Il valore letterario e il suo sistema produttivo
1.
Spesso mi si chiede di leggere testi letterari – racconti, romanzi, poesie – da parte di autori che vogliono il mio parere e non solo – magari un consiglio, quando non una spintarella, per farsi aprire le porte dall'editore giusto. Cerco, allora, di esibire un certo grado di perplessità che, però, non fa desistere nessuno. Anzi, il questuante letterario, pensandomi borioso, finge di interpretare la mia come ritrosia dettata da modestia e insiste – fino a quando, per bontà d'animo, per afflato umanitario, finisco col dire di sì. Ma con quell'accettazione – ogni volta – quell'irritazione rancorosa che già mi cresceva dentro di primo acchito mi prende del tutto fino a rimanere latente in me fino al momento in cui, liberandomene, ho assolto al compito.
L'editore in genere mi sfugge come la peste – sa che non ho più neppure zie disposte a comprare i miei libri, tantomeno a leggerli -, non sono un critico letterario – ed è la prima cosa che dico senza che nessuno alzi il sopracciglio –, non amo la letteratura – ed è la seconda cosa che dico facendo alzare parecchi sopraccigli subito sedati dalla strenua convinzione che io stia scherzando – e, soprattutto, chi me lo chiede dimostra già per il fatto di chiedermelo di non aver letto neppure un rigo di ciò che ho scritto in tutta la vita e perciò, fiducioso di lusingarmi, mi sta semplicemente offendendo.
2.
Riferendosi – se non vado errato – al caso di un soldato che, nel 1822, a teatro spara all'attore che interpreta Otello dicendo che mai un negro avrebbe potuto in sua presenza strangolare una fanciulla bianca, Stendhal – in un suo saggio, Racine e Shakespeare –, dice che l'irruzione della politica nella letteratura è come un “colpo di pistola in un concerto”. L'analogia è presa di peso da Francesco Muzzioli per titolare un suo indispensabile saggio dedicato al dibattito sui rapporti tra politica e letteratura tra il 1917 e il 1968 – da Benjamin a Sanguineti, tanto per riassumere alla svelta, passando per una sostanziosa rilettura dei futuristi russi e di Brecht. Qui, contro l'ideologia passivista che mira a ratificare come sola letteratura possibile quella imposta dal mercato, Muzzioli propone una “retorica integrale” che, volendo e sapendo frugare nell'“inconscio del testo”, possa anche essere intesa come “politicità integrale” o “criticità integrale” di chi è chiamato a giudicare non in termini di “mi piace/non mi piace”, ma di chi, dopo aver esplicitato il proprio “posizionamento” e restando ben consapevole di quanto il proprio non possa e non debba mai giungere ad un decreto di “valore assoluto”, sa di dover ampliare indefinitamente i confini del “letterario” o di ciò che viene spacciato per tale. Accade, infatti, che il critico d'arte o di letteratura che non voglia trincerarsi dietro il paravento della propria “autorità”, nello stesso momento in cui affronta l'opera o un testo, “sia costretto ad occuparsi anche di molte altre cose, e di un sistema di produzione di 'valori', di incanalamento dei 'piaceri', di fabbrica dei desideri e degli investimenti”. Il critico, insomma, dovrebbe esser capace di sviscerare le “minutaglie” e, al contempo, “saltare verso l'orizzonte globale dei problemi che ci stanno a cuore e ci assillano da vicino”. Mai, dunque, dovrebbe “aver paura di parlare di sistemi produttivi, rapporti sociali o pratiche dell'immaginario”.
3.
Incluso fra i sistemi produttivi, i rapporti sociali e le pratiche dell'immaginario, dovremmo considerare anche il darsi da fare ai fini della propria autorappresentazione. Mi offre il destro di un esempio illustre, un saggio particolarmente aguzzo nella documentazione quanto schiscio nel tirar conclusioni del filologo spagnolo Francisco Rico dedicato a Francesco Petrarca. Sarà stato anche il “fondatore dell'umanesimo” – cosa che non ho mai capito bene in che consista – e sarà pure uno dei “Padri della Patria”, ma, sinceramente, andrebbe anche detto che non solo “qualche” ma parecchi aspetti della sua vita, “letteraria” e non, lasciano a desiderare. Ne butto lì qualcuno. Petrarca vive di protettori importanti che poi tradisce, prende gli ordini sacri e diventa canonico ma lo fa per mera sete di prebende, sulla sua vita sessuale se ne sa pochino, ad accudire decentemente il figlio Giovanni non ci pensa neppure: la sua vita è tutta tesa “ad posteritatem” e farebbe carte false – e le fa – pur di essere incoronato “poeta”. Politicamente, poi, credendo fermamente nelle virtù salvifiche dell'“uomo solo” – un uomo “capace di porre rimedio con pugno di ferro al disastro presente” –, è nemico di ogni forma di repubblica. E, infine, c'è la questione dei venerdì.
