lavoro
Prospettive grigie. Per non dire nere
con testi del Collettivo Clash City Workers e di Cosimo Scarinzi
La situazione sociale italiana è sempre più negativa. Abbiamo chiesto di dare i numeri a un collettivo militante e di tracciare un breve quadro della situazione a un esponente del sindacalismo alternativo.
Silenzio, parlano
i numeri
del Collettivo Clash City Workers
L'aumento dei voucher e della disoccupazione,
la diminuzione del welfare e dei salari. I dati possono spiegare
la situazione del mercato del lavoro italiano meglio di tante
analisi sociologiche e filosofiche.
Il dato più rilevante a cui ci troviamo di fronte se
consideriamo la situazione odierna del mercato del lavoro è
senza dubbio l'enorme aumento nella vendita dei voucher, o buoni
lavoro, nuovi protagonisti, almeno da qualche anno, dell'economia
e della politica italiana.
Introdotti dalla legge Biagi nel 2003 – anche se entrati
effettivamente in vigore nel 2008 – come strumento per
far emergere il lavoro nero, soprattutto in contesti familiari
o comunque di forte prossimità sociale, i voucher erano
in origine legati alla nozione di lavoro accessorio,
ossia a quelle “attività lavorative di natura meramente
occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale
o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero
in procinto di uscirne”.
Per questo, una serie di paletti soggettivi (legati alla specificità
dei soggetti interessati) e oggettivi (temporali e monetari)
ne delimitava l'utilizzo. Ma le progressive liberalizzazioni
dello strumento – dapprima a piccoli passi, e poi in grande
stile con la riforma Fornero nel 2012 e con il Jobs Act nel
20151 – hanno progressivamente
eliminato quasi tutte le limitazioni che avevano provveduto,
nel corso dei primi anni, a evitarne l'impiego sistematico.
È rimasto in vigore unicamente un limite retributivo:
un singolo lavoratore non può percepire, nel corso di
un anno civile, più di € 7.000 netti tramite voucher
(si noti come tale limite valga unicamente dal lato del lavoratore
e non delle imprese, che quindi non hanno limiti nell'impiego
dei voucher).
Per il resto, come recita il sito dell'INPS, “è
possibile utilizzare i buoni lavoro in tutti i settori di attività
e per tutte le categorie di prestatori”. Ciò ha
portato all'attuale situazione, ossia al boom che vediamo a
partire dal 2012/2013 (dunque dalle prime grosse liberalizzazioni):
i 40 milioni di voucher acquistati nel 2013 diventano 69 l'anno
successivo, poi oltre 115 e nel 2016 superano i 133 milioni2.
Ad ottobre 2016 il governo Renzi ha provato a mettere qualche
pezza, con un decreto correttivo che impone al datore di lavoro
di comunicare, all'atto di acquisto di un voucher, l'ora esatta
in cui verrà utilizzata (oltre, naturalmente, ai dati
del lavoratore e luogo, cosa già prevista). Si è
provato, in questo modo, a limitarne gli abusi o gli usi impropri.
Ma il vero problema dei voucher sta alla radice, nel loro stesso
modo di funzionamento. Essi, infatti, non sono un contratto
di lavoro, e dunque non prevedono tutti quegli istituti contrattuali
conquistati in un secolo e mezzo di lotta contro lo sfruttamento,
come ferie, malattia, maternità, scatti di anzianità,
mansioni e così via.
Le trattenute, che pure ci sono, poiché il valore netto
di un buono lavoro, che è il pagamento minimo per un'ora
di lavoro, è di € 7,50 di contro al lordo di €
10, rappresentano una quota assicurativa INAIL (7%), le spese
di gestione dell'INPS (5%) e poi il versamento dei contributi
(13% - una quota, dunque, più bassa rispetto ai normali
contratti a tempo indeterminato o determinato). In questo senso
i voucher sono quasi la realizzazione di una delle utopie del
capitalismo, ossia di poter pagare la forza-lavoro unicamente
per il tempo e il modo del suo impiego, senza alcun riguardo
alla dimensione globale della vita dei lavoratori. Per questi
ultimi, addirittura, dal decreto di ottobre in poi diventa quasi
più conveniente il lavoro nero, perché se accertato
porta a una maxi-sanzione per il datore di lavoro e alla possibile
regolarizzazione per il lavoratore, mentre i voucher sono perfettamente
legali e eventuali irregolarità sono punite, da ottobre,
unicamente con una sanzione pecuniaria, peraltro di modesta
entità3.
