rivista anarchica
anno 47 n. 413
febbraio 2017





Parole per vivere

Mi è capitato per le mani un romanzo di Jòn Kalman Stefansson, scrittore islandese della cui esistenza non avevo alcuna idea, splendidamente tradotto da Iperborea e intitolato Paradiso e inferno. Storia di marinai lettori, nella difficile terra nordica di fine '800, la vicenda alla fine racconta di come si possa essere salvati dall'amore per la letteratura. E a un certo punto, il ragazzo protagonista, che non ha nome e che è rimasto solo, pensa che “Le parole non servono per sopravvivere. Servono per vivere”. Mi è sembrata una verità profonda, che nel tempo e in questo difficile XXI secolo rimbalza in testi diversi, determinando oggi alcune forme inedite di prigionia.
Prendiamo l'opera prima della regista franco-marocchina Houda Benyamina, Divines (2016). Il film è stato premiato a Cannes come migliore opera d'esordio e racconta la storia di una ragazzina meticcia di 15 anni, Dounia, che vive in un campo nomadi a Les Pyramides, nella desolazione dei poveri che nulla meritano. Dounia fa quello che fa per togliersi di dosso una parola: il nomignolo “bâtarde” (bastarda), che le è stato affibbiato e che lei detesta. È un bel film, che ragiona su tante questioni importanti: spazi interstiziali, non appartenenza, degrado urbano e sociale, meccanismi del potere e ipotesi di riscatto. E tuttavia, questa specifica caratteristica mi interessa ora: il peso di una parola nella scelta di un destino, la maledizione di un'etichetta non voluta, e, alla fine, l'impossibilità di sottrarsi al recinto simbolico che quella parola istituisce.
Mi sono detta che alla fine, in molti casi e nel mondo reale, questo facciamo rispetto agli stranieri, quei migranti dei quali tanto abbiamo paura. Li incaselliamo, imprigionandoli nell'area semantica – spesso confusa e in trasformazione - designata da termini sempre inadatti, sempre incompleti, costantemente privati del loro aggancio col reale. L'arrivo degli stranieri – migranti? Rifugiati? Richiedenti asilo? Che cosa? – coincide con la loro reclusione in strutture di varia denominazione. I più noti sono i C.I. E, Centri di identificazione ed esplulsione: in sostanza, prigioni, nelle quali chi arriva attende che gli sia appuntata addosso una parola, e da questa parola dipenderà un destino.
Il percorso che conduce a ultimare l'attribuzione del termine giusto è costellato di altre parole, che corrispondono a procedure giuridiche e amministrative, delle quali spesso chi arriva è in grado di comprendere poco o nulla, in parte per mancanza di conoscenze linguistiche, e in parte perché spesso anche un madrelingua fa fatica a comprendere il lessico complicato della legge (in Italia e in Europa). È un fatto che il sistema giuridico europeo abbia dovuto “inventare” una intera terminologia capace di preservare l'equilibrio tra i fanatici della purezza (e dunque accaniti sostenitori del respingimento) e i buoni samaritani, che per certo sono importanti e fanno un lavoro spesso utile, ma di nuovo finiscono per assecondare la catalogazione di chi migra come infraumano: qualcosa di più di un animale ma qualcosa di meno di un essere umano.

Come quello giuridico, anche il lessico delle pseudo-solidarietà di cui ci racconta Paul Gilroy, studioso militante originario della Guyana, è costruito su un sottile mascheramento, potenzia la pietà invece di orientare la comprensione, presume tacitamente che chi viene assistito si affidi, si lasci guidare e “sposi”, alla fine, l'ideologia d'arrivo, abbandonando quella di partenza.
In un mondo e nell'altro (quello giuridico e quello del volontariato), disponiamo di un lessico limitato, nel quale peschiamo in ogni circostanza quel che, con un grado plausibile di approssimazione, si avvicina a rappresentare non una vera protezione per lo straniero, ma soprattutto una rassicurazione per noi e per il nostro sistema. In un mondo e nell'altro, quel che in fondo ci interessa stabilire è un modello di inclusione differenziale, capace di identificare un ugualmente differenziale accesso ai diritti e ai doveri dello stato accogliente (o respingente).
Nel 2011, Jurgen Habermas ipotizza l'esistenza fattuale di un “federalismo europeo” reso coeso solo dalle pratiche di respingimento, e il medesimo principio ricompare, nel 2013, in Etienne Balibar, quando lo studioso nota il progressivo edificarsi di una forma di Apartheid europeo. In questo sistema, che di recente si è fatto anche intensamente militarizzato, l'esclusione non è fatta solo di muri, ma anche di un corredo di “parole” che designano, modellano, rendono invisibile o annebbiano l'identità di chi si vuole escludere.
Come scrive Raymond Williams nel 1985, prima che arrivassimo al punto in cui siamo ora, le parole hanno un significato, sono intensamente vincolanti, modellano specifiche forme di pensiero. E dal pensiero discende l'azione. Parole belle non possono mascherare pratiche poco civili. E su questo credo che dovremmo riflettere.

Nicoletta Vallorani