...e sempre allegri
Le canzoni di Dario Fo raccontate da Giangilberto Monti
Un Fo dariocentrico
“Millenovecentosessantadue,
iniziamo da cinquantacinque anni fa... questo geniaccio comico,
che ha già rinnovato il teatro di rivista italiano, che
canta le sue macchiette surreali ma che ha già scritto
per altri canzoni anche serie, che ha ottime capacità
mimiche e uno scilinguagnolo come pochi, che certo è
un po' troppo in odore di sinistra per i canoni dell'epoca,
viene chiamato a fare il varietà popolare per eccellenza
della RAI televisione a canale unico, “Canzonissima”.
Con lui c'è Vito Molinari – anzi, quest'aneddoto
me lo ha raccontato proprio lui – che di quel periodo
è il massimo testimone, oltre ad essere uno dei più
famosi registi, presente sin dal primo giorno di messa in onda
della televisione italiana. Si trovano in una stanza e si apprestano
a scrivere la prima puntata di Canzonissima. Dario comincia
a dire “si parte con una bella sigla, una sigla come si
fanno le sigle, una sigla Pop, con le ballerine, io canto questa
canzone, che in realtà è un po' provocatoria,
ma scherzosa, e che sto appunto scrivendo con Fiorenzo Carpi”
– E Vito Molinari pensa “vabbé” –
“Poi... beh, poi partirei subito con un bello sketch,
uno sketch mio dove parliamo delle cose che accadono tutti i
giorni, sugli operai, gli scioperi, le cassintegrazioni, così
facciamo una cosa legata al mondo di oggi per scuotere un attimo
questo ambiente di paillettes e lustrini” - e Vito pensa
“vabbé” - Dario continua “Poi farei
fare un bello sketch anche a Franca... magari una cosa musicale
scritta da me, lei comincia a cantare, poi mi aggiungo io...
mmm, adesso Vito non saprei come far proseguire lo spettacolo.”
E Molinari, serafico, “Dario, visto che si chiama Canzonissima
magari ci mettiamo un cantante con una canzone sua?”.
Insomma Fo era alieno da ciò che non fosse Dario-centrico”.
Dario Fo è morto da qualche mese e gli omaggi si moltiplicano,
com'è naturale per un artista di tale caratura e fama.
Nessuno finora aveva raccontato il mondo musicale di questo
artista, le canzoni che contrappuntano tutto il suo teatro,
che a volte ne prescindono assumendo una dimensione autonoma.
Chi meglio di un altro musicista poteva farlo?
E così Giangilberto Monti – cantautore milanese
molto legato al mondo del teatro e del cabaret, con un penchant
per la canzone francofona e per Boris Vian in particolare –
ha appena pubblicato per Giunti uno strano libro che non è
né un canzoniere – ovvero una raccolta di testi
– né un saggio, bensì una sorta di biografia
di Dario Fo raccontata attraverso le canzoni.
Giangilberto Monti – In un certo senso Dario Fo
– oltre che l'ultimo italiano a prendere il Premio Nobel
per la letteratura – è stato il primo cantautore
a vincere il Nobel, vent'anni prima di Bob Dylan. Ricordarselo
non è solo un orgoglio nazionalistico o professionale,
ma un modo per riscoprire un mondo musicale che è sconosciuto
o quanto meno poco valutato. Io nel 1999 feci un recital con
le canzoni di Dario, 40 canzoni messe in scena con Laura Fedele,
un recital di sole canzoni senza una parola – che per
chi conosce il mio lavoro e quello di Dario sembra una cosa
assurda – ma volevo proprio fare un omaggio al talento
di qualcuno che considero un grande autore. Sulla base del materiale
raccolto per questo spettacolo ebbi l'intuizione che sta alla
base del libro – ovvero che questo mondo musicale fosse
vastissimo e meritasse un'attenzione autonoma rispetto al mondo
del teatro e della scrittura che erano ben rappresentati in
tanti altri libri. A un certo punto si è acceso quest'interesse
della Giunti, allora l'ho scritto abbastanza in fretta come
una sorta di racconto.
Alessio Lega – Infatti è un bel romanzo che
si basa sulla realtà, dove però si percepisce
anche la tua passione per le gag, per il parlato che irrompe
continuamente, insomma, ti si riconosce spesso come autore che
non è rimasto intimidito dal grande mito di Fo.
Come tutti coloro che vengono dal palcoscenico ho sempre –
anche quando scrivo – il terrore che il lettore si addormenti
sulla sedia, quindi cerco un mio ritmo, come se anche la scrittura
fosse uno spettacolo dal vivo.
