rivista anarchica
anno 47 n. 414
marzo 2017


lavoro

Prospettive grigie. Per non dire nere

con testi del Collettivo Clash City Workers e di Cosimo Scarinzi


La situazione sociale italiana è sempre più negativa.
Abbiamo chiesto di dare i numeri a un collettivo militante e di tracciare un breve quadro della situazione a un esponente del sindacalismo alternativo.


Silenzio, parlano i numeri

del Collettivo Clash City Workers

L'aumento dei voucher e della disoccupazione, la diminuzione del welfare e dei salari. I dati possono spiegare la situazione del mercato del lavoro italiano meglio di tante analisi sociologiche e filosofiche.

Il dato più rilevante a cui ci troviamo di fronte se consideriamo la situazione odierna del mercato del lavoro è senza dubbio l'enorme aumento nella vendita dei voucher, o buoni lavoro, nuovi protagonisti, almeno da qualche anno, dell'economia e della politica italiana.
Introdotti dalla legge Biagi nel 2003 – anche se entrati effettivamente in vigore nel 2008 – come strumento per far emergere il lavoro nero, soprattutto in contesti familiari o comunque di forte prossimità sociale, i voucher erano in origine legati alla nozione di lavoro accessorio, ossia a quelle “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne”.
Per questo, una serie di paletti soggettivi (legati alla specificità dei soggetti interessati) e oggettivi (temporali e monetari) ne delimitava l'utilizzo. Ma le progressive liberalizzazioni dello strumento – dapprima a piccoli passi, e poi in grande stile con la riforma Fornero nel 2012 e con il Jobs Act nel 20151 – hanno progressivamente eliminato quasi tutte le limitazioni che avevano provveduto, nel corso dei primi anni, a evitarne l'impiego sistematico. È rimasto in vigore unicamente un limite retributivo: un singolo lavoratore non può percepire, nel corso di un anno civile, più di € 7.000 netti tramite voucher (si noti come tale limite valga unicamente dal lato del lavoratore e non delle imprese, che quindi non hanno limiti nell'impiego dei voucher).
Per il resto, come recita il sito dell'INPS, “è possibile utilizzare i buoni lavoro in tutti i settori di attività e per tutte le categorie di prestatori”. Ciò ha portato all'attuale situazione, ossia al boom che vediamo a partire dal 2012/2013 (dunque dalle prime grosse liberalizzazioni): i 40 milioni di voucher acquistati nel 2013 diventano 69 l'anno successivo, poi oltre 115 e nel 2016 superano i 133 milioni2. Ad ottobre 2016 il governo Renzi ha provato a mettere qualche pezza, con un decreto correttivo che impone al datore di lavoro di comunicare, all'atto di acquisto di un voucher, l'ora esatta in cui verrà utilizzata (oltre, naturalmente, ai dati del lavoratore e luogo, cosa già prevista). Si è provato, in questo modo, a limitarne gli abusi o gli usi impropri. Ma il vero problema dei voucher sta alla radice, nel loro stesso modo di funzionamento. Essi, infatti, non sono un contratto di lavoro, e dunque non prevedono tutti quegli istituti contrattuali conquistati in un secolo e mezzo di lotta contro lo sfruttamento, come ferie, malattia, maternità, scatti di anzianità, mansioni e così via.
Le trattenute, che pure ci sono, poiché il valore netto di un buono lavoro, che è il pagamento minimo per un'ora di lavoro, è di € 7,50 di contro al lordo di € 10, rappresentano una quota assicurativa INAIL (7%), le spese di gestione dell'INPS (5%) e poi il versamento dei contributi (13% - una quota, dunque, più bassa rispetto ai normali contratti a tempo indeterminato o determinato). In questo senso i voucher sono quasi la realizzazione di una delle utopie del capitalismo, ossia di poter pagare la forza-lavoro unicamente per il tempo e il modo del suo impiego, senza alcun riguardo alla dimensione globale della vita dei lavoratori. Per questi ultimi, addirittura, dal decreto di ottobre in poi diventa quasi più conveniente il lavoro nero, perché se accertato porta a una maxi-sanzione per il datore di lavoro e alla possibile regolarizzazione per il lavoratore, mentre i voucher sono perfettamente legali e eventuali irregolarità sono punite, da ottobre, unicamente con una sanzione pecuniaria, peraltro di modesta entità3.