All'orizzonte solo precarietà
Sulla scorta di queste considerazioni, capiamo come i voucher
rappresentino uno strumento fortemente appetibile per tutti
i datori di lavoro e come quindi la loro diffusione in tutte
le fasce di età e in tutti i settori (anche tra quelli
ritenuti esenti dal fenomeno, come nel pubblico o nelle fabbriche
metalmeccaniche4) sia perfettamente
conseguente al percorso che abbiamo tratteggiato, tanto più
se consideriamo che la Fornero e il Jobs Act, mentre da una
parte liberalizzavano i voucher, dall'altra stringevano le possibilità
di utilizzo di altre forme contrattuali introdotte negli ultimi
vent'anni e molto convenienti per le imprese, come i contratti
a progetto o i CO.CO.PRO.
I buoni lavoro si inseriscono, d'altra parte, in un mercato
del lavoro che negli ultimi anni è stato sempre più
frammentato e precarizzato. In questo ha giocato un ruolo fondamentale
il Jobs Act, il cui unico effetto è stato quello di indebolire
i lavoratori, trasformando i contratti a tempo indeterminato
in contratti “a tutele crescenti” – laddove
“tutele” significa: ti licenzio quando voglio e
al massimo ti do (pochi) soldi dopo – senza creare stabilmente
occupazione. Vediamo infatti come, dopo l'ondata di assunzioni
drogata dagli sgravi fiscali nel 2015, e dunque da un enorme
drenaggio di soldi pubblici a favore dei privati, la situazione
nel 2016 sia rimasta sostanzialmente stabile, assestandosi su
livelli molto alti: nei dati preliminari che il 9 gennaio 2017
l'ISTAT ha diffuso in merito all'occupazione di novembre 2016,
la disoccupazione complessiva si assesta all'11,9%, e quella
giovanile al 39,4% (di contro a percentuali pre-crisi, per esempio
a gennaio 2008, rispettivamente del 6,6% e del 20,5%), e comunque
in crescita per tutte le fasce di età tranne che per
gli over 50.
Per quanto riguarda l'occupazione, inoltre, dobbiamo considerarne
la qualità: da anni, infatti, sono sotto attacco
le condizioni di lavoro, in tutti i settori. Parliamo di salari
più bassi e sempre meno fissi, ma legati alla produttività,
orari di lavoro più lunghi, introduzione di forme di
welfare aziendale vantaggiose unicamente per le imprese. Questi
processi sono stati visibili nei rinnovi dei CCNL degli ultimi
due anni5, e in modo particolarmente
emblematico in quello, recente, dei metalmeccanici, che Confindustria
vorrebbe prendere a modello anche per altri settori e in cui
troviamo: aumentati salariali minimi, erogati ex-post in base
all'inflazione reale e non più programmata; possibilità
di scambiare aumenti salariali con buoni carrello, convenienti
per le imprese perché detassati e dannosi per i lavoratori
perché non rientrano nel conteggio di tredicesima, quattordicesima
e TFR; welfare aziendale, come i buoni carrello dannosi per
noi e convenienti per imprese, e inoltre in grado di vincolare
sempre più il lavoratore alla volontà dell'azienda,
grazie alla minaccia di far perdere non solo il posto di lavoro,
ma anche l'assistenza sanitaria; maggiore flessibilità
oraria e straordinari gratuiti grazie a un orario plurisettimanale
che permette all'azienda (e impone ai lavoratori) di recuperare
straordinari sottraendoli dalle settimane successive.
