società
Populismo. Perché contro
di Francesco Codello
C'è stato, nell'800, il populismo russo, un movimento che voleva andare “verso il popolo”. Poi nel '900 la parola ha iniziato a indicare quei movimenti che oggi hanno in Salvini, Trump, Le Pen alcuni noti esponenti. Ma non basta essere contro. Bisogna anche cercare di comprendere perché si sviluppino. Per poterli meglio combattere.
L'espressione populismo
è ormai forse quella più usata nel dibattito politico
non solo italiano ma internazionale. Risuona sistematicamente
nei dibattiti televisivi, caratterizza sempre più una
critica “politicamente corretta”, si espande nei
media in modo progressivo, è divenuta insomma una vera
e propria categoria interpretativa. Ma che cosa significa, quali
sono le caratteristiche peculiari, a che significati rimanda,
quanto contiene giudizi negativi o addirittura valutazioni sprezzanti,
insomma che valori veicola?
Mi pare interessante interrogarsi su tutto questo, andare a
scavare nella sua etimologia, coglierne la genealogia, svelare
i presupposti ideologici che contiene. Non si tratta di un esercizio
accademico, o peggio di una sofisticazione per alzare un polverone
di indeterminatezza concettuale, ma questa riflessione mi appare
utile per svelare proprio le componenti ideologiche che la determinano
nella discussione culturale e politica.
La parola populismo, così ci spiega il dizionario,
nasce come traduzione dal russo di narodni estvo, così
veniva definito, nella seconda metà dell'ottocento, un
movimento di giovani intellettuali russi (i narodniki,
«populisti»), caratterizzato da una certa idealizzazione
delle masse popolari contadine, tra le quali intendevano diffondere
il loro messaggio rivoluzionario, in senso socialista (per un'analisi
approfondita e iniziale del fenomeno rimando alla fondamentale
opera di F. Venturi, Il populismo russo, 1972).
Pertanto,
mi viene da sottolineare subito che, per un militante anarchico,
essere appellato come populista è un aspetto positivo,
nel senso cioè che sicuramente l'anarchismo russo (ma
non solo) trova le sue radici anche in questo movimento rivoluzionario,
seppur considerato tra le sue ingenuità e contraddizioni.
Infatti, assumere come interlocutore della propria visione rivoluzionaria
il popolo, vale a dire gli uomini e le donne che sono esclusi
dalle condizioni di uguaglianza e sono dominati da forme varie
di potere, appare inevitabile e corretto. Il problema, in questo
caso, inizia laddove avanguardie intellettuali (autoproclamatesi
tali) tendono a sovrapporsi gerarchicamente andando a determinare
nuove forme di dominio. Questo però è un tema
che ben conosciamo e che ha avuto nel pensiero anarchico classico,
e anche in quello contemporaneo, numerosi approfondimenti.
Cogliere le dinamiche relazionali
Quello che interessa maggiormente adesso è invece riflettere sul significato
che questo termine ha assunto nelle nostre società, svincolandosi
completamente dalle sue origini concettuali. Questa denominazione
si applica infatti a dottrine politiche differenti che hanno
però in comune un riferimento al popolo considerato come
un aggregato omogeneo e come depositario di valori positivi
che devono pertanto essere accolti a prescindere. A partire
da Peron in Argentina, fino a Trump negli Stati Uniti, solo
per fare due esempi collocati storicamente in epoche diverse,
per arrivare agli attuali europei come Le Pen o Salvini e Grillo
o Erdogan, e molti altri ovviamente, appare sempre più
ovvio e scontato diffusamente, nonostante le differenze che
pure esistono, definire populisti leader politici come questi.
Ma chi definisce e apostrofa populisti altri da sé, appartiene
spesso a una élite tecno-burocratica e finanziaria, a
un ceto politico ben preciso, a una casta di privilegiati e
talvolta spocchiosi intellettuali che nei fatti governano il
mondo. Dall'altro lato è evidente che a questi squallidi
personaggi politici “populisti”, del popolo e dei
suoi reali bisogni e interessi non frega proprio nulla, impegnati
come sono a garantirsi un posto di primo piano nello scacchiere
del potere.
Detto questo ciò che appare interessante è cogliere
le dinamiche relazionali che avvinghiano i leader politici e
il cosiddetto popolo, per comprendere come attraverso l'uso
(distorto) di una parola, si veicolino messaggi culturali di
grande portata. Populista allora diventa un termine dispregiativo
da un lato, dall'altro una rivendicazione di autenticità
e di sintonia diretta. In entrambi i casi, drammaticamente,
si tratta sempre di volontà di governare e di sottomettere,
in modo elitario da un lato, in modo falsamente rappresentativo
dall'altro. Infatti, o il popolo è troppo ignorante e
quindi bisogna guidarlo, oppure è autentico e quindi
è necessario rappresentarlo e demagogicamente ascoltarlo.