Di venerdì – come usavano i religiosi di un tempo – digiunava e rivedeva i propri scritti – e non abbiamo motivi per dubitarne –, ma di venerdì, falsificandone i dati relativi, fa anche cadere la morte del figlio. La sua famosa ascesa al Mont Ventoux sarebbe avvenuta di venerdì, ma ci sono vari motivi perfino di dubitare che sia mai avvenuta. Di venerdì concepì l'Africa che gli valse l'alloro cui teneva tanto (fino al punto di coltivarlo, a Milano, con pessimi risultati). Di venerdì gli torna misteriosamente il “codice Virgilio” che gli era stato rubato. Di venerdì – e qui siamo ad un punto cruciale – incontra Laura, la fantasmatica donna di cui canta l'amore qua e là e, soprattutto, nel celebratissimo sonetto CCXI che, sia detto di passaggio, corregge e risistema per la bellezza di 42 anni – l'incontro avviene il 6 aprile del 1327 e il sonetto è da lui rifinito nel 1369. Peccato che il 6 aprile di quell'anno fosse un lunedì. A detta di Rico, Petrarca aveva avuto la furbizia di non datare con l'anno le proprie lettere e, dal momento che anche “le date fornite nel Canzoniere e nella nota obituaria di Laura non possono essere conciliate fra loro, e tanto meno è possibile collocarle tutte quante nel calendario storico”, ai posteri rimangono a disposizione, in alternativa, una molteplicità di cronologie strategicamente escogitate ai fini di un unico progetto di autoincensamento – peraltro, perfettamente andato in porto, vista e considerata la riverenza di quella stessa posterità che avrebbe dovuto cadere nella trappola.
Attribuito un valore simbolico al venerdì, insomma, ecco che tutto quanto di notabile e di esportabile nel tempo storico capita nella vita del Poeta non può che capitare di venerdì. Ora, se queste sono le tracce di un sistema produttivo di “valori” – e lo sono, tracce ben visibili, fin imbarazzanti –, e se questo sistema, come dice Muzzioli, ha a che fare con i rapporti sociali e con le pratiche dell'immaginario del suo tempo – e sicuramente l'ha a che fare –, oltre che da piangerci sopra, c'è da interrogarsi sulle lacune che hanno caratterizzato tutte le analisi condotte fino ad ora sui testi petrarcheschi nonché su quello che vorrei definire come il loro stato di apparente necessità.
Di certo, chi si è dato da fare per costruire il “valore Petrarca” è riuscito a tagliar via parecchio dal corpo complessivo delle informazioni disponibili e, altrettanto di certo, ha saputo alleviare i propri strumenti retorici, la propria “politicità” e la propria “criticità” fino ad un grado ben lontano dall'“integralità”. Diciamo che, a occhio e a naso, tutti costoro – critici, antologizzatori, classificatori delle espressioni umane, estetologi – hanno percepito il vento che tirava e, conseguentemente, si sono orientati – prostrati di fronte al Potere e accoglienti, pertanto, nei confronti delle autorappresentazioni di chi quel Potere, reiterandolo, ha febbrilmente servito.
4.
Non vorrei che l'esempio possa essere ritenuto vetusto e vincolato allo stato dei rapporti sociali dell'epoca, ma, per mia fortuna (diciamo così), ho pronto anche l'esempio di un Petrarca o aspirante tale contemporaneo. Leggo, infatti, Vita quasi vera di Giancarlo Majorino a duplice firma del Giancarlo Majorino medesimo – che evidentemente preferisce tener sotto diretto controllo la propria biografia – e di Laura Di Corcia (La Vita Felice, Milano 2014) e mi ritrovo alle prese con un'altra miriade di stratagemmi dell'autorappresentazione. Un esempio può esser quello della definizione del proprio posizionamento politico. Con la saggezza del poi, Majorino provvede a precisare che “il Sessantotto” non lo “convinceva fino in fondo”; che per “loro” (i sessantottini) non contavano l'arte e la letteratura, ma il cambiamento della società” e che questo costituiva una “debolezza”; che ha sempre “apprezzato” gli “ideali di sinistra”, ma che “non aveva senso essere un 'poeta di sinistra'“; che lui non ha “mai fatto calcoli politici nelle scelte estetiche” e che “gli eccessi di ideologia” di un Franco Fortini lo lasciavano “perplesso”. Altri esempi di risistemazione a posteriori del proprio passato pro poetica domo sua non mancano, ma uno su tutti può dare un'idea dell'abilità tecnica necessaria a questa tipologia di scopi.
