rivista anarchica
anno 47 n. 414
marzo 2017






Allargando i confini
incontro con Riccardo Tesi


L'istinto dei particolari

“...diciamo pure che l'istinto mi ha guidato lungo il percorso e l'attenzione ai particolari ha permesso che questo percorso avesse una sorta di logica. Non posso dire che la mia carriera sia stata un susseguirsi di progetti programmati secondo una linea retta: è stato vivere quello che la vita artistica mi offriva di volta in volta, seguire le mie curiosità. Sono diventato musicista per caso, così come per caso ho preso in mano il primo organetto, così i progetti artistici si sono avvicendati seguendo le passioni legate alle circostanze, agli incontri. Però diciamo anche che da ognuna di queste esperienze ho sempre cercato di trarre il meglio, di lasciare qualcosa.”

Chi parla, col suo tipico piglio entusiasta e attento, con quel misto di eterno stupore adolescenziale e preciso sguardo critico, è uno dei musicisti più influenti degli ultimi 35 anni. Riccardo Tesi, il Piccolo Principe dell'organetto italiano, strumentista di statura internazionale, traghettatore di suoni, inventore di strade. Raccolse alla fine degli anni settanta, dalle mani del pioniere Francesco Giannattasio, questo strumento negletto, relegato come un cugino povero della fisarmonica al ruolo residuale di accompagnamento di alcuni balli, alcuni strambotti, e lo fece diventare un cardine della trasformazione del Folk Revival in World Music. Tesi è un poeta, dal suo insegnamento e dall'ispirazione che ha seminato sono nati molti allievi, reali o morali, che hanno spinto l'organetto su sponde virtuosistiche e tecniche impensabili, ma la profondità, il respiro e il “duende” che sta nel suono del maestro di Pistoia è tutt'oggi ineguagliato. L'apice di questo percorso lo si ascolta - oltre che nei dischi della sua “Banda Italiana” - nelle punte di diamante della canzone: “Anime salve” di de André o “Macramé” di Fossati.
Arrivato al traguardo biografico dei sessant'anni, con un percorso di impegno che va per strade tortuose dagli esordi accanto a Caterina Bueno alla rilettura del primo spettacolo del Folk italiano “Bella Ciao”, lo intervistiamo in occasione dell'uscita per l'editore Squilibri del libro “Una vita a bottoni” in cui il giornalista Neri Pollastri ricostruisce la sua carriera.

Alessio: Tu passi giustamente per uno che ha allargato molto i confini della musica popolare, ma in realtà, molto pragmaticamente e molto artigianalmente, sei uno che ha cominciato soprattutto a curare i particolari di ogni esecuzione, ogni disco, ogni spettacolo.
Riccardo: Forse più che un'intuizione, quella di allargare i confini è stata un'esigenza musicale. La paura più totale che ho è quella di annoiarmi, quindi ho sempre bisogno di sperimentare nuovi stimoli, forme musicali che ancora non conosco: ho sempre cambiato delle carte in tavola per poter avanzare e molto spesso mi sono infilato in dei progetti in cui, se avessi ragionato, mi sarei trovato paralizzato dalla paura di non sentirmi all'altezza. Per dire, quando mi è capitata l'occasione di suonare con un jazzista - io che non ho mai suonato jazz - mi son detto bene, e mi sono attrezzato per fare delle cose con lui. Ogni progetto è stato lo stimolo per studiare cose nuove, andare avanti, allargare il campo delle mie conoscenze.

Lavorando con musicisti occitani, sardi, dialettali in genere

Nel mondo del Folk l'improvvisazione, o come si diceva la spontaneità, sembrava essere la virtù principale, tu fai parte di quei musicisti che hanno fatto evolvere questo atteggiamento verso un linguaggio maturo.
Diciamo che io mi sento più compositore che improvvisatore... ma non per tirarmela! Anche l'improvvisatore compone a volte cose straordinarie, ma in tempo reale, invece io - a dispetto di un carattere impulsivo - sono molto riflessivo in musica e anche molto lento, la velocità non è il mio forte in niente, nemmeno quando ho praticato sport, sono sempre andato meglio sulle gare di resistenza. Pur avendo lavorato con grandi improvvisatori gestisco male dentro di me il non sapere che cosa accadrà di lì a poco. Questo ha rafforzato l'amore per l'architettura della musica, l'organetto è chiaramente una parte importante della mia vita, però il vero piacere che provo è quello di costruire i brani.