All'orizzonte solo precarietà

Sulla scorta di queste considerazioni, capiamo come i voucher rappresentino uno strumento fortemente appetibile per tutti i datori di lavoro e come quindi la loro diffusione in tutte le fasce di età e in tutti i settori (anche tra quelli ritenuti esenti dal fenomeno, come nel pubblico o nelle fabbriche metalmeccaniche4) sia perfettamente conseguente al percorso che abbiamo tratteggiato, tanto più se consideriamo che la Fornero e il Jobs Act, mentre da una parte liberalizzavano i voucher, dall'altra stringevano le possibilità di utilizzo di altre forme contrattuali introdotte negli ultimi vent'anni e molto convenienti per le imprese, come i contratti a progetto o i CO.CO.PRO.
I buoni lavoro si inseriscono, d'altra parte, in un mercato del lavoro che negli ultimi anni è stato sempre più frammentato e precarizzato. In questo ha giocato un ruolo fondamentale il Jobs Act, il cui unico effetto è stato quello di indebolire i lavoratori, trasformando i contratti a tempo indeterminato in contratti “a tutele crescenti” – laddove “tutele” significa: ti licenzio quando voglio e al massimo ti do (pochi) soldi dopo – senza creare stabilmente occupazione. Vediamo infatti come, dopo l'ondata di assunzioni drogata dagli sgravi fiscali nel 2015, e dunque da un enorme drenaggio di soldi pubblici a favore dei privati, la situazione nel 2016 sia rimasta sostanzialmente stabile, assestandosi su livelli molto alti: nei dati preliminari che il 9 gennaio 2017 l'ISTAT ha diffuso in merito all'occupazione di novembre 2016, la disoccupazione complessiva si assesta all'11,9%, e quella giovanile al 39,4% (di contro a percentuali pre-crisi, per esempio a gennaio 2008, rispettivamente del 6,6% e del 20,5%), e comunque in crescita per tutte le fasce di età tranne che per gli over 50.
Per quanto riguarda l'occupazione, inoltre, dobbiamo considerarne la qualità: da anni, infatti, sono sotto attacco le condizioni di lavoro, in tutti i settori. Parliamo di salari più bassi e sempre meno fissi, ma legati alla produttività, orari di lavoro più lunghi, introduzione di forme di welfare aziendale vantaggiose unicamente per le imprese. Questi processi sono stati visibili nei rinnovi dei CCNL degli ultimi due anni5, e in modo particolarmente emblematico in quello, recente, dei metalmeccanici, che Confindustria vorrebbe prendere a modello anche per altri settori e in cui troviamo: aumentati salariali minimi, erogati ex-post in base all'inflazione reale e non più programmata; possibilità di scambiare aumenti salariali con buoni carrello, convenienti per le imprese perché detassati e dannosi per i lavoratori perché non rientrano nel conteggio di tredicesima, quattordicesima e TFR; welfare aziendale, come i buoni carrello dannosi per noi e convenienti per imprese, e inoltre in grado di vincolare sempre più il lavoratore alla volontà dell'azienda, grazie alla minaccia di far perdere non solo il posto di lavoro, ma anche l'assistenza sanitaria; maggiore flessibilità oraria e straordinari gratuiti grazie a un orario plurisettimanale che permette all'azienda (e impone ai lavoratori) di recuperare straordinari sottraendoli dalle settimane successive.
Ma dall'esito della votazione sul CCNL dei metalmeccanici viene anche uno dei segnali positivi che, insieme ad esempio alla recente mobilitazione dei lavoratori Almaviva a Roma, ci mostra che lottare è possibile e va fatto: per quanto il CCNL sia stato approvato, 69000 lavoratori (circa il 20%), soprattutto nelle fabbriche che negli ultimi anni sono state attraversate da mobilitazioni (come tutto il gruppo Electrolux) o dove c'è stato un intervento a sostegno del No, anche minimo, è andata contro l'indicazione delle dirigenze sindacali firmatarie di questo contratto e ha detto No.