Ma dall'esito della votazione sul CCNL dei metalmeccanici viene
anche uno dei segnali positivi che, insieme ad esempio alla
recente mobilitazione dei lavoratori Almaviva a Roma, ci mostra
che lottare è possibile e va fatto: per quanto
il CCNL sia stato approvato, 69000 lavoratori (circa il 20%),
soprattutto nelle fabbriche che negli ultimi anni sono state
attraversate da mobilitazioni (come tutto il gruppo Electrolux)
o dove c'è stato un intervento a sostegno del No, anche
minimo, è andata contro l'indicazione delle dirigenze
sindacali firmatarie di questo contratto e ha detto No.
Collettivo Clash City Workers
- Per un'analisi più dettagliata della genesi e dello
sviluppo dei voucher, anche in rapporto ad analoghe politiche
adottate in altri stati europei, rimandiamo alla ricerca svolta
da Gianluca De Angelis e Marco Marrone per conto dell'IRES
Emilia Romagna: http://www.ireser.it/administrator/components/com_jresearch/files/publications/Ricerca_Voucher.pdf.
- I dati 2016, ancora parziali, sono stati diffusi a metà
gennaio. Per i dati 2008-2015 si veda la ricerca prodotta
dall'INPS nell'ottobre 2016: http://anclsu.com/public/news/copertina/WorkINPS_Papers_3_ottobre.pdf.
- Ci sono gli estremi per parlare dei voucher come di “caporalato
legalizzato”: ne parliamo più diffusamente nell'articolo
Lavorare senza diritti. Dai voucher al caporalato, pubblicato
sul numero 51 della rivista PaginaUno e consultabile
online.
- Per un'analisi dettagliata di lavoratori, settori e datori
di lavoro interessati dal fenomeno, rimandiamo alla ricerca
dell'INPS sopra citata.
- Qui ne parliamo nel dettaglio: http://clashcityworkers.org/documenti/analisi/2187-salari-orari-ccnl.html.
Doppio
movimento
di Cosimo Scarinzi
C'è quello politico, bloccato (alla faccia
della vittoria referendaria). E quello sociale, quasi fermo.
Ma con segnali di combattività. Nella scuola e a Genova,
per esempio.
Può valere la pena di tornare, rapidamente, al referendum
costituzionale del 4 dicembre. Dal punto di vista politico si
è trattato indubbiamente di un evento di portata notevolissima.
Un referendum senza quorum ha visto, infatti, un'affluenza del
65% in netta controtendenza rispetto alla consolidata crescita
dell'astensione; con la vittoria del No con il 59,1% dei voti
si è avuto, a maggior ragione vista l'affluenza, un risultato
che non ha permesso le classiche interpretazioni secondo le
quali tutti, in qualche misura e per qualche ragione, hanno
vinto.
Anche la distribuzione del voto è interessante, con l'eccezione
della provincia di Bolzano, il Sì ha vinto solo nelle
province di Arezzo, Firenze, Forlì Cesena, Modena, Pisa,
Pistoia, Ravenna, Reggio nell'Emilia e Siena e ha perso arrivando
quasi al pareggio solo nelle province di Livorno e Perugia.
Con ogni evidenza, se consideriamo anche le province in cui
il Sì ha perso nettamente ma non in misura disastrosa,
ha retto l'insediamento storico del PCI - PDS - DS - PD; il
che dimostra che molti hanno un po' esagerato nel fare il funerale
al sistema dei partiti e della loro capacità di orientare
l'opinione pubblica, quantomeno nelle zone in cui i partiti
non sono ridotti a semplici clientele.
D'altro canto, un'interessante articolo de “Il Sole 24
ore”1 del 5 dicembre “Referendum:
a dire no sono stati giovani, disoccupati e i meno abbienti”
rileva che vi è una sostanziale coincidenza fra orientamento
elettorale nelle diverse province e reddito medio e tasso di
disoccupazione con una forte astensione e una prevalenza del
No nelle province a più basso reddito e a più
alto tasso di disoccupazione. D'altro canto, ricerche più
puntuali su una serie di città hanno rilevato come le
periferie hanno votato No e i centri Sì, i ceti popolari
No e i ceti borghesi Sì.
A meno di immaginare che i cittadini italiani si siano improvvisamente
scoperti seguaci di Montesquieu, attenti lettori de “Lo
spirito delle leggi” e rigorosi fautori della divisione
dei poteri dello stato, si è di fronte a un voto che
esprime un malessere sociale profondo solo parzialmente contenuto
da tradizionali fedeltà ad uno schieramento politico.
È anche vero, d'altro canto, che non si tratta di un
malessere omogeneo: quando il No stravince, per fare un caso,
a Vicenza e Treviso, zone di forte insediamento leghista e ad
alto reddito, è evidente che le ragioni dello scontento
sono probabilmente legate ad una politica di “accoglienza”
dei migranti ritenuta troppo blanda e a una rivolta della piccola
impresa contro la pressione fiscale e che, passato il referendum,
se si scorporano le ragioni del No, non vi è affatto
un blocco elettorale che lo rappresenti; ma questa è
un'altra questione rispetto a quella che ritengo di maggior
interesse.
La domanda che sorge spontanea a questo punto è in quali
comportamenti concreti, in quali azioni, in quali forme di organizzazione
il “vento della rivolta” manifestatosi nel voto
referendario si sia tradotto e si traduca; la suggestiva scoperta
che facciamo sta nel fatto che, al momento, non si traduce in
nulla o quasi o, meglio, che se vogliamo interrogare il sociale
servono criteri di misurazione di natura diversa da quelli che
utilizziamo per interpretare i comportamenti che si manifestano
nella sfera politica2.
Proverò, in mancanza di ricerche a mio avviso adeguate,
a utilizzare due esempi che, nella loro evidente diversità,
possono funzionare da scandagli.
La “scomparsa” del movimento dei lavoratori della scuola
Partiamo dall'immersione in acque profonde del movimento dei
lavoratori della scuola dopo il grande sciopero del maggio 2015
contro la riforma Renzi-Giannini.
Si giocò allora una partita la cui forza, apparente,
e la cui debolezza, reale, fu l'unità sindacale nella
mobilitazione.
Mancava infatti a quel movimento, nella sua imponenza, un robusto
endoscheletro costituito dalla necessaria rete di comitati di
scuola e territorio capaci di produrre elaborazione, iniziativa,
lotta.
Il movimento, invece, venne “tenuto assieme” e,
nei fatti, controllato prima e liquidato poi dagli apparati
sindacali che dopo essergli saltati in groppa si disimpegnarono
rapidamente nel settembre 2015, proponendo una “resistenza”
(peraltro su contenuti subalterni all'offensiva di parte governativa)
nelle singole scuole che consegnò la categoria, in questo
modo atomizzata, all'iniziativa del Ministero.
Pure, nel corso dell'anno passato, non tutto ha funzionato bene
dal punto di vista dell'avversario. Accanto a casi importanti
anche se, purtroppo, isolati di esplicito rifiuto del bonus3
c'è stata una vera e propria resistenza passiva, una
non collaborazione diffusa che ha significativamente, anche
se non sufficientemente, limitato l'impatto della riforma. Nei
fatti, il “premio ai meritevoli” è stato
concesso al 39% degli insegnanti, oltre il doppio rispetto a
quanto era nella logica del premio stesso che avrebbe dovuto
andare a meno del 20% ed essere, di conseguenza, assai più
consistente. Con ogni evidenza, di regola, i dirigenti scolastici
hanno scelto di “accontentare” il maggior numero
possibile di docenti per ridurre le tensioni. Un risultato,
dal nostro punto di vista, certo non esaltante, ma indicativo
di difficoltà dell'avversario.
Un brindisi agli autoferrotranvieri
Il 21 dicembre 2016 è stato firmato, per poi essere
votato da una grande assemblea degli autoferrotranvieri che
lo hanno accettato, dopo quattro giorni di sciopero totale dell'Atp
(l'azienda di trasporto pubblico nella provincia di Genova)
un accordo che prevede un significativo recupero di parte di
quanto perso dai lavoratori negli ultimi anni.
È bene ricordare che il sindaco progressista e di sinistra
di Genova, nonché Marchese, Patrizio Genovese e Conte
di Montaldeo, Marco Doria, aveva affermato “Un fatto gravissimo,
di una gravità assoluta. Non è accettabile che
i cittadini siano tenuti in ostaggio e che delle leggi sacrosante
che garantiscono il diritto di sciopero, ma anche un servizio
pubblico ai cittadini, siano infrante in questo modo”
e aveva rifiutato di trattare con gli autoferrotranvieri.
Al di là del giudizio tecnico sull'accordo, in ogni caso
una vittoria rispetto alle pretese dell'azienda, è importante
rilevare che lo sciopero è stato illegale, che la mobilitazione
è stata massiccia, che è stata spezzata nei fatti
la gabbia d'acciaio costituita dalla legislazione antisciopero
che ha reso, inutile nasconderlo, sostanzialmente ineffettuali
gli scioperi nei servizi pubblici.
Da questo punto di vista va detto che l'accordo prevede che
l'azienda non avvii provvedimenti disciplinari contro gli scioperanti,
una riprova del fatto che quando l'illegalità è
di massa fonda nuove regole del gioco, come ci insegna il famoso
“discorso del Ciompo4”.
Guardando nello specchio
Cos'è successo nel frattempo sul terreno della questione
sociale? Come sovente avviene, i movimenti dell'avversario,
rispecchiando la sua lettura dello stato della nostra parte,
forniscono utili elementi di conoscenza.
Il 30 novembre dell'anno scorso il Governo e CGIL-CISL-UIL,
finalmente - dal loro punto di vista - affratellati, hanno concluso
un accordo sui contratti del pubblico impiego, basato sullo
scambio esplicito fra un rinnovato riconoscimento del ruolo
istituzionale dei sindacati concertativi, in cambio di aumenti
salariali assolutamente lontani dal recupero di quanto abbiamo
perso in questi anni e destinati in parte significativa a finanziare
fondi pensione e un welfare integrativo gestito congiuntamente
da Governo e sindacati istituzionali.
Il 25 novembre FIM, FIOM e UILM avevano firmato con Confindustria
il contratto dei metalmeccanici; la FIOM, dopo anni di isolamento
e di rottura con FIM e UILM, poneva fine all'anomalia che aveva
rappresentato e accettava, guarda caso, aumenti salariali modesti
e, mi ripeto, destinati in parte significativa a finanziare
fondi pensione e un welfare integrativo gestito congiuntamente
dal padronato e dai sindacati istituzionali.
Accordi che restaurano quella concertazione o, se si preferisce,
quel corporativismo democratico che per varie ragioni dal tentativo
della FIOM di giocare un ruolo di opposizione a quello del Governo
Renzi di mettere a cuccia la burocrazia sindacale, era in crisi.
Accordi mediante i quali i diversi poteri reali si sostengono
a vicenda di fronte a una situazione sociale di forte tensione,
a volte effettuale e a volte sottotraccia.
Accordi che comunque rendono più chiaro il quadro politico
e sociale, i posizionamenti, le scelte di fondo e che permetterebbero,
laddove ve ne fossero le capacità, un'iniziativa forte
dell'opposizione sociale. È su questo terreno che, a
mio avviso, sui vari piani - politico, culturale, sindacale
- si deve lavorare, si devono porre in rete conoscenze e valutazioni,
si devono concordare iniziative.
Un percorso non facile, ma necessario pena l'irrilevanza.
Cosimo Scarinzi
Coordinatore Nazionale CUB Scuola Università Ricerca
- http://www.infodata.ilsole24ore.com/2016/12/05/referendum-dire-no-stati-giovani-disoccupati-meno-abbienti/.
- Ho ritenuto di utilizzare i dati del referendum costituzionale
perché, a mio avviso, particolarmente chiari e di facile
interpretazione, ma l'andamento delle ultime elezioni con la
crescita delle elezioni e l'entrata in scena del Movimento 5
Stelle confermano la tendenza pienamente manifestatasi in occasione
del referendum.
- Vedi l'articolo Scuola, i professori che rifiutano il
bonus: “A tutti o a nessuno, così è
un'elemosina” su “La Repubblica” del 29
giugno 2016 http://www.repubblica.it/scuola/2016/06/29/news/_chi_lavora_di_piu_ha_diritto_a_degli_extra_-143032739/.
- Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine.
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