Alla fine il risultato non cambia.
Ma questo popolo intanto ha perso il significato più
autentico e valoriale trasformandosi piuttosto in una massa
o folla (sarebbe interessante approfondire anche questi
concetti). L'omogeneità che in qualche misura era propria
del popolo ottocentesco, portatore di una propria cultura autentica,
depositario di pratiche di sostegno e di relazione fortemente
legate a valori condivisi, oggi non esiste più. I processi
politici e ideologici sempre più estranianti hanno corrotto
lo stimolo di principi originariamente democratici, trasformando
gli uomini e le donne in esseri spesso in balia del demagogo
di turno, schiavi di nuove forme di dominio che passano attraverso
nuovi strumenti di creazione del consenso, di indottrinamento,
di pubblicità. La post-democrazia si regge ormai su un
distacco crescente tra manipolatori e manipolati. Quando il
bisogno dilagante di riconoscimento si sostanzia nell'esprimere
i vari “mi piace” o nell'apparire effimero e ossessivo
alimentato da una comunicazione delirante, chiaramente si esprime
una pochezza e un abbrutimento preoccupante.
Da un altro punto di vista però è anche vero che
lo spettacolo desolante offerto dalle élite mondiali
e locali, l'ostentazione della voracità e dell'accumulo
di ricchezze, il tasso di privilegi e di garanzie infinite che
gridano vendetta agli occhi di chi non riesce a mettere insieme
pranzo e cena (o peggio non ha neanche la possibilità
di accedere al cibo), giustifica e fa comprendere questo senso
diffuso di rabbia e di rivolta. Ma è proprio qui che
entrano in gioco gli imbonitori e i demagoghi e quindi un vero
e radicale cambiamento in senso egualitario viene rapidamente
smontato e negato, seppur in nome del popolo. Il recente voto
referendario inglese che ha prodotto la brexit, i risultati
elettorali che hanno portato Donald Trump ai vertici degli Stati
Uniti, hanno svelato in pieno una rabbia repressa che non è
stata prevista e considerata dai media specializzati, che però
veri e propri demagoghi hanno saputo cavalcare.
Se
da un lato esistono ragioni locali dietro l'ascesa dei nuovi
nazionalismi, delle nuove forme di razzismo e di violenza, è
pur vero che questo fenomeno ha una dimensione planetaria. Il
“populismo”, che dovremmo adesso chiamare piuttosto
col termine “demagogia”, costituisce una nuova evidente
categoria politica che si sostanzia in nuove leadership in ascesa
verso la conquista del potere.
Impresa difficile
Ma non dobbiamo mai scordarci che anche questi fenomeni poggiano su basi di reale ed evidente sofferenza e rabbia di settori sempre più estesi della società. L'atteggiamento peggiore che è stato assunto, di fronte a questa realtà sociale, è stato proprio quello di una certa (ma influente) area di intellettuali, di garantiti privilegiati, di altezzosi (nell'intimo) e “progressisti” commentatori, che mal sopportano le contraddizioni e le spesso viscerali lamentele o rivolte popolari. Con questo non si intende certo sublimare e idealizzare un “popolo” che, come abbiamo visto, per certi aspetti non è più una realtà specifica e caratterizzata.
Non c'è via d'uscita allora? Sicuramente l'impresa è difficile, anche perché i mezzi a disposizione sono mostruosamente impari. Inoltre non c'è dubbio che una mutazione in senso libertario della società è difficile anche perché richiede un lavoro di decondizionamento prima di tutto su se stessi, poi anche un impegno notevole di energie e di disponibilità. Questo cittadino medio oggi è viziato da un costume diffuso che non ne favorisce certo un'emancipazione. Ma, senza essere scioccamente ottimista, credo che, scavando continuamente come le talpe, sotto la coltre, in profondità, possano crescere, come sono già discretamente diffuse, pratiche di solidarietà, prefigurazioni approssimative ma indispensabili, sperimentazioni, lotte e resistenze, sempre più estese.
Accanto a questo lavoro continuo, tra sconfitte e parziali successi, riprendendo quel costume insegnatoci da Paul Goodman di «tracciare il limite», imparare cioè a dire di no, a non essere disponibili ad andare oltre una certa soglia di compromesso nella nostra vita quotidiana, possiamo provare a cambiare veramente questa società in senso libertario.
Ma abbiamo bisogno di una visione, di un progetto, di un sogno. Abbiamo necessità di riscaldare i cuori, di far intravedere altre vie, altre possibilità, di ipotizzare soluzioni. Abbiamo bisogno insomma di coniugare costantemente il qui e ora con qualche cosa che lo trascenda a favore di un'utopia, seppure ovviamente non chiusa e soffocante, ma necessariamente viva.
Francesco Codello
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