rivista anarchica
anno 47 n. 414
marzo 2017






Mille storie

Chimamanda Ngozi Adichie è una scrittrice nigeriana. Appartenente a una famiglia di intellettuali della media borghesia, Adichie arriva negli Stati Uniti per proseguire gli studi, a 19 anni, portandosi appresso tutte le forme di una cultura poco familiare per l'occidente. Al college, la sua compagna di stanza, statunitense da generazioni, rimane molto colpita dal fatto che Adichie parli bene l'inglese perché non sa che in Nigeria quella è la lingua ufficiale, e per giunta le chiede di ascoltare le sue “musiche tribali” quando la cantante preferita di Adichie è Mariah Carey. In uno dei suoi più famosi discorsi pubblici, Adichie parte più o meno da questo aneddoto per mostrare una perversa duplicità nella cultura contemporanea: nonostante l'accessibilità delle informazioni, ormai disponibili ovunque, quella che circola sull'Africa (perché di Africa, o meglio, di Nigeria stiamo parlando in modo specifico) è una storia unica e stereotipata, inzuppata di primitivismo e lontana dalla realtà dei fatti. Le “storie uniche”, come le chiama Adichie, sono rassicuranti ma pericolose: danno la sensazione di aver capito ogni cosa, ma sono lontanissime dalla conoscenza reale, che è molteplice, diversificata, carica di dubbi e sempre rivedibile.
È per esempio una “storia unica” il fatto che i migranti, soprattutto se irregolari, sian sempre utilizzati come una risorsa non dichiarata ma molto importante per l'economia agricola del sud dell'Italia. Sfruttati e molto malpagati, essi tengono in piedi una serie di attività di raccolta e di manutenzione dei campi che altrimenti richiederebbero investimenti economici molto maggiori. E tuttavia proprio nel sud dell'Italia si colloca un'esperienza di accoglienza unica in Europa, quella di Riace e della sua riabitazione ad opera dei migranti. Il progetto tuttora in corso inizia nei tardi anni '90, nel 1998, per la precisione, quando 300 curdi sbarcano in cerca di rifugio e finiscono più o meno tutti nel paese della Locride reso famoso dal ritrovamento dei bronzi, nel 1972, ma di fatto quasi abbandonato dai suoi abitanti originari per problemi connessi alla disoccupazione endemica e alla difficoltà a contrastare il potere della ‘ndrangheta. Il sindaco del paese – quel Mimmo Lucano inserito da Fortune tra i 50 uomini più influenti del mondo ma quasi del tutto ignorato in Italia – trasforma gradualmente e con enorme fatica l'emergenza sbarchi in una risorsa per rivitalizzare il paese. Nonostante ora i potenti veri stiano cercando di raccontare su Lucano una storia diversa, in un triste processo di screditamento piuttosto frequente in questi casi, l'operazione, nei fatti, riesce. Oggi Riace, come ben riferiscono il film recente di Shu Aiello e Catherine Catella (Un paese in Calabria, 2016) e quello più datato di Vincenzo Caricari (Il paese dei bronzi, 2010), tiene ancora benissimo, grazie alla collaborazione reale di una comunità intera, che ha deciso di “fare spazio”, nelle case come nelle chiese e nei contesti lavorativi, a chi arriva da un posto diverso.
È una situazione ben diversa, invece, quella che troviamo il 24 ottobre 2016 a Gorino, nel ferrarese, dove i cittadini tutti, compreso il parroco e gli insegnanti, decidono di innalzare barricate per respingere 20 profughi (12 donne e 8 bambini) che sono stati destinati a occupare un piano di un albergo locale. La mobilitazione è capillare, caparbia e non sente ragioni. Eppure questa è più o meno la stessa comunità che il 17 novembre 1951, quando il Po ruppe gli argini inondando le campagne, non esitò a usare le barche da pesca per risalire la piena e in questo modo riuscì a salvare circa 320 persone, tra cui donne e bambini.
Dunque il ferrarese è un posto buono o cattivo? E nel sud dell'Italia si sfruttano i migranti o li si accolgono? E la Locride è meglio o peggio della piana del Po? Quale storia è più credibile? Nessuna di esse, in assoluto: tutte funzionano come pezzi di un puzzle, che ha da essere ricomposto con pazienza ed equilibrio. Durante una lezione di Adichie in una università americana, uno studente dice che è una vergogna che gli uomini nigeriani siano tutti violenti come il personaggio del padre in Americanah. A questa osservazione, Adichie risponde che è un peccato che tutti i giovani americani siano serial killer come il protagonista di American Psycho, di Brett Easton Ellis. Entrambe le affermazioni sono palesemente assurde, perché entrambi i romanzi raccontano una storia, non tutte le storie possibili sull'identità culturale americana o nigeriana. Che alcune storie siano più credibili di altre e assurgano al ruolo di “storie uniche” è sbagliato e rischioso: rimuove la pluralità culturale della quale, in realtà, abbiamo bisogno per vivere.

Nicoletta Vallorani