Herzog e il “mondo interconnesso”
In un'epoca caratterizzata dalla ricerca spasmodica e febbrile
della “novità tecnologica” e dell'“essere
interconnessi”1, l'esistenza
stessa della “Rete” viene considerata come qualcosa
di scontato.
Con il documentario Lo and Behold: Reveries of the Connected
World, il regista tedesco Werner Herzog prende la parola
all'interno di un campo piuttosto affollato, quello delle genealogie,
delle ricostruzioni storiche, delle narrazioni su ciò
che comunemente chiamiamo “internet”. Il film fa
affiorare alcuni nodi su cui vale la pena sviluppare una riflessione.
Per parlarne, vogliamo concentrarci sulla figura dell'autore
e sul contesto nel quale l'opera emerge piuttosto che sull'opera
in sé. Questa non è una recensione. È un
modo di osservare come la rete viene narrata, da quale punto
di vista, quali traiettorie e punti di fuga vengono sviluppati
e quali sono invece i coni d'ombra. Il regista, autore tra gli
altri di Aguirre, furore di Dio e Fitzcarraldo
non ha certo bisogno di presentazioni, ma a pochi forse è
noto il suo rapporto con le tecnologie: nell'ultimo anno ha
tenuto una serie di lezioni di cinema in un corso online a pagamento
e ha partecipato a un “ama” – ask me anything,
dove l'autore ha risposto alle domande poste dagli utenti –
su Reddit2. Sicuramente, un grado
di esposizione diretta non da poco.
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La locandina del documentario |
Il documentario vede la luce grazie alla collaborazione economica
tra il regista e NetScout, azienda di sicurezza digitale il
cui slogan è “to secure the connected world”
(“proteggere il mondo interconnesso”) secondo uno
schema abbastanza diffuso di mecenatismo privato da parte delle
corporation hi-tech.
L'opera è quindi collocata in un campo abitato da forti
interessi, in cui la posta in gioco è la definizione
di ciò che è la rete: risulta dunque il frutto
delle tensioni e rapporti di forza tra la postura del suo autore
e il posizionamento di attori privati. Ma qual è la visione
di cui è portatrice?
Il documentario è composto da dieci capitoli, ciascuno
vuole indagare un aspetto di questo “mondo interconnesso”.
Si parte dalla storia della nascita di internet, avvenuta nella
stanza 3420 dello Stanford Research Institute, ovvero della
prima comunicazione tra due macchine connesse tra loro. I primi
capitoli mantengono un tono entusiasta, con una narrazione lineare
delle “magnifiche sorti e progressive”: automobili
che si guidano da sole, robot che sostituiranno gli umani nelle
attività quotidiane. Fin qui, lo scarto tra la posizione
del regista e quella dei suoi protagonisti sembra nulla. Il
ribaltamento di prospettiva arriva con il capitolo in cui viene
raccontata la storia dell'esposizione sui social network delle
immagini del corpo martoriato di una ragazza, morta a seguito
di un incidente stradale. Il racconto, un unico piano sequenza
con protagonista la famiglia della ragazza, si conclude con
il commento della madre sulla rete: “is evil [...],
the manifestation of Antichrist” (“è
il male [...], la manifestazione dell'Anticristo”).
Il voyeurismo macabro sulla rete esiste dalla diffusione del
World Wide Web: rotten.com nasce nel 1996 con la sua raccolta
di immagini disturbanti. Ciò che in questo episodio si
rende evidente è l'ulteriore esposizione sui social network,
all'interno della cerchia di contatti e relazioni di quella
famiglia: non si tratta dell'immagine macabra di un corpo estraneo,
disumanizzato, ma dell'orrore di un altro conosciuto. Questa
è la rottura che squarcia il velo della presunta “estraneità”
sulla rete, intesa come assenza di legami: rottura che avviene
in una dimensione ambivalente come quella delle relazioni sociali
che prendono forma all'interno di spazi virtuali di proprietà
di grandi corporation.
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Una scena del documentario |
Da questo racconto si dipanano altri capitoli che, attraverso
le storie che spaziano dalle nuove dipendenze sviluppate all'interno
dei mondi digitali alle cyberguerre, sembrano narrare l'“altra
faccia” della rete, quella oscura, nascosta, terribile.
La chiave di lettura proposta appare quindi schiacciata su un
continuum che vede a un'estremità l'entusiasmo
incondizionato per rete e nuove tecnologie – presentate
qui come qualcosa di unico – dall'altra il terrore dell'apocalisse
tecnologica. Lo sfondo, è quello di una presunta “neutralità”
della tecnologia: i problemi etici posti dall'utilizzo dei robot,
ad esempio, vengono inquadrati all'interno della logica dell'utile
e dell'efficiente, per cui sarà sufficiente “programmare
robot che rimedino agli errori umani”. Lo spostamento
sull'asse entusiasmo-apocalisse avviene quindi in base a quanto
qualcosa è più/meno utile/efficiente: criterio
economico, manageriale, in cui viene completamente neutralizzata
la dimensione storica, situata temporalmente e spazialmente,
innervata in relazioni di potere. Su questo piano, allora, acquisisce
di senso lo slogan dell'azienda-mecenate cui abbiamo accennato:
ciò che viene implicitamente proposto è un cybercontrollo
maggiore, più “efficiente”.
Annotare ciò che “manca” in un'opera è
un esercizio di stile tanto pedante quanto poco utile. Una cosa,
però, ci sembra vada sottolineata.
Il punto di vista è solo apparentemente “universalistico”.
Se osserviamo tutte le storie, queste sono collocate nell'orizzonte
dei paesi a capitalismo avanzato, con problemi da “primo
mondo”: l'immagine dei monaci tibetani con lo smartphone,
sullo sfondo una New York lontana, rimanda a uno sguardo tipicamente
occidentale alla ricerca dell'esotismo, unica dimensione evidentemente
concessa all'Altro. È a partire da qui che notiamo l'assenza
non solo di una problematizzazione storica ma anche geografica
dello sviluppo tecnologico: chi produce i dispositivi tecnologici
che utilizziamo? Con quali risorse?
La lunga inquadratura di un Elon Musk – multimilionario
fondatore di PayPal, dell'azienda di automobili a guida automatica
Tesla e del progetto privato SpaceX per la colonizzazione di
Marte – in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto e
gli occhi che si muovono febbrilmente rappresenta probabilmente
il momento del disincanto. È la sintesi della dissonanza
tra una narrazione edulcorata e lineare dell'innovazione tecnologica,
con “grandi uomini” come protagonisti, e la complessità
del reale in cui la comprensione dello sviluppo tecnologico
non può non passare da una storia, da un'analisi a partire
dai rapporti di sapere/potere.
Reveries significa sogni ad occhi aperti, fantasticherie.
A questa dimensione immaginifica, sarebbe utile accompagnare
un'analisi delle condizioni materiali, degli snodi e delle articolazioni
concrete – economiche, sociali, spaziali –, rivets,
che compongono i mondi digitali in cui siamo quotidianamente
immersi.
Ippolita
www.ippolita.net
- Possibilità che, nelle società turbocapitalistiche, è data dal possesso di oggetti collegati ad internet, il cosiddetto internet of things.
- Un sito piuttosto popolare nei paesi anglosassoni basato sull'interazione tra utenti nella forma di commenti a notizie pubblicate.
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