Collettivo Clash City Workers

  1. Per un'analisi più dettagliata della genesi e dello sviluppo dei voucher, anche in rapporto ad analoghe politiche adottate in altri stati europei, rimandiamo alla ricerca svolta da Gianluca De Angelis e Marco Marrone per conto dell'IRES Emilia Romagna: http://www.ireser.it/administrator/components/com_jresearch/files/publications/Ricerca_Voucher.pdf.
  2. I dati 2016, ancora parziali, sono stati diffusi a metà gennaio. Per i dati 2008-2015 si veda la ricerca prodotta dall'INPS nell'ottobre 2016: http://anclsu.com/public/news/copertina/WorkINPS_Papers_3_ottobre.pdf.
  3. Ci sono gli estremi per parlare dei voucher come di “caporalato legalizzato”: ne parliamo più diffusamente nell'articolo Lavorare senza diritti. Dai voucher al caporalato, pubblicato sul numero 51 della rivista PaginaUno e consultabile online.
  4. Per un'analisi dettagliata di lavoratori, settori e datori di lavoro interessati dal fenomeno, rimandiamo alla ricerca dell'INPS sopra citata.
  5. Qui ne parliamo nel dettaglio: http://clashcityworkers.org/documenti/analisi/2187-salari-orari-ccnl.html.


Doppio movimento

di Cosimo Scarinzi

C'è quello politico, bloccato (alla faccia della vittoria referendaria). E quello sociale, quasi fermo. Ma con segnali di combattività. Nella scuola e a Genova, per esempio.

Può valere la pena di tornare, rapidamente, al referendum costituzionale del 4 dicembre. Dal punto di vista politico si è trattato indubbiamente di un evento di portata notevolissima. Un referendum senza quorum ha visto, infatti, un'affluenza del 65% in netta controtendenza rispetto alla consolidata crescita dell'astensione; con la vittoria del No con il 59,1% dei voti si è avuto, a maggior ragione vista l'affluenza, un risultato che non ha permesso le classiche interpretazioni secondo le quali tutti, in qualche misura e per qualche ragione, hanno vinto.
Anche la distribuzione del voto è interessante, con l'eccezione della provincia di Bolzano, il Sì ha vinto solo nelle province di Arezzo, Firenze, Forlì Cesena, Modena, Pisa, Pistoia, Ravenna, Reggio nell'Emilia e Siena e ha perso arrivando quasi al pareggio solo nelle province di Livorno e Perugia. Con ogni evidenza, se consideriamo anche le province in cui il Sì ha perso nettamente ma non in misura disastrosa, ha retto l'insediamento storico del PCI - PDS - DS - PD; il che dimostra che molti hanno un po' esagerato nel fare il funerale al sistema dei partiti e della loro capacità di orientare l'opinione pubblica, quantomeno nelle zone in cui i partiti non sono ridotti a semplici clientele.
D'altro canto, un'interessante articolo de “Il Sole 24 ore”1 del 5 dicembre “Referendum: a dire no sono stati giovani, disoccupati e i meno abbienti” rileva che vi è una sostanziale coincidenza fra orientamento elettorale nelle diverse province e reddito medio e tasso di disoccupazione con una forte astensione e una prevalenza del No nelle province a più basso reddito e a più alto tasso di disoccupazione. D'altro canto, ricerche più puntuali su una serie di città hanno rilevato come le periferie hanno votato No e i centri Sì, i ceti popolari No e i ceti borghesi Sì.
A meno di immaginare che i cittadini italiani si siano improvvisamente scoperti seguaci di Montesquieu, attenti lettori de “Lo spirito delle leggi” e rigorosi fautori della divisione dei poteri dello stato, si è di fronte a un voto che esprime un malessere sociale profondo solo parzialmente contenuto da tradizionali fedeltà ad uno schieramento politico.
È anche vero, d'altro canto, che non si tratta di un malessere omogeneo: quando il No stravince, per fare un caso, a Vicenza e Treviso, zone di forte insediamento leghista e ad alto reddito, è evidente che le ragioni dello scontento sono probabilmente legate ad una politica di “accoglienza” dei migranti ritenuta troppo blanda e a una rivolta della piccola impresa contro la pressione fiscale e che, passato il referendum, se si scorporano le ragioni del No, non vi è affatto un blocco elettorale che lo rappresenti; ma questa è un'altra questione rispetto a quella che ritengo di maggior interesse.
La domanda che sorge spontanea a questo punto è in quali comportamenti concreti, in quali azioni, in quali forme di organizzazione il “vento della rivolta” manifestatosi nel voto referendario si sia tradotto e si traduca; la suggestiva scoperta che facciamo sta nel fatto che, al momento, non si traduce in nulla o quasi o, meglio, che se vogliamo interrogare il sociale servono criteri di misurazione di natura diversa da quelli che utilizziamo per interpretare i comportamenti che si manifestano nella sfera politica2.
Proverò, in mancanza di ricerche a mio avviso adeguate, a utilizzare due esempi che, nella loro evidente diversità, possono funzionare da scandagli.

