desaparecidos
Un verdetto col volto di Giano
di Lino Rossi
Si è concluso il processo Condor, svoltosi a Roma e riguardante alcune tragiche vicende di desaparecidos argentini con doppia cittadinanza italiana. La sentenza ha comminato condanne all'ergastolo e assoluzioni. Qui un criminologo-vittimologo, consulente per le parti civili al processo, analizza i concreti problemi “psicologici” delle vittime e dei loro parenti, anche dopo simili sentenze. Un abisso, che prolunga di molto gli effetti della repressione, delle torture e dell'angoscia.
La sentenza del processo Condor è stata emessa riportando una legittimazione per le vittime della violenza collettiva operata nel Cono Sud da parte dei regimi dittatoriali; nelle otto condanne rivolte ad alcune figure di grande rilievo della repressione – fra cui Luis Garcia Meda Tejada, presidente della Bolivia dal 1980 al 1981; Luis Arce Gomez, generale a guida del Dipartimento II dell'intelligence dello Stato Maggiore e successivamente ministro dell'Interno boliviano; Juan Carlos Blanco già ministro degli Esteri dell'Uruguay e Francisco Rafael Cerruti Bermudez, presidente del Perù nel 1975-1980 – si coglie la volontà di colpire i vertici del Piano stesso e il suo esplicito riconoscimento dal punto di vista criminale.
La condanna di Juan Carlos Blanco risulta inoltre particolarmente significativa, poiché riguarda l'omicidio di cittadini di origini italiane avvenuti in Uruguay, paese nel quale la giustizia di transizione non ha potuto avere un corso completo a causa delle leggi d'impunità ancora vigenti; fra essi compare Gerardo Gatti, leggendario leader del movimento anarchico uruguayano.
L'importanza dei processi penali consiste in primo luogo nella determinazione di una verità, da cui deriva l'individuazione dei responsabili e l'ammissione delle sofferenze patite dalle vittime e dai loro familiari.
Si tratta di una vera e propria lotta per il riconoscimento.
Ma è lecito chiedersi se questo crei i presupposti reali per un ristoro da parte delle vittime, oltre l'accertamento della loro condizione, sancito dopo un lungo percorso, all'interno del quale tutte le posizioni in campo, comprese quelle dei presunti autori, sono state ascoltate e vagliate dall'autorità giudicante. Proprio per le sue caratteristiche di valutazione “terza”, il parere espresso da un Tribunale possiede un valore diverso da quello stabilito da fonti storiche o politiche, anche nel caso in cui gli argomenti su cui esse si fondano cerchino il più possibile di rimanere neutrali rispetto ai fatti di cui si occupano.
Un processo penale ha come obiettivo la definizione di una verità parziale, confinata all'intero dei documenti di prova, ma il suo esito è destinato a ripercuotersi sugli imputati, con una sentenza che li coinvolge in modo diretto. Lo stesso vale per le vittime – le cosiddette persone offese – proiettate emotivamente nel procedimento alla ricerca di certezze da cui dipende, spesso, la difesa di una propria identità. Questo è senz'altro vero per i processi di lesa umanità; in modo speciale per ciò che attiene il Condor, con i suoi desaparecidos, coi bambini sottratti subito dopo la nascita alle giovani madri, inviate ai voli della morte e i loro figli dati in adozione clandestina alle famiglie dei carnefici e dei loro amici.
Per questo motivo il 17 gennaio l'aula bunker di Rebibbia è gremita di persone; molti sono giunti in Italia dai loro Paesi di residenza: Argentina, Cile, Uruguay. Tutti e ciascuno in attesa di una risposta chiara; in ritardo sì, ma per certi aspetti definitiva.
La lettura della sentenza rompe un silenzio tombale, assordante, poi un'onda turbolenta di gioia e dolore insieme invade l'immenso salone costellato dalle gabbie vuote degli imputati. Chi esulta e si abbraccia ai propri avvocati, chi invece – in preda alla disperazione – agita le immagini dei propri cari ancora una volta disconosciuti nella loro giusta richiesta di giustizia.
Un verdetto che divide: otto condanne e sedici assoluzioni. I prosciolti perché defunti durante gli anni dell'istruttoria e del procedimento non interessano a nessuno, se non agli avvocati, soddisfatti di averli portati a giudizio.
Qualche familiare dà perfino il segno di un cedimento psicofisico, richiedendo l'intervento dell'assistenza sanitaria.
Ci avviciniamo a Alejandro Montiglio, il padre Juan “Anibal” faceva parte degli “amici del Presidente”, il gruppo di fedelissimi di Allende, rapiti e assassinati l'11 settembre 1973; gli scendono le lacrime dagli occhi. Finalmente per la prima volta questi ragazzi ricevono giustizia: il cileno Ahumada Valderrama Rafael Francisco figura tra i condannati all'ergastolo.
