# Criptovalute e blockchain: catene di blocchi collettive?
## La crittografia, questa sconosciuta
Alla base di tutte le criptovalute più note, compresa la rete Bitcoin (bitcoin è la valuta, XBT), c'è la tecnologia crittografica della blockchain (catena di blocchi).
La crittografia, tecnica di derivazione militare, è tutt'altro che facile da usare e richiede un livello medio-alto di competenza tecnica. In quanto forma di sapere-potere specialistica, favorisce lo sviluppo di gerarchie di esperti più o meno affidabili, quindi delle forme implicite di tecnocrazia.
Altro aspetto problematico della crittografia è che si basa sul principio della crescita illimitata: con l'aumentare della potenza di calcolo e della velocità delle reti i sistemi crittografici devono farsi sempre più potenti mentre i vecchi “lucchetti” diventano rapidamente obsoleti. Un meccanismo di crescita-obsolescenza analogo a una corsa agli armamenti.
Per quanto come esercizio ci sembri interessante e utile, la crittografia come tecnica per organizzare la società è sostenibile quando è l'eccezione e non la regola, quando la motivazione è circoscritta a esigenze politicamente situate: ad esempio, minoranze oppresse in regimi dittatoriali. Altrimenti, nel contesto attuale, scivola facilmente nel consumo di massa dell'ennesimo prodotto tecnico immesso sul mercato, perde qualsiasi valore trasformativo, potenza di rottura e conflitto, viene “normalizzata” e diventa un automatismo irriflesso.
Esistono diverse tipologie di blockchain per registrare le transazioni delle diverse monete digitali crittografate. Ma al di là delle specifiche differenze, l'utilità di questa tecnologia sembra essere soprattutto quella di sostenere la proprietà privata senza la garanzia di Stati e altre istituzioni: il sogno dell'anarco-capitalismo che si avvera.
## Lo sfruttamento generale
Organizzare le società senza un'autorità centrale può avere senso solo se non facciamo finta di non sapere che la libertà è un processo di costruzione che passa dalla formazione delle nostre personalità e identità, delle nostre comunità. Un processo al tempo stesso culturale, etico ed estetico. Se la libertà coincide con la delega a un sistema automatico, diventa triste, ripetitiva compulsione.
L'esaltazione per le valute complementari e/o sostitutive, soprattutto digitali, quale possibile soluzione all'impoverimento diffuso, è esagerata. Soprattutto, non mette bene a fuoco il problema, che è sempre lo stesso: lo sfruttamento.
In generale, si registra uno spostamento del confine/limite di sfruttamento. Invece di eliminare le banche, ci facciamo le banche in casa, sul computer, sul telefono. Invece di abbattere il padronato, diventiamo padroni di noi stessi. Invece di abbattere la schiavitù, diventiamo servi aperti a tutte le “innovazioni”, e ci si deve star dentro sennò si perde il treno!
Invece di badare alla qualità delle relazioni, e alla libera scelta, le automatizziamo con gli smart contract: la quantificazione del vivente come orizzonte di senso delle pratiche tecno-digitali agite dalle (nuove) forme del capitalismo.
## Quando valutare significa mercificare
Quando si indica la soluzione ai problemi sociali nell'adozione di
valute complementari (che magari si vorrebbero sostitutive,
cripto o meno), si tende a identificare ogni cosa con uno scambio
mercantile. I rapporti sociali, le relazioni, la creazione e
il funzionamento delle società stesse si risolvono nel
mercato: si accetta implicitamente che tutto sia in vendita,
dentro o fuori dal corpo, relazioni interpersonali comprese.
Nel
caso specifico della rete Bitcoin, la produzione di moneta digitale
ricorda il classico schema nel quale i più avvantaggiati
sono i primi arrivati, perché con il crescere del numero
di nodi della rete aumentano le difficoltà di calcolo-produzione.
A ogni transazione la blockchain diventa più grande
(all'inizio del 2017, quasi 70GB di dati crittografati), e sono
necessari mezzi sempre più potenti per sobbarcarsi l'onerosa
attività di “scavare” nuovi bitcoin, ovvero
verificare le transazioni effettuate da altri membri della rete.
Si parla molto di “rapporto tra pari”, peer-to-peer,
ma nel corso del tempo la differenza tra coloro che creano-verificano
nuovi bitcoin, i miners (minatori), e i semplici utenti
si configura come una relazione gerarchica sempre più
asimmetrica, perché per diventare miner occorrono
sempre più macchine e sempre più potenti. Cresce
il consumo di risorse. Si sperimenta così un sistema
distribuito che fa a meno della fiducia tra le persone, e della
fiducia in un'autorità centrale (banche centrali in questo
caso). Ma la fiducia tra le persone è un elemento indispensabile
per la creazione di comunità. Non la comune fede nella
correttezza di una procedura algoritmica, la blockchain appunto.
Un altro elemento da evidenziare è che il sistema della
blockchain si basa su vari meccanismi di ricompensa per tutte
quelle operazioni di verifica necessarie per garantirne il funzionamento.
Operazioni svolte da miners o da intermediari creati
apposta (verifica dei blocchi, verifica della transazione, gestione
portafogli). Questi meccanismi di ricompensa sono quindi fondamentali
per questi sistemi di sicurezza decentrata senza autorità
centrale. Poco a che vedere con relazioni tra pari sbandierate
dai sedicenti promotori del peer-to-peer; ancora meno
con la solidarietà e il mutuo aiuto.
Le blockchain attualmente note non sono pensate, disegnate e
progettate per creare cambiamenti sociali, per il semplice motivo
che non mettono in discussione nessun assetto sociale pre-esistente.
Tanto il loro uso, quanto il loro “abuso”, il loro
hack. Il sistema è garantito dalla delega di fiducia
alla blockchain, che funziona per via delle ricompense
elargite (a miners/minatori in concorrenza fra loro!),
invece che dalla garanzia rappresentata dall'autorità
centrale. Il tutto è basato su tecnologia crittografica:
militare, tendenzialmente tecnocratica, sicuramente a crescita
illimitata.
## Andare alla radice
È divertente giocare e sperimentare la crittografia, può tornare utile in alcune circostanze, ma viviamo da molto tempo proprio nella cultura dell'utilitarismo, di ciò che è funzionale alle nostre società contemporanee, basate sul profitto. Pensare che i nostri problemi possano essere gestiti e risolti da una tecnologia informatica, vuol dire essere degli ingenui che sottovalutano il potere dei