La “scomparsa” del movimento dei lavoratori della scuola

Partiamo dall'immersione in acque profonde del movimento dei lavoratori della scuola dopo il grande sciopero del maggio 2015 contro la riforma Renzi-Giannini.
Si giocò allora una partita la cui forza, apparente, e la cui debolezza, reale, fu l'unità sindacale nella mobilitazione.
Mancava infatti a quel movimento, nella sua imponenza, un robusto endoscheletro costituito dalla necessaria rete di comitati di scuola e territorio capaci di produrre elaborazione, iniziativa, lotta.
Il movimento, invece, venne “tenuto assieme” e, nei fatti, controllato prima e liquidato poi dagli apparati sindacali che dopo essergli saltati in groppa si disimpegnarono rapidamente nel settembre 2015, proponendo una “resistenza” (peraltro su contenuti subalterni all'offensiva di parte governativa) nelle singole scuole che consegnò la categoria, in questo modo atomizzata, all'iniziativa del Ministero.
Pure, nel corso dell'anno passato, non tutto ha funzionato bene dal punto di vista dell'avversario. Accanto a casi importanti anche se, purtroppo, isolati di esplicito rifiuto del bonus3 c'è stata una vera e propria resistenza passiva, una non collaborazione diffusa che ha significativamente, anche se non sufficientemente, limitato l'impatto della riforma. Nei fatti, il “premio ai meritevoli” è stato concesso al 39% degli insegnanti, oltre il doppio rispetto a quanto era nella logica del premio stesso che avrebbe dovuto andare a meno del 20% ed essere, di conseguenza, assai più consistente. Con ogni evidenza, di regola, i dirigenti scolastici hanno scelto di “accontentare” il maggior numero possibile di docenti per ridurre le tensioni. Un risultato, dal nostro punto di vista, certo non esaltante, ma indicativo di difficoltà dell'avversario.