Nel libro si dedica alcune pagine alle riviste cui Majorino (con altri) ha dato vita. Fra queste “Manocomete”, che uscì in soli tre numeri tra il giugno del 1994 e il dicembre del 1995. Trascrivo: “C'erano molti collaboratori, fissi e non, fra cui, oltre a Giancarlo Majorino che dirigeva, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Luciano Amodio, Giorgio Majorino, Edoardo Proverbio, Nanni Cagnone, Angelo Lumelli, Giancarlo Pontiggia, Rina Li Vigni Galli, Franco Loi, Giorgio Cesarano e Andrea Inglese”. Bene, avendo partecipato a tutte le riunioni preparatorie di questa rivista, potrei testimoniare che di alcuni di costoro – Bertolucci, Cagnone e Pontiggia, per esempio - mai neppure si vide l'ombra. Ma anche senza la mia testimonianza sarebbe stato ben difficile partecipare a qualsiasi titolo dell'impresa a Vittorio Sereni e a Giorgio Cesarano, perché il primo è morto nel 1983 e il secondo addirittura nel 1975. Sarebbe stato anche sufficiente – e, data l'esiguità del pubblicato, poco faticoso - dare un'occhiata agli indici della rivista: biografa e autobiografo si sarebbero resi conto che di Bertolucci, Sereni, Cagnone, Pontiggia, Li Vigni Galli e Cesarano la rivista non ha mai pubblicato neppure un testo. Non solo: consultando gli indici della rivista avrebbero potuto constatare che soltanto sei persone hanno collaborato continuativamente alla rivista pubblicando in ogni numero – Giancarlo e suo fratello Giorgio Majorino, Franco Romanò, Giuseppe D'Arrigo, Luciano Amodio e il sottoscritto che sta facendo le pulci a questa pattumiera. La funzione di quei nomi, allora, diventa chiarissima: inventati di sana pianta, sono lì a dar lustro al Poeta, a garantire delle sue frequentazioni ed a consolidarne il valore nei secoli dei secoli.
5.
Non tutto, nel libro di Muzzioli, è rose e fiori, beninteso. Il suo è uno sforzo cospicuo di venir fuori da quel pantano immondo in cui l'estetica risulta funzionale ai rapporti di potere ed alla gerarchizzazione delle relazioni umane, ma per uscirne davvero e per sempre occorrerà andare alla radice delle questioni e, dunque, alla filosofia e alla sua “teoria della conoscenza”. Un esempio di questa sorta di “fragilità critica” è per me quello delle varie discussioni novecentesche sul “realismo” in letteratura: perché mai rivangarne i termini quando questi ripetono – più o meno diligentemente, e più confusamente – quelli che hanno caratterizzato il dibattito epistemologico da Platone in poi? Diciamo che qui, Muzzioli – forse in un contraddittorio ossequio ad un “letterario” confinato – scantona.
E tuttavia, trovatosi di fronte al questuante letterario, Muzzioli la pensa esattamente come me. Dopo aver combattuto tutta la vita contro una visione consumistica e piamente consolatoria della letteratura, la domanda di chi gli sottopone i suoi parti creativi lo “costringe a rientrare nei ranghi”, gli riassegna un potere di cui sa ogni vanità e che mai vorrebbe avere, lo rinomina “funzionario di quel sistema” che avrebbe voluto contestare o, almeno “incrinare un poco”.
Felice Accame
Nota
Un colpo di pistola nel concerto di Francesco Muzzioli
è stato pubblicato da Odradek, a Roma, nel 2016. In questa
stessa rubrica, dell'autore mi ero occupato già a proposito
del suo Quelli a cui non piace (Meltemi, Roma 2008).
Cfr. F. Accame, Quelli
a cui piace e quelli a cui non piace, in “A”,
360, 2011. I venerdì del Petrarca di Francisco
Rico è pubblicato da Adelphi, Milano 2016.
|