La terra è di chi la canta/
Michele Gazich. L'Europa di oggi e le biblioteche sommerse
Ho incontrato Michele Gazich qualche anno fa, a margine di
una iniziativa che portava all'interno figure e linguaggi della
tradizione sarda. Avevo invitato per quest'occasione il maestro
Luigi Lai, suonatore dello strumento più arcaico del
mediterraneo, le launeddas. L'incontro tra Michele, il
suo violino e il maestro Lai prese la forma di un rituale fatto
di sguardi, di attese, ascolto, meraviglia, dialogo e interazione
sonora fra due mondi solo apparentemente lontani, confutando
così, in modo netto ed inequivocabile, tutte le posticce
teorie sfociate in fiumi di scritti e salottieri convegni sui
confini tra la musica colta e popolare.
Michele Gazich, proprio a partire dal suo cognome e dalla sua
anima che si manifesta e si concretizza nell'arte del violino
e del canto, è portatore di storie e di luoghi che non
hanno bisogno di localizzazioni etnico-geografiche; nonostante
il suo peregrinare e la sua ricerca si muovano intorno a terre
di confini dove i popoli sono rimasti vittime di rivendicazioni
o imposizioni etnico-geografiche. Michele Gazich è musicista,
compositore, scrittore, autore, ricercatore, ma è soprattutto
una sorta di menestrello contemporaneo, un incisore di storie,
un artigiano del suono. Michele, raccontaci il tuo viaggio e
le tue origini partendo non dalle tue radici ma dal contesto
sociale e culturale che si muove intorno a te, e dentro di te,
oggi.
Michele – La mia automobile che si muove da una città
all'altra in un'Europa deflagrata e incerta mi ricorda tante
volte il carretto degli artisti nel film Il settimo sigillo
di Bergman. Il momento, tuttavia, è fecondo per le arti,
come tutti i momenti di crisi; ma l'artista d'oggi (non solo
d'oggi, in realtà...) opera in condizioni difficili:
mette quotidianamente a rischio la sua sopravvivenza e la sua
vita se racconta qualche verità oggettiva. Metaforicamente,
ma neanche tanto metaforicamente, ogni domenica nei centri commerciali
impiccano un poeta. L'ho scritto a chiare lettere in una mia
canzone che ho intitolato emblematicamente Guerra Civile.
Gerry – Nel tuo cognome è incistato il senso
del viaggio stesso, una sorta di dromomania, in parte metaforica,
che ti ha spinto spesso sulle tracce del passato per raccontare
non solo la tua storia ma fondamentalmente la storia di ogni
uomo che vive, da sempre, la sua fatica e la sua leggerezza
del vivere. Da dove comincia la tua ricerca, non solo musicale
ovviamente?
Michele – La mia trisnonna è nata a Istanbul; poi
la mia famiglia si è mossa verso la Ex-Jugoslavia; poi
l'America e solo infine l'Italia. Ho raccontato questa storia,
partendo dalle memorie della mia bisnonna in un album di canzoni
che ho intitolato Una storia di mare e di sangue (2014),
non a caso con l'articolo indeterminativo. Non aspira ad essere
la storia, ma è una storia comune e insieme particolarissima,
come tutte le storie di chi ha dovuto viaggiare per sfuggire
alla fame e alla violenza. Il viaggio è dentro di me.
Il viaggio ha ispirato la mia ricerca musicale. Ho ripercorso
le tracce dei miei avi e continuo ancor oggi ad attraversare
mondi, ad incontrare altri esseri umani.
La questione non riguarda solo la musica.
In uno scenario che mi ha ricordato le epiche ballate
di Giovanna Marini, tu issi le vele al vento per navigare su
“fragili vascelli” (concedimi la citazione deandreiana)
per scandagliare i fondali dell'animo umano, con un progetto
che porta il nome “la nave dei folli” (e chiudo
il cerchio delle citazioni ricordando il compagno, di festa
e di lotta, Ivan Della Mea). Da dove è partita la nave
dei folli e dove è attraccata?
La canzone-manifesto di Ivan della Mea era presente tra le mie
ispirazioni quando ho scelto il nome per il gruppo che avrebbe
registrato e proposto dal vivo le mie canzoni: “È
piena la nave dei cani delusi / rimasti bastardi tra mille carezze
/ è bello vederli coi pugni ben chiusi / tenersi lo sporco,
lasciar le promesse / dei mondi civili”. Allora non volevo
cantare io le mie canzoni: ma mi piaceva che una voce femminile
eterea cantasse, in maniera quasi paradossale, i miei testi
espressionisti e di mano maschile. Tra il 2008 e il 2011 abbiamo
prodotto tre album, ognuno con una formazione diversa! Era un
gruppo-laboratorio. Sono rimasto legato ad alcune delle canzoni
di quella stagione e le canto ancora, come Guerra Civile,
a cui accennavo sopra o L'Angelo ucciso, dedicata a Pier
Paolo Pasolini: “Poeta morto ti sento / Urlare dentro
il silenzio / Il silenzio di chi ti ha ucciso / Il silenzio
dei senza viso / Il silenzio dei senza Dio / Che pregano in
banca / Che pregano in chiesa”.
Mi diverto con le allegorie: hai dipinto le tue tele da
cantastorie “omeri-contemporaneo”, mettendo a frutto
la tua attività di “cattedratico della strada”
coniugando letteratura e tessuto urbano, narrazione e generi
musicali. Passando poi al rapporto con la natura e il circostante
che vivi nel quotidiano. Quali forme di ispirazione e che fonti
alimentano il tuo cammino musicale, artistico e aggiungerei
anche spirituale?