Un brindisi agli autoferrotranvieri

Il 21 dicembre 2016 è stato firmato, per poi essere votato da una grande assemblea degli autoferrotranvieri che lo hanno accettato, dopo quattro giorni di sciopero totale dell'Atp (l'azienda di trasporto pubblico nella provincia di Genova) un accordo che prevede un significativo recupero di parte di quanto perso dai lavoratori negli ultimi anni.
È bene ricordare che il sindaco progressista e di sinistra di Genova, nonché Marchese, Patrizio Genovese e Conte di Montaldeo, Marco Doria, aveva affermato “Un fatto gravissimo, di una gravità assoluta. Non è accettabile che i cittadini siano tenuti in ostaggio e che delle leggi sacrosante che garantiscono il diritto di sciopero, ma anche un servizio pubblico ai cittadini, siano infrante in questo modo” e aveva rifiutato di trattare con gli autoferrotranvieri.
Al di là del giudizio tecnico sull'accordo, in ogni caso una vittoria rispetto alle pretese dell'azienda, è importante rilevare che lo sciopero è stato illegale, che la mobilitazione è stata massiccia, che è stata spezzata nei fatti la gabbia d'acciaio costituita dalla legislazione antisciopero che ha reso, inutile nasconderlo, sostanzialmente ineffettuali gli scioperi nei servizi pubblici.
Da questo punto di vista va detto che l'accordo prevede che l'azienda non avvii provvedimenti disciplinari contro gli scioperanti, una riprova del fatto che quando l'illegalità è di massa fonda nuove regole del gioco, come ci insegna il famoso “discorso del Ciompo4”.

Guardando nello specchio

Cos'è successo nel frattempo sul terreno della questione sociale? Come sovente avviene, i movimenti dell'avversario, rispecchiando la sua lettura dello stato della nostra parte, forniscono utili elementi di conoscenza.
Il 30 novembre dell'anno scorso il Governo e CGIL-CISL-UIL, finalmente - dal loro punto di vista - affratellati, hanno concluso un accordo sui contratti del pubblico impiego, basato sullo scambio esplicito fra un rinnovato riconoscimento del ruolo istituzionale dei sindacati concertativi, in cambio di aumenti salariali assolutamente lontani dal recupero di quanto abbiamo perso in questi anni e destinati in parte significativa a finanziare fondi pensione e un welfare integrativo gestito congiuntamente da Governo e sindacati istituzionali.
Il 25 novembre FIM, FIOM e UILM avevano firmato con Confindustria il contratto dei metalmeccanici; la FIOM, dopo anni di isolamento e di rottura con FIM e UILM, poneva fine all'anomalia che aveva rappresentato e accettava, guarda caso, aumenti salariali modesti e, mi ripeto, destinati in parte significativa a finanziare fondi pensione e un welfare integrativo gestito congiuntamente dal padronato e dai sindacati istituzionali.
Accordi che restaurano quella concertazione o, se si preferisce, quel corporativismo democratico che per varie ragioni dal tentativo della FIOM di giocare un ruolo di opposizione a quello del Governo Renzi di mettere a cuccia la burocrazia sindacale, era in crisi.
Accordi mediante i quali i diversi poteri reali si sostengono a vicenda di fronte a una situazione sociale di forte tensione, a volte effettuale e a volte sottotraccia.
Accordi che comunque rendono più chiaro il quadro politico e sociale, i posizionamenti, le scelte di fondo e che permetterebbero, laddove ve ne fossero le capacità, un'iniziativa forte dell'opposizione sociale. È su questo terreno che, a mio avviso, sui vari piani - politico, culturale, sindacale - si deve lavorare, si devono porre in rete conoscenze e valutazioni, si devono concordare iniziative.
Un percorso non facile, ma necessario pena l'irrilevanza.

Cosimo Scarinzi
Coordinatore Nazionale CUB Scuola Università Ricerca

  1. http://www.infodata.ilsole24ore.com/2016/12/05/referendum-dire-no-stati-giovani-disoccupati-meno-abbienti/.
  2. Ho ritenuto di utilizzare i dati del referendum costituzionale perché, a mio avviso, particolarmente chiari e di facile interpretazione, ma l'andamento delle ultime elezioni con la crescita delle elezioni e l'entrata in scena del Movimento 5 Stelle confermano la tendenza pienamente manifestatasi in occasione del referendum.
  3. Vedi l'articolo Scuola, i professori che rifiutano il bonus: “A tutti o a nessuno, così è un'elemosina” su “La Repubblica” del 29 giugno 2016 http://www.repubblica.it/scuola/2016/06/29/news/_chi_lavora_di_piu_ha_diritto_a_degli_extra_-143032739/.
  4. Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine.