al di là del mito della “Rivoluzione cubana”, che continua a mantenersi intatto tra i suoi seguaci, c'è la realtà della Cuba governata da quasi dieci anni da suo fratello Raúl. Una Cuba in pieno processo di razionalizzazione e perfezionamento del capitalismo statale, il cui obiettivo è far uscire l'economia cubana dall'attuale situazione di crisi per pacificare il malessere sociale e assicurare la continuità del Partito-Stato. Il processo di “riforme” presentato al popolo cubano dopo il passaggio di geverno da Fidel a Raúl nel 2006 per l'aggravarsi delle condizioni di salute del primo.
Un processo di riforme “strutturali e di concezione” le cui direttrici sono state fissate nei “Lineamenti di politica economica e sociale del Partito e della Rivoluzione”. Una denominazione ambigua per giustificare il cambio di modello economico della Rivoluzione con il pretesto della “attualizzazione del modello socialista”. Un modello che, a Cuba come in tutti gli altri paesi dove è stato imposto dai governi del Partito-Stato, non è mai riuscito a edificare lo “stato di benessere” promesso ai popoli dai movimenti rivoluzionari, e che ora ci si propone di riformare sacrificando il “scialismo” e restaurando a poco a poco il capitalismo di mercato. Questa è oggi la situazione di Cuba. Una Cuba nella quale Raúl ha implementato numerosi “cambiamenti” in molti aspetti della società cubana per rendere più flessibile la vita quotidiana dei cubani; ma senza che la flessibilizzazione di regole amministrative o le concessioni fatte alle richieste popolari si siano tradotte in un riconoscimento reale dei diritti dei cittadini indipendentemente dagli interessi della classe governante.
Una Cuba in cui il Partito-Stato che Fidel ha instaurato e incarnato continua a modellare autoritariamente la vita dei cubani per timore di un cambiamento che metta in discussione la leadership e gli interessi e i privilegi della casta dirigente.
Da qui l'incertezza che regna oggi a Cuba. Incertezza sul futuro dell'economia “riformata” e incertezza sulla continuità del regime di controllo totalitario della società instaurato da Fidel e che, per il momento, continua a vigere sull'isola, sebbene con conseguenze meno arbitrarie da quando la malattia lo ha allontanato dal centro del comando e suo fratello lo occupò. È questa la grande incognita da sciogliere per poter scrutare il futuro di Cuba; perché, nonostante Raúl abbia allentato le tensioni autoritarie imposte da Fidel dal trionfo della Rivoluzione, l'apparato coercitivo e repressivo che aveva costruito – per consolidare e rendere eterna la Rivoluzione e la sua leadership personale – continua e nulla lascia pensare che sarà smantellato nel breve periodo.

Lottare per le speranze del passato

È vero che una parte della gioventù attuale ha vissuto una quotidianità meno traumatica di quella vissuta dalle generazioni che l'hanno preceduta. Generazione che ancora sono traumatizzate dagli eccessi repressivi dell'autoritarismo personale di Fidel. Un autoritarismo megalomane che lo fece autonominare Comandante in Capo già nella Sierra Maestra e che, come quello di tutti i grandi accaparratori di potere della storia, gli fece giustificare tutto con la scusa della missione di incarnare il Destino, la Patria o la Rivoluzione.
In effetti, una gran parte della gioventù attuale non ha vissuto sotto la pressione degli eccessi autoritari di un Comandante in Capo insensibile a ogni umanità e disposto, come quando fu sul punto di far fucilare suo fratello Raúl nella Sierra, a fucilare chiunque commettesse un errore nella lotta o si opponesse ai suoi ordini. È anche possibile che parte delle generazioni che hanno sofferto questi eccessi li abbiano dimenticati, o che dall'immaginario collettivo del popolo cubano sia scomparsa la paura, il terrore che imponevano questi eccessi.
Sì, forse è stato dimenticato quello che fu il sistema di controllo della società cubana nei tempi più fulgidi della pazzia repressiva del Comandante in Capo. Che siano pochi quelli che ricordano le vittime del ferreo e inumano sisitema di repressione di quei tempi. Quando fece condannare a lunghi anni di detenzione i propri compagni di lotta contro la dittatura di Batista. Come fece con Mario Chanes de Armas, compagno di Fidel durante l'attacco al Moncada nel 1952 e nello sbarco del Granma nel 1956, il prigioniero che ha passato più anni di carcere a Cuba: 30 anni senza aver commesso alcun delitto, semplicemente per aver rifiutato di collaborare con il nuovo potere che iniziava ad agire in modo totalitario seguendo direttrici comuniste. Come fece anche con Huber Matos, del gruppo dei comandanti storici della rivoluzione, condannato a 20 anni di prigione, o con Eloy Gutierrez Menoyo, altro comandante della Rivoluzione, condannato a 30 anni. Centinaia di prigionieri politici che non avevano collaborato con la dittatura di Batista, che avevano lottato contro di essa e che si erano opposti alla dittatura di Fidel Castro. Ancora, è possibile che non si ricordi la fucilazione del generale Arnaldo Ochoa e del colonnello Tony de la Guardia nel 1989, stretti collaboratori di Fidel accusati di un “traffico di droga” organizzato dallo stesso regime.
E che nemmeno ci si ricordi dei tre giovani afrocubani (Lorenzo Capelo, Bárbaro Sevilla e Jorge Martínez) che tentarono di fuggire da Cuba prendendo d'assalto un traghetto passeggeri nel porto dell'Havana, nel 2004, e che Fidel fece fucilare senza che avessero ucciso o ferito nessuno. Fucilati per “evitare agli USA una catastrofe migratoria”, come cinicamente giustificò il Comandante nei giorni successivi. Sì, è possibile che ci si sia dimenticati di questo atto vergognoso di Fidel, che non trova altra giustificazione che quella di servire da esempio per terrorizzare il popolo cubano: chi ci prova, davanti al plotone d'esecuzione! Nonostante tutto, è un fatto che a Cuba esista una dissidenza e l'esistenza di prigionieri politici lo dimostra. Ma è anche un fatto che, nonostante la precaria situazione economica e il malessere di una parte importante della popolazione cubana, la paura continui a paralizzare la protesta. Ancora non si sa che sarà di Cuba senza Fidel, se alla fine alle “riforme economiche” seguiranno “riforme” politiche che permetteranno ai cubani di esprimersi liberamente e decidere del loro futuro.
In ogni caso, in questa situazione di empasse, è assolutamente necessario non perdere la speranza e cedere allo sconforto, è il momento di continuare ad aspirare e lottare per le speranze del passato che affondano le proprie radici nella storia degli oppressi, dei vinti che hanno visto i propri diritti schiacciati e la voce annullata dagli Stati capitalisti o da quelli “socialisti” di Stato.

Octavio Alberola

traduzione di Angela Ferretti