Ma sono momenti fugaci; di nuovo il volto di Alejandro riprende le sembianze di una maschera triste. Forse una vittoria processuale non basta per sanare gli esiti di una vita condotta nel dolore di un trauma apocalittico.
L'ascolto delle vittime e gli studi di psicologia clinica politica ci spiegano il perché.
Gli esiti soggettivi delle violenze politiche
Come osserva la studiosa francese Françoise Sironi1,
uno dei punti fondamentali della violenza sociale è l'effetto
su lunga durata che produce sulle popolazioni che vengono aggredite.
Si tratta infatti di fenomeni del tutto particolari, che evadono
dalle normali forme di reazione psicopatologica ad eventi stressanti.
La psicologia clinica ha descritto la forma delle sindromi patologiche cui vanno soggetti coloro che nel corso della loro vita hanno subito alterazioni del loro profondo mondo emozionale. Queste hanno a che vedere con esperienze maturate nel corso del ciclo di vita, soprattutto durante l'infanzia e l'adolescenza, trascorse all'insegna della paura, come avvenuto per le vittime del Plan Condor di fronte alle incursioni violente delle squadre della morte, dei “patotes”.
La cosa si complica infatti quando l'impatto con aspetti della storia collettiva finiscono col ricadere nell'esistenza individuale dando origine a emozioni politiche.
F. Sironi definisce col termine “emozioni politiche” una serie di trasformazioni di natura emotiva scatenate da una particolare categoria di avvenimenti: quelli direttamente collegati al mondo politico (terrorismo, ideologie, guerre, torture...), che producono fratture profonde all'interno della comunità di vita in cui sono inserite le singole persone.
Il loro risultato si manifesta su di esse e si può rintracciare la loro influenza su una vita, una famiglia, una collettività intera.
L'effetto strutturale della violenza politica nell'America Latina degli anni Settanta ha di fatto coinvolto l'intera società, creando un clima di terrore all'interno del quale la figura del dissidente appare del tutto aleatoria e applicabile a soggetti spesso estranei alla lotta politica.
Queste emozioni si radicano nelle persone, provocando la dissoluzione
del tessuto sociale, con evidenti ripercussioni sulle opportunità
esistenziali dei singoli membri della comunità colpita.
Esse producono infatti una serie di ricordi avvelenati, come
li definisce V. Nahum-Grappe2,
in grado di fabbricare il senso del politico, o di distruggerlo.
Il dramma apocalittico
“Per capire la psicopatologia di un soggetto non basta
analizzare gli avvenimenti individuali della sua vita. Bisogna
capire come abbia attraversato la storia collettiva e in che
maniera essa lo abbia segnato, perché questo consente
di precisare il senso da attribuire ai sintomi. I sintomi sono
sempre organizzati in maniera logica. Lo psicologo clinico o
lo psicoterapeuta ne devono trovare la coerenza nascosta, perché
sono spesso la conseguenza diretta dell'intenzionalità
dei persecutori o di un sistema nocivo e patogeno”3.
L'emozione politica produce come effetto patologico la cosiddetta sindrome del “mondo perduto” e cioè la scomparsa di una realtà che non ritornerà mai più, con un carico di sofferenza molto ingente e un senso di sconfitta non più rimarginabile.
In questo caso l'emozione politica si presenta in forma radicale e assume i caratteri del trauma apocalittico, dal momento in cui la vittima compie l'esperienza della “fine del mondo”, alterando il significato della propria esistenza. La pervicacia dei ricordi avvelenati si inserisce nell'arco di vita familiare, con effetti di perseverazione, tali da indurre una vera e propria forma di vissuto transpersonale che si trasmette di generazione in generazione, seguendo un percorso tipico, ravvisabile in modo esemplare nelle storie ascoltate dai testimoni dei processi penali, in particolare nel processo Condor.
Ripercorrere la narrazione degli eventi ha tuttavia permesso ai testimoni di ristabilire un contatto fra memoria pubblica e ricordo individuale, donando alla parola il ruolo di moderatore mentale dei vissuti emozionali più dolorosi. Questo non implica un superamento del trauma, come hanno rilevato le osservazioni condotte su alcuni protagonisti del processo Condor prima, ma anche dopo l'emissione della sentenza. Ancora permane in essi la sensazione che l'accertamento della verità processuale non abbia condotto a una restituzione di quanto perso a causa dell'offesa ricevuta. Non sono usciti – in altri termini – riappacificati dal riconoscimento ottenuto del proprio status di vittima.
Forse il risultato, giunto al termine di una lunga esperienza di disconoscimento, non è bastato per modificare a livello profondo i traumi emozionali, impedendo l'elaborazione della violenza politica subita.
L'analisi della memoria si presenta dunque come tentativo di
comunicare con le soggettività ferite: un compito particolarmente
delicato sul piano etico che non può essere separato
da opportunità terapeutiche, come osserva R. Beneduce4.