Raccontaci allora come un celebre strumentista trova l'equilibrio fra sé e la proprio musica.
Se mi passi la battuta, sono lo strumentista che si inserisce nella maniera più disciplinata nel mio stesso disegno. C'è una mia filosofia di fondo che è quella di pensare alla musica in generale, dando per assodato che costruire vuol dire soprattutto saper togliere. Il folk dei miei primi anni era un mondo nel quale tutti suonavano sempre, dall'inizio alla fine. La prima persona che mi ha fatto riflettere sull'importanza del vuoto è stata Patrick Vaillant: proprio suonando in duo - organetto e mandolino - con una situazione orchestrale ridotta al minimo dovevamo dare tutte le dinamiche possibili. Ma la vera formulazione di quest'arte dell'essenzialità mi è giunta lavorando con Fossati e de André, quello mi ha fatto capire quanto una frase musicale, un suono, un intervento debba essere misurato e al servizio della canzone.

Io penso che tu abbia nel tuo DNA la forma canzone, anche quando componi dei brani strumentali.
Ho sempre amato la canzone, sin da ragazzo quando suonavo la chitarra, da Bob Dylan a de Gregori, da Guccini a de André... quando mi sono interessato di musica popolare l'ho un po' persa di vista. Ho cominciato a riassaporarla con l'album “Anita Anita” (sulla vita di Garibaldi) del cantautore nizzardo Jean-Marie Carlotti, per poi ritrovarla lavorando con de André, Fossati, Gianmaria Testa: queste collaborazioni mi hanno riportato adulto alla forma canzone, e non l'ho più lasciata. Un po' snobisticamente pensavo che fosse una cosa banale, ma in realtà la canzone è una specie di miracolo, perché le cose semplici di cui è fatta sono difficilissime da trovare. La canzone è un modello compositivo giocato sull'essenziale equilibrio fra le parti e ormai, anche quando faccio un brano strumentale, uso gli stessi blocchi della canzone: qualcosa che abbia la funzione di strofa, ritornello, alla ricerca di quel miracolo di semplicità che ha tutto per sorprendere al primo ascolto e non annoiare ai successivi.
Avendo in principio lavorato con musicisti occitani, sardi, dialettali in genere, e quindi non capendo una mazza dei testi, mi concentravo sul fatto musicale... ma piano piano, lavorando coi testi importanti dei cantautori italiani, ho cominciato a fare attenzione alle parole ed è stata una bella apertura: ho provato a comporre dei testi, ho capito quanto era difficile e ho smesso subito, però mi son cominciato a concentrare anche sull'aspetto del testo della canzone, che per un lungo periodo avevo messo da parte.

Ritrovare l'entusiamo

Infine, riallestendo nel 2014 uno spettacolo come il “Bella Ciao” di Leydi e Crivelli, ti sei riappropriato anche di quella branca del folk protestatario che metteva in evidenza le parole dei canti di denuncia.
La prima cosa complicata del “Bella Ciao” è stata proprio quella di far pace con quel repertorio, perché rappresentava la prima musica popolare che ho ascoltato - mio padre aveva quel disco e lo aveva comprato perché era comunista - all'inizio della mia carriera lo percepivo come già vecchio: quando si iniziano le nuove fasi tutto ciò che c'è immediatamente prima viene rifiutato, quella dimensione che tanto appassionava i primi ricercatori a me annoiava a morte, e non perché non ne condividessi i contenuti, ma proprio non mi piacevano come canzoni. Dopo tanti anni, e con quella poca saggezza che posso aver accumulato alla mia età, ho chiamato a raccolta la mia esperienza di studioso, di conoscitore, di musicista e mi sono messo a riguardare con grande rispetto a questa operazione così pionieristica che aveva cambiato la storia della musica italiana. A quel punto lì, grazie anche agli interpreti di altissimo livello che si sono raccolti intorno a questo spettacolo, ho ritrovato piacere ed emozione, insomma ho fatto pace con queste canzoni, con la mia nostalgia, e col rifiuto che era stato necessario per andare avanti, ho riscoperto la bellezza di tanti brani che - giunti alla soglia delle quaranta repliche - continuano e emozionarmi, le ho riscoperte per quello che erano: belle canzoni.

