rivista anarchica
anno 47 n. 414
marzo 2017





La terra è di chi la canta/
Michele Gazich. L'Europa di oggi e le biblioteche sommerse

Ho incontrato Michele Gazich qualche anno fa, a margine di una iniziativa che portava all'interno figure e linguaggi della tradizione sarda. Avevo invitato per quest'occasione il maestro Luigi Lai, suonatore dello strumento più arcaico del mediterraneo, le launeddas. L'incontro tra Michele, il suo violino e il maestro Lai prese la forma di un rituale fatto di sguardi, di attese, ascolto, meraviglia, dialogo e interazione sonora fra due mondi solo apparentemente lontani, confutando così, in modo netto ed inequivocabile, tutte le posticce teorie sfociate in fiumi di scritti e salottieri convegni sui confini tra la musica colta e popolare.
Michele Gazich, proprio a partire dal suo cognome e dalla sua anima che si manifesta e si concretizza nell'arte del violino e del canto, è portatore di storie e di luoghi che non hanno bisogno di localizzazioni etnico-geografiche; nonostante il suo peregrinare e la sua ricerca si muovano intorno a terre di confini dove i popoli sono rimasti vittime di rivendicazioni o imposizioni etnico-geografiche. Michele Gazich è musicista, compositore, scrittore, autore, ricercatore, ma è soprattutto una sorta di menestrello contemporaneo, un incisore di storie, un artigiano del suono. Michele, raccontaci il tuo viaggio e le tue origini partendo non dalle tue radici ma dal contesto sociale e culturale che si muove intorno a te, e dentro di te, oggi.

Michele – La mia automobile che si muove da una città all'altra in un'Europa deflagrata e incerta mi ricorda tante volte il carretto degli artisti nel film Il settimo sigillo di Bergman. Il momento, tuttavia, è fecondo per le arti, come tutti i momenti di crisi; ma l'artista d'oggi (non solo d'oggi, in realtà...) opera in condizioni difficili: mette quotidianamente a rischio la sua sopravvivenza e la sua vita se racconta qualche verità oggettiva. Metaforicamente, ma neanche tanto metaforicamente, ogni domenica nei centri commerciali impiccano un poeta. L'ho scritto a chiare lettere in una mia canzone che ho intitolato emblematicamente Guerra Civile.

Gerry – Nel tuo cognome è incistato il senso del viaggio stesso, una sorta di dromomania, in parte metaforica, che ti ha spinto spesso sulle tracce del passato per raccontare non solo la tua storia ma fondamentalmente la storia di ogni uomo che vive, da sempre, la sua fatica e la sua leggerezza del vivere. Da dove comincia la tua ricerca, non solo musicale ovviamente?
Michele – La mia trisnonna è nata a Istanbul; poi la mia famiglia si è mossa verso la Ex-Jugoslavia; poi l'America e solo infine l'Italia. Ho raccontato questa storia, partendo dalle memorie della mia bisnonna in un album di canzoni che ho intitolato Una storia di mare e di sangue (2014), non a caso con l'articolo indeterminativo. Non aspira ad essere la storia, ma è una storia comune e insieme particolarissima, come tutte le storie di chi ha dovuto viaggiare per sfuggire alla fame e alla violenza. Il viaggio è dentro di me. Il viaggio ha ispirato la mia ricerca musicale. Ho ripercorso le tracce dei miei avi e continuo ancor oggi ad attraversare mondi, ad incontrare altri esseri umani.
La questione non riguarda solo la musica.

Michele Gazich

In uno scenario che mi ha ricordato le epiche ballate di Giovanna Marini, tu issi le vele al vento per navigare su “fragili vascelli” (concedimi la citazione deandreiana) per scandagliare i fondali dell'animo umano, con un progetto che porta il nome “la nave dei folli” (e chiudo il cerchio delle citazioni ricordando il compagno, di festa e di lotta, Ivan Della Mea). Da dove è partita la nave dei folli e dove è attraccata?
La canzone-manifesto di Ivan della Mea era presente tra le mie ispirazioni quando ho scelto il nome per il gruppo che avrebbe registrato e proposto dal vivo le mie canzoni: “È piena la nave dei cani delusi / rimasti bastardi tra mille carezze / è bello vederli coi pugni ben chiusi / tenersi lo sporco, lasciar le promesse / dei mondi civili”. Allora non volevo cantare io le mie canzoni: ma mi piaceva che una voce femminile eterea cantasse, in maniera quasi paradossale, i miei testi espressionisti e di mano maschile. Tra il 2008 e il 2011 abbiamo prodotto tre album, ognuno con una formazione diversa! Era un gruppo-laboratorio. Sono rimasto legato ad alcune delle canzoni di quella stagione e le canto ancora, come Guerra Civile, a cui accennavo sopra o L'Angelo ucciso, dedicata a Pier Paolo Pasolini: “Poeta morto ti sento / Urlare dentro il silenzio / Il silenzio di chi ti ha ucciso / Il silenzio dei senza viso / Il silenzio dei senza Dio / Che pregano in banca / Che pregano in chiesa”.