Non ho mai fatto distinzione tra la cattedra e la strada. Il
punto chiave è sempre stato l'incontro. Quando ero giovane
ho effettivamente fatto l'insegnante e mantengo ancor oggi rapporti
con persone incontrate allora. La vita mi chiedeva, però,
un altro tipo di insegnamento.
Ho affrontato l'incertezza avventurosa della vita dell'artista,
lasciando lietamente la scena delle nostre Università,
tra le più corrotte del mondo occidentale. Ho, dunque,
raccontato la mie storie e ascoltato quelle degli altri. Ad
esempio: se non avessi parlato con Frank Deja, un personaggio
frequentatore dei miei concerti a Colonia, non avrei saputo
l'incredibile storia della biblioteca della sua città,
sprofondata nella terra e sommersa dalle acque... e non in epoca
biblica, ma nel 2009! Il tutto per l'avidità umana, per
fare prima a costruire una metropolitana! La biblioteca (contenente
gli archivi, la memoria della città) si era salvata dai
bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, ma è scomparsa
qualche anno fa per avidità. Ne ho fatto una canzone:
La Biblioteca sommersa. Se cercavo una metafora per descrivere
l'Europa di oggi, priva di memoria, purtroppo l'avevo trovata.
L'album L'imperdonabile assume per te un significato
particolare, un momento di passaggio forte e rivelatore. Un
passaggio dove la malattia e il rischio, la paura di perdere
una parte importante della vita si possono leggere anche come
trasformazione-guarigione-rinascita che hai benedetto e accolto
mettendo in gioco te stesso e l'utilizzo della voce nei tuoi
brani. Che cosa è successo, Michele?
Avevo perso l'udito quasi totalmente in seguito ad una malattia
e non era chiaro se sarei mai riuscito a recuperarlo. Ci sono
illustri precedenti di musicisti sordi, ma comunque avrei preferito
non entrare nel club.
Mi ritirai sul Lago di Garda (era l'estate 2011) a cercare di
riprendermi con il riposo, visto che la scienza, come spesso
avviene, aveva alzato le mani. Un giorno sentii le cicale e
la cascatella vicino a casa. Da quel giorno cominciai a recuperare:
ogni tanto sentivo e ogni tanto no. In questa situazione d'incertezza
cominciai a registrare L'Imperdonabile. Pensai di mettere
tutto me stesso in questo album, che poteva essere l'ultimo.
Lo registrai totalmente da solo, sovraincidendo pianoforte,
archi e la mia voce, per la prima volta. Volevo lasciarne testimonianza.
L'album, poi, non è stato l'ultimo; io sono lentamente
guarito (o, meglio, ho imparato a convivere con la mia disabilità),
ho registrato altri album e mi porto al seguito, da allora,
il sussurro della mia voce.
Altra curiosità: hai prestato spesso il tuo violino
e la tua collaborazione artistica a “singer-songwriter”
statunitensi: da Michelle Shocked a Mark Olson, da Eric Andersen
a Mary Gauthier. Che tipo di esperienza e di scambio stai vivendo
con loro?
Affianco persone di cui condivido la visione, non solo musicale.
Quest'anno registrerò con Mary Gauthier a Nashville un
album da lei scritto con i soldati americani reduci dalle guerre
imperialiste del suo paese. Sono canzoni terrificanti, ma necessarie,
che aggiornano la canzone contro la guerra, in maniera forte
e coraggiosa. Non più cantando “pace, pace”,
ma mostrando l'orrore, i disastri della guerra nell'anima e
nella vita di specifici esseri umani. Sono fiero di fare parte
di questo progetto, a cui stiamo lavorando insieme già
da vari anni.
Il tuo ultimo lavoro, La via del sale, è
un affresco delicato e potente, poetico e disarmante, sulla
linea di confine dove indagare e denunciare la condizione umana
(una costante della tua ricerca). La metafora impietosa del
prezioso minerale che nei secoli ha messo in contatto civiltà
e culture relegandole a campi di sperimentazione sul concetto
ossimorico di ricchezza-schiavitù, miseria-libertà.
Raccontaci il progetto e svela quale via del sale ha deciso
di intraprendere Michele Gazich.
Ti rispondo, se non ti offendi, con le parole che ho deciso
di stampare sulla prima pagina del libretto contenuto nel mio
album, perché ci ho pensato a lungo, ci credo profondamente
e sintetizzano la ricerca di tanti anni: “Un tempo il
sale era prezioso come l'oro e preziose erano anche le vie attraverso
le quali veniva trasportato in tutto il mondo conosciuto: queste
vie oggi hanno perso il loro senso originario e i luoghi che
esse percorrevano sono abbandonati, quasi dimenticati.
Un giorno anche gli oleodotti saranno dimenticati. Sopravvivono
ancora, tuttavia, musicisti e strumenti tradizionali legati
ai tempi che furono, quando la via era importante. Ho recuperato
questi strumenti arcaici e li ho accostati al mio violino, alla
mia voce e ad altre voci e strumenti decisamente contemporanei,
perché non volevo realizzare un'operazione nostalgica
e revivalistica o un calligrafico esercizio di stile che non
turbasse le coscienze.
La vita è troppo breve per giocare. Ho perciò
strappato questi strumenti alle loro terre e ho contestualizzato
il loro rimpianto, il loro grido e il loro lamento in musiche
e parole che ho composto oggi – qui ed ora – per
raccontare l'Europa di oggi, fatta di resti industriali, maestose
rovine del terziario, biblioteche sommerse dalle acque, città
distrutte, migrazioni e barricate: le nostre contemporanee vie
del sale”.
Sito: www.michelegazich.it
Facebook: Michele Gazich
Email: michelegazichbooking@gmail.com
Gerry Ferrara
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