E come ti spieghi che un valzerino elementare come “Addio Lugano” o “Maremma” o “Sebben che siamo donne” emozionino non solo te, che ne capisci il significato, ma anche all'estero?
La cosa che mi aveva già sorpreso all'epoca in cui ho fatto “Acqua Fuoco e Vento” è come mia figlia, che era piccola, venisse colpita proprio da quel repertorio... Io credo che certe linee melodiche, certe curve musicali, rappresentino l'archetipo della canzone e vadano dirette al DNA, sono melodie che hanno attraversato i secoli e il fatto che siano ancora qua vuol pur dire qualcosa, altrimenti sarebbero state dimenticate. Poi penso che le cantiamo e suoniamo bene, e soprattutto all'estero stiamo attenti a farle nei luoghi che offrano le condizioni per un ascolto ideale. Comunque anche lì devo ammettere che mi è tornata utile l'esperienza delle canzoni d'autore, perché queste più che mai erano “canzoni d'autore popolari”... mancando quasi sempre nelle ballate popolari il ritornello, io ho dato a certe parti strumentali la funzione di ritornello, e questo ha arricchito il nostro lavoro.

Cosa vuol dire oggi essere un musicista folk rispetto ad altre forme che si son codificate prima come la musica classica, il jazz?
Oggi è decisamente più qualificante essere un musicista folk che non un po' di anni fa: quando vi era un problema che derivava dalla cultura dominante in cui i musicisti folk erano quelli un po' più “sfigati”, quando in realtà tutto il movimento del folk-revival ha dato moltissimo alla musica contemporanea. Il fatto che vi siano stati questi incroci stilistici fra il folk e il jazz o la musica d'autore ha dato vita a dei veri capolavori musicali, ma ha anche obbligato i musicisti folk ad attrezzarsi per poter collaborare: laddove bastava una volta suonare a orecchio... se vuoi collaborare con artisti di altra estrazione devi cominciare un po' a leggere a saperne qualcosa di teoria musicale, e questa è una cosa che fa bene alla musica. Io poi non mi sento un musicista folk, mi sono dibattuto per uscire da questa nicchia che cominciava a starmi stretta già dopo due anni che suonavo, sono consapevole che la musica etnica è il linguaggio che ho studiato di più, ma credo di vivere nella contemporaneità e di fare dunque una musica contemporanea.

Recentemente mi pare che tu stia lavorando anche con cantautori giovani e non ancora affermati. Hai notato qualcosa di nuovo e interessante nella musica sommersa?
Nelle nuove generazioni ho sentito qualcosa che mi è piaciuto musicalmente... ma ciò che mi spinge a lavorare con loro è il senso dell'utopia che noi, più scafati dall'esperienza, abbiamo perso. L'utopia invece dà dei risultati insperati anche sul piano artistico e mi permette di recuperare un po' di speranza... La decadenza del Music Business, per come lo avevo conosciuto, spinge alcuni colleghi della mia età in una condizione di difesa un po' troppo pessimistica. Invece lavorare con i giovani mi permette di trovarmi a sessant'anni con più voglia di fare di dieci anni fa, pronto ad alternare ai luoghi prestigiosissimi dove per fortuna mi capita di suonare, alcuni Club gestiti da appassionati, senza per questo sentirmi preso dal panico del domani. Sono contento di aver trovato ancora fra le mie risorse l'entusiasmo.

Alessio Lega