Mi diverto con le allegorie: hai dipinto le tue tele da cantastorie “omeri-contemporaneo”, mettendo a frutto la tua attività di “cattedratico della strada” coniugando letteratura e tessuto urbano, narrazione e generi musicali. Passando poi al rapporto con la natura e il circostante che vivi nel quotidiano. Quali forme di ispirazione e che fonti alimentano il tuo cammino musicale, artistico e aggiungerei anche spirituale?
Non ho mai fatto distinzione tra la cattedra e la strada. Il punto chiave è sempre stato l'incontro. Quando ero giovane ho effettivamente fatto l'insegnante e mantengo ancor oggi rapporti con persone incontrate allora. La vita mi chiedeva, però, un altro tipo di insegnamento.
Ho affrontato l'incertezza avventurosa della vita dell'artista, lasciando lietamente la scena delle nostre Università, tra le più corrotte del mondo occidentale. Ho, dunque, raccontato la mie storie e ascoltato quelle degli altri. Ad esempio: se non avessi parlato con Frank Deja, un personaggio frequentatore dei miei concerti a Colonia, non avrei saputo l'incredibile storia della biblioteca della sua città, sprofondata nella terra e sommersa dalle acque... e non in epoca biblica, ma nel 2009! Il tutto per l'avidità umana, per fare prima a costruire una metropolitana! La biblioteca (contenente gli archivi, la memoria della città) si era salvata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, ma è scomparsa qualche anno fa per avidità. Ne ho fatto una canzone: La Biblioteca sommersa. Se cercavo una metafora per descrivere l'Europa di oggi, priva di memoria, purtroppo l'avevo trovata.

L'album L'imperdonabile assume per te un significato particolare, un momento di passaggio forte e rivelatore. Un passaggio dove la malattia e il rischio, la paura di perdere una parte importante della vita si possono leggere anche come trasformazione-guarigione-rinascita che hai benedetto e accolto mettendo in gioco te stesso e l'utilizzo della voce nei tuoi brani. Che cosa è successo, Michele?
Avevo perso l'udito quasi totalmente in seguito ad una malattia e non era chiaro se sarei mai riuscito a recuperarlo. Ci sono illustri precedenti di musicisti sordi, ma comunque avrei preferito non entrare nel club.
Mi ritirai sul Lago di Garda (era l'estate 2011) a cercare di riprendermi con il riposo, visto che la scienza, come spesso avviene, aveva alzato le mani. Un giorno sentii le cicale e la cascatella vicino a casa. Da quel giorno cominciai a recuperare: ogni tanto sentivo e ogni tanto no. In questa situazione d'incertezza cominciai a registrare L'Imperdonabile. Pensai di mettere tutto me stesso in questo album, che poteva essere l'ultimo. Lo registrai totalmente da solo, sovraincidendo pianoforte, archi e la mia voce, per la prima volta. Volevo lasciarne testimonianza. L'album, poi, non è stato l'ultimo; io sono lentamente guarito (o, meglio, ho imparato a convivere con la mia disabilità), ho registrato altri album e mi porto al seguito, da allora, il sussurro della mia voce.

Altra curiosità: hai prestato spesso il tuo violino e la tua collaborazione artistica a “singer-songwriter” statunitensi: da Michelle Shocked a Mark Olson, da Eric Andersen a Mary Gauthier. Che tipo di esperienza e di scambio stai vivendo con loro?
Affianco persone di cui condivido la visione, non solo musicale. Quest'anno registrerò con Mary Gauthier a Nashville un album da lei scritto con i soldati americani reduci dalle guerre imperialiste del suo paese. Sono canzoni terrificanti, ma necessarie, che aggiornano la canzone contro la guerra, in maniera forte e coraggiosa. Non più cantando “pace, pace”, ma mostrando l'orrore, i disastri della guerra nell'anima e nella vita di specifici esseri umani. Sono fiero di fare parte di questo progetto, a cui stiamo lavorando insieme già da vari anni.

Il tuo ultimo lavoro, La via del sale, è un affresco delicato e potente, poetico e disarmante, sulla linea di confine dove indagare e denunciare la condizione umana (una costante della tua ricerca). La metafora impietosa del prezioso minerale che nei secoli ha messo in contatto civiltà e culture relegandole a campi di sperimentazione sul concetto ossimorico di ricchezza-schiavitù, miseria-libertà. Raccontaci il progetto e svela quale via del sale ha deciso di intraprendere Michele Gazich.
Ti rispondo, se non ti offendi, con le parole che ho deciso di stampare sulla prima pagina del libretto contenuto nel mio album, perché ci ho pensato a lungo, ci credo profondamente e sintetizzano la ricerca di tanti anni: “Un tempo il sale era prezioso come l'oro e preziose erano anche le vie attraverso le quali veniva trasportato in tutto il mondo conosciuto: queste vie oggi hanno perso il loro senso originario e i luoghi che esse percorrevano sono abbandonati, quasi dimenticati.
Un giorno anche gli oleodotti saranno dimenticati. Sopravvivono ancora, tuttavia, musicisti e strumenti tradizionali legati ai tempi che furono, quando la via era importante. Ho recuperato questi strumenti arcaici e li ho accostati al mio violino, alla mia voce e ad altre voci e strumenti decisamente contemporanei, perché non volevo realizzare un'operazione nostalgica e revivalistica o un calligrafico esercizio di stile che non turbasse le coscienze.
La vita è troppo breve per giocare. Ho perciò strappato questi strumenti alle loro terre e ho contestualizzato il loro rimpianto, il loro grido e il loro lamento in musiche e parole che ho composto oggi – qui ed ora – per raccontare l'Europa di oggi, fatta di resti industriali, maestose rovine del terziario, biblioteche sommerse dalle acque, città distrutte, migrazioni e barricate: le nostre contemporanee vie del sale”.

Sito: www.michelegazich.it
Facebook: Michele Gazich
Email: michelegazichbooking@gmail.com

Gerry Ferrara