Il rapporto coi maestri è sempre un rapporto complesso,
perché i maestri ti aprono delle finestre, ma bisogna
anche sapersene allontanare per trovare una propria strada autonoma.
Anche Dario Fo ha avuto degli ispiratori, se non proprio dei
maestri, notoriamente Jacques Lecoq per il mimo e Jacques Tati
in un certo senso per i movimenti. Dario era una carta assorbente,
con una capacità di impadronirsi di una molteplicità
di stili con cui veniva in contatto.
I primi contatti
Quando ebbi i primi contatti con Dario era forse il 1981, non
avevo ancora inciso “Guardie e ladri”, il mio disco
se vuoi più riuscito sia come esiti produttivi che artistici,
venivo quindi da un primo sperimentale periodo come cantautore
classico a Milano, però già studiavo teatro e
per me lui era il “Maestro” in senso rinascimentale,
ovvero colui che ti poteva insegnare l'arte della scena. Dario
era anche il Maestro perché era la fonte principale di
ispirazione dei due filoni che da sempre costituiscono il teatro-cabaret
milanese – Gaber da una parte e Jannacci dall'altra –
tutto veniva e confluiva in lui, tutto ciò che era successo
a Milano, dagli anni '60 in poi, io avevo scoperto che veniva
da lui, dalla sua testa, presenza, arte... quindi andare a lavorare
con lui per me significava arrivare alla fonte di tutto.
Era già diventato un'icona per il movimento antagonista,
però aveva appena chiuso con tutta l'esperienza dei Collettivi
e ricostituito, dopo tanti anni, una vera compagnia teatrale,
riannodando i fili con ciò che faceva ai suoi esordi,
commedie e farse, e aveva scritto “Claxon, trombette e
pernacchie”. È allora che io andai a fare il primo
provino con lui, e lui mi cacciò letteralmente di casa
per il mio accento milanese, ci riprovai ancora dopo sei mesi...
e insomma ho finito per lavorare con lui un annetto: ho passato
tutti i giorni di questa stagione teatrale a contatto dalla
mattina alla sera con quest'uomo che da quando si svegliava
era già in teatro o scriveva... Quanto a imparare, lui
non aveva la minima intenzione di insegnare alcunché,
e quando gli si chiedeva qualcosa il massimo che ti rispondeva
era “guardami”.
Negli ultimi anni faceva dei seminari, ma erano finti, erano
una balla: erano degli spettacoli per allievi, con degli episodi
assurdi dal mio punto di vista: un giorno arrivo in teatro e
c'era una quinta che stava cadendo e lui mi fa “come,
non sai aggiustare una quinta che cade? Allora sei scemo, non
sai niente di teatro...” “Ma Dario, quello lo fa
il macchinista!” “Appunto, tu devi imparare a fare
anche il macchinista.”
Il bello di questo romanzo-biografia-musicale è
il fatto che ne emerga un personaggio fortemente centrato e
accentratore, ma che sia anche un racconto multiplo, con molte
voci, piuttosto corale. Non una, ma diverse moltitudini circondano
Dario Fo, sin dai suoi esordi.
Dario non è mai stato solo – a parte il fatto che
non si può parlare di lui disgiungendolo da sua moglie
Franca Rame – lui esercitava una grande fascinazione,
aveva una grande capacità di trascinare le persone attorno
a sé. È stato senz'altro un grande artista, ma
sarebbe potuto essere un leader politico. In Italia in molti
si sono stupiti che lui conseguisse il Nobel, ma all'estero
– e soprattutto nel mondo nordico e in Francia –
questa cosa non è mai stata contestata: ancora oggi in
Italia si avanzano dei dubbi su qualcuno che è comunque
uno degli autori italiani più rappresentati all'estero.
È anche orribile che una città come Milano –
che è stata la mia città per anni e che è
molto presente nel lavoro di Dario – non gli abbia mai
affidato alcuna istituzione teatrale o culturale. Questo non
lo ha fatto nessuno di quelli che è passato per l'amministrazione
di questa città: né destra né sinistra.
Siamo proprio un povero Paese, di per ciò stesso destinato
a diventare un Paese povero.
Carpi – Jannacci – Ciarchi
Mi piacerebbe che tu delineassi continuità e differenze
fra quelli che sono stati i tre principali collaboratori musicali
di Dario Fo: Fiorenzo Carpi, Enzo Jannacci e Paolo Ciarchi.
Fiorenzo Carpi era il musicista a teatro, quindi la composizione che si costruisce e incolla sull'azione scenica, come una colonna sonora. Il compositore scrive sul testo la sua propria musica, rispetta il testo, rispetta il racconto, è una sorta di music hall che sta fra il magistero di Kurt Weill e quello di Gershwin. Per questo ci vuole un grandissimo compositore, capace di aggiustarsi ritmicamente su un testo, di seguire e tenere assieme tutte le linee, moltissime di queste canzoni sono tratte dagli spettacoli, quindi sono la continuazione di un certo racconto attraverso la musica.
Paolo Ciarchi rappresenta un periodo storico preciso, gli anni settanta, le canzoni all'impronta, che nascono – come per l'occupazione delle case in Via Tibaldi, o la morte di Saverio Saltarelli – da un fatto politico che scuote le coscienze, e la sera stessa è pronta la ballata: la scrittura insegue e riflette la realtà, si fa controinformazione.
Dietro questo stile c'è il canto di lotta, il cantastorie, l'esperienza mutuata dal grande studio per “Ci ragiono e canto”, dove la musica è condizionata dal criterio dell'urgenza, non dall'elaborazione stilistica del compositore. È importante lo spirito con cui si canta, che sia urlo o coro, è un inno o un canto liberatorio da osteria, dove ci si siede intorno a un tavolo si beve del vino e ci si diverte, è “Ho visto un re”.
Il terzo filone è quello jannacciano, e Jannacci-Fo sono come Mogol-Battisti, cioè nel loro caso uno più uno non fa due ma cinque. Loro due presi singolarmente sono un'altra cosa, anche eccelsa, ma loro due assieme moltiplicano le possibilità della canzone, che non è un piccolo atto teatrale e non è nemmeno la realtà che deve trovare il suo spazio in scena. La canzone di Fo e Jannacci è la canzone in quanto tale, un film di tre minuti dove testo e musica si compenetrano completamente.
Aggiungo che Jannacci – col suo cantare stralunato
– era sulla carta meno vocalmente dotato dello stesso
Fo, che aveva una voce più allenata e duttile, mentre
quella di Jannacci era sgraziata, tutta urli e singhiozzi, ma
dava alle canzoni un sapore unico.
Una volta scritta la canzone – melodie armonie testo – bisogna interpretarla, Jannacci è la versione più surreale e più stralunata di Fo. Jannacci è un allievo perfetto di Fo, al quale Fo non ha insegnato nulla, ma lo ha spinto ad esagerare le sue caratteristiche insite. Quando molti anni dopo hanno provato a scrivere ancora qualcosa insieme, non hanno più ritrovato quella magia, perché ormai avevano esaurito il filone. La canzone succede in quel momento, in quella luce, quel bicchiere, quel tavolo... e allora bisogna avere la fortuna di essere entrambi lì. Per me il punto più alto della loro collaborazione è “Prete Liprando”, dove Jannacci è come se recitasse un monologo, ma lo fa diventare perfettamente jannacciano.
Una delle cose più coraggiose che fai è
valorizzare i collaboratori rimasti un po' nascosti nell'ombra
del monumento Fo. Jannacci non ne aveva certo bisogno, ma è
importante valorizzare il dimenticato Fiorenzo Carpi e soprattutto
valorizzare Paolo Ciarchi, che pur avendo lavorato con un genio
come Fo non si è di certo arricchito.
Lo dico con molta onestà, perché lo credo davvero, da una parte noi abbiamo un grande repertorio che Paolo Ciarchi ha scritto con Dario Fo e che per varie ragioni – non ultima la convinzione profonda che davvero la rivoluzione fosse alle porte, dunque non bisognasse attardarsi in burocraticismi – non è mai stato depositato. Io credo che sarebbe giusto che qualcuno degli aventi diritto vada alla SIAE a firmare un bollettino dove ci sia scritto: “Ho visto un re” di Dario Fo e Paolo Ciarchi, perché in questo modo si renderebbe giustizia a un lavoro, a una fatica, a un impegno, a una gioia, a una grande collaborazione e anche a una grande fiducia reciproca. Io credo che sarebbe giusto e che non ci sia niente di male a dirlo, perché questo non getta in nessun modo ombra sul lavoro e sulla grandezza artistica di Dario Fo, e forse non ingradisce la figura artistica di Paolo Ciarchi, ma renderebbe giustizia a un periodo. Non è una polemica, ma qualcosa che somiglierebbe a quell'accordo che Fabrizio de André fece con Enzo Jannacci su “Via del Campo” alias “La mia morosa la va alla fonte”.
In questo caso non può più farlo Dario... anzi
per me il dispiacere enorme che ha accompagnato l'uscita di
questo libro è proprio che io avrei voluto darlo a Dario...
ma non ho fatto in tempo... [e qui Giangilberto si commuove].
Beh, però il ragazzo se n'è andato a 90
anni, stando in scena fino a sei mesi prima... come dire, io
ci metterei la firma, W Dario Fo!
Alessio Lega
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