rivista anarchica
anno 47 n. 414
marzo 2017






Herzog
e il “mondo interconnesso”

In un'epoca caratterizzata dalla ricerca spasmodica e febbrile della “novità tecnologica” e dell'“essere interconnessi”1, l'esistenza stessa della “Rete” viene considerata come qualcosa di scontato.
Con il documentario Lo and Behold: Reveries of the Connected World, il regista tedesco Werner Herzog prende la parola all'interno di un campo piuttosto affollato, quello delle genealogie, delle ricostruzioni storiche, delle narrazioni su ciò che comunemente chiamiamo “internet”. Il film fa affiorare alcuni nodi su cui vale la pena sviluppare una riflessione.
Per parlarne, vogliamo concentrarci sulla figura dell'autore e sul contesto nel quale l'opera emerge piuttosto che sull'opera in sé. Questa non è una recensione. È un modo di osservare come la rete viene narrata, da quale punto di vista, quali traiettorie e punti di fuga vengono sviluppati e quali sono invece i coni d'ombra. Il regista, autore tra gli altri di Aguirre, furore di Dio e Fitzcarraldo non ha certo bisogno di presentazioni, ma a pochi forse è noto il suo rapporto con le tecnologie: nell'ultimo anno ha tenuto una serie di lezioni di cinema in un corso online a pagamento e ha partecipato a un “ama” – ask me anything, dove l'autore ha risposto alle domande poste dagli utenti – su Reddit2. Sicuramente, un grado di esposizione diretta non da poco.

La locandina del documentario

Il documentario vede la luce grazie alla collaborazione economica tra il regista e NetScout, azienda di sicurezza digitale il cui slogan è “to secure the connected world” (“proteggere il mondo interconnesso”) secondo uno schema abbastanza diffuso di mecenatismo privato da parte delle corporation hi-tech.
L'opera è quindi collocata in un campo abitato da forti interessi, in cui la posta in gioco è la definizione di ciò che è la rete: risulta dunque il frutto delle tensioni e rapporti di forza tra la postura del suo autore e il posizionamento di attori privati. Ma qual è la visione di cui è portatrice?
Il documentario è composto da dieci capitoli, ciascuno vuole indagare un aspetto di questo “mondo interconnesso”. Si parte dalla storia della nascita di internet, avvenuta nella stanza 3420 dello Stanford Research Institute, ovvero della prima comunicazione tra due macchine connesse tra loro. I primi capitoli mantengono un tono entusiasta, con una narrazione lineare delle “magnifiche sorti e progressive”: automobili che si guidano da sole, robot che sostituiranno gli umani nelle attività quotidiane. Fin qui, lo scarto tra la posizione del regista e quella dei suoi protagonisti sembra nulla. Il ribaltamento di prospettiva arriva con il capitolo in cui viene raccontata la storia dell'esposizione sui social network delle immagini del corpo martoriato di una ragazza, morta a seguito di un incidente stradale. Il racconto, un unico piano sequenza con protagonista la famiglia della ragazza, si conclude con il commento della madre sulla rete: “is evil [...], the manifestation of Antichrist” (“è il male [...], la manifestazione dell'Anticristo”).
Il voyeurismo macabro sulla rete esiste dalla diffusione del World Wide Web: rotten.com nasce nel 1996 con la sua raccolta di immagini disturbanti. Ciò che in questo episodio si rende evidente è l'ulteriore esposizione sui social network, all'interno della cerchia di contatti e relazioni di quella famiglia: non si tratta dell'immagine macabra di un corpo estraneo, disumanizzato, ma dell'orrore di un altro conosciuto. Questa è la rottura che squarcia il velo della presunta “estraneità” sulla rete, intesa come assenza di legami: rottura che avviene in una dimensione ambivalente come quella delle relazioni sociali che prendono forma all'interno di spazi virtuali di proprietà di grandi corporation.

Una scena del documentario

Da questo racconto si dipanano altri capitoli che, attraverso le storie che spaziano dalle nuove dipendenze sviluppate all'interno dei mondi digitali alle cyberguerre, sembrano narrare l'“altra faccia” della rete, quella oscura, nascosta, terribile.
La chiave di lettura proposta appare quindi schiacciata su un continuum che vede a un'estremità l'entusiasmo incondizionato per rete e nuove tecnologie – presentate qui come qualcosa di unico – dall'altra il terrore dell'apocalisse tecnologica. Lo sfondo, è quello di una presunta “neutralità” della tecnologia: i problemi etici posti dall'utilizzo dei robot, ad esempio, vengono inquadrati all'interno della logica dell'utile e dell'efficiente, per cui sarà sufficiente “programmare robot che rimedino agli errori umani”. Lo spostamento sull'asse entusiasmo-apocalisse avviene quindi in base a quanto qualcosa è più/meno utile/efficiente: criterio economico, manageriale, in cui viene completamente neutralizzata la dimensione storica, situata temporalmente e spazialmente, innervata in relazioni di potere. Su questo piano, allora, acquisisce di senso lo slogan dell'azienda-mecenate cui abbiamo accennato: ciò che viene implicitamente proposto è un cybercontrollo maggiore, più “efficiente”.
Annotare ciò che “manca” in un'opera è un esercizio di stile tanto pedante quanto poco utile. Una cosa, però, ci sembra vada sottolineata.
Il punto di vista è solo apparentemente “universalistico”. Se osserviamo tutte le storie, queste sono collocate nell'orizzonte dei paesi a capitalismo avanzato, con problemi da “primo mondo”: l'immagine dei monaci tibetani con lo smartphone, sullo sfondo una New York lontana, rimanda a uno sguardo tipicamente occidentale alla ricerca dell'esotismo, unica dimensione evidentemente concessa all'Altro. È a partire da qui che notiamo l'assenza non solo di una problematizzazione storica ma anche geografica dello sviluppo tecnologico: chi produce i dispositivi tecnologici che utilizziamo? Con quali risorse?
La lunga inquadratura di un Elon Musk – multimilionario fondatore di PayPal, dell'azienda di automobili a guida automatica Tesla e del progetto privato SpaceX per la colonizzazione di Marte – in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi che si muovono febbrilmente rappresenta probabilmente il momento del disincanto. È la sintesi della dissonanza tra una narrazione edulcorata e lineare dell'innovazione tecnologica, con “grandi uomini” come protagonisti, e la complessità del reale in cui la comprensione dello sviluppo tecnologico non può non passare da una storia, da un'analisi a partire dai rapporti di sapere/potere.
Reveries significa sogni ad occhi aperti, fantasticherie. A questa dimensione immaginifica, sarebbe utile accompagnare un'analisi delle condizioni materiali, degli snodi e delle articolazioni concrete – economiche, sociali, spaziali –, rivets, che compongono i mondi digitali in cui siamo quotidianamente immersi.

Ippolita
www.ippolita.net

  1. Possibilità che, nelle società turbocapitalistiche, è data dal possesso di oggetti collegati ad internet, il cosiddetto internet of things.
  2. Un sito piuttosto popolare nei paesi anglosassoni basato sull'interazione tra utenti nella forma di commenti a notizie pubblicate.