La razionalizzazione ufficializzata dagli esiti di un processo
penale può non bastare per conferire un significato alla
condizione vittimaria, attestata dalla sentenza, ma non accoglibile
in una cornice complessiva in grado di incorporare nella pratica
sociale il valore di quanto subito a causa dell'evento catastrofico:
l'individuo rimane solo.
Il riconoscimento dei fatti non è sufficiente
Gli studi che analizzano la “storia del privato” hanno in comune l'obiettivo (e la virtù) di localizzare il Sè non solo nella fortezza della coscienza privata immediata, ma anche in una situazione storico-culturale. Per questa ragione è necessario prendere in considerazione lo sfondo concreto in cui la psicologia soggettiva si situa.
In modo particolare quando si tratta di storie che narrano vicende sconvolgenti in grado di trasmettersi su un'intera discendenza familiare.
Il riconoscimento dei fatti non è sufficiente per consentire il riconoscimento del Sè; il trauma ha congelato la capacità di realizzare quella forma di pensiero duttile necessaria a sviluppare immagini alternative ed elaborare le esperienze nella prospettiva del cambiamento: la memoria traumatica si manifesta all'interno di un sistema di pensiero reificato.
Reificazione è oblio del riconoscimento, ovvero, come
riferisce A. Honneth5: “è
il processo attraverso il quale nel nostro sapere di altre persone
e nella loro conoscenza perdiamo la consapevolezza di quanto
l'uno e l'altra siano debitori di una precedente disposizione
alla partecipazione coinvolta e al riconoscimento”.
Partecipazione coinvolta significa essere disponibili a riconoscere il ruolo attivo di se stessi nell'ambito della vita sociale e soprattutto nei confronti delle proprie azioni. Il soggetto traumatizzato si sente “trascinato” da una forza superiore che lo disappropria di una sostanziale volontà.
Le vittime esprimono di essere state travolte dai fatti. L'evento ha cambiato loro la vita e ne ha raccolto il senso, che conduce a un'accettazione passiva della vita; quella vera è stata rapita dagli eccidi, dalle sparizioni, dai furti di bambini e non resta che subirne le conseguenze. La società lo deve riconoscere, gli altri lo devono riconoscere, anche se questo non basta per ottenere il giusto indennizzo.
Il trauma conduce a ri-produrre costantemente le rappresentazioni del passato, impedendo al soggetto di riconoscersi al di là dell'evento vittimale. La sua immagine di sè coincide con quella della vittima ed è come tale che tende a ri-rappresentarsi nello spazio scenico della narrazione. Riconoscersi – in questa prospettiva di lettura – implica il liberarsi da questo ruolo predefinito, reificato, e accedere ai registri di una capacità immaginativa che va oltre il peso inerziale delle emozioni politiche.
Per favorire il superamento di un simile dibattersi fra le forze trascinanti di una realtà resa anch'essa avvelenata dalle emozioni politiche che ispirano la conoscenza deformata, occorrebbe una certa “amicizia verso se stessi”, così come evoca Aristotele nella sua Etica Nicomachea (IX, 4-8). Egli richiama infatti l'effetto benefico di una disposizione ad accettare la vulnerabilità come guida verso un principio di riconoscimento. Ma ciò significherebbe abbandonare l'etichetta di vittima a cui il soggetto non è in grado rinunciare.
Lino Rossi
- Sironi F. (2001). Persecutori e vittime. Strategie di violenza (E. Dal Pra trad.). Milano: Feltrinelli. ID. (2010). Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica. Milano: Feltrinelli.
- Nahoum-Grappe V. (1997). L'uso politico della crudeltà: l'epurazione etnica in ex-Jugoslavia (1991-1995). In F. Héritier (ed.). Sulla violenza (pp. 215-246). Roma: Meltemi.
- Sironi F. (2010). Violenze collettive. Op. cit. p. 29.
- Beneduce R. (1999), Mente, persona, cultura. Materiali di etnopsicologia Torino: L'Harmattan Italia.
- Honneth A. (2007), Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento. Roma: Meltemi, p. 55.
Per
saperne di più
R.
Borghi, H. Copolechio (2012), Desaparecidos: Margini
di una ferita. Riflessioni e testimonianze sull'esperienza
del trauma, Modena: Mucchi editore.
A. Honneth (2007), Reificazione. Uno studio in chiave
di teoria del riconoscimento, Roma: Meltemi.
L. Rossi (2016), Processare i traumi collettivi. Quando
la giustizia è utile all'umanità, in
A. Speranzoni, A partire da Monte Sole. Stragi nazifasciste,
tra silenzi di Stato e discorso sul presente, Roma:
Castelvecchi, pp. 11-59.
F. Sironi (2010), Violenze collettive. Saggio di psicologia
geopolitica clinica, Milano: Feltrinelli.
R. Tellerico (2015), Impossibile gridare si ulula.
Storie di desaparecidos Italo-argentini, Roma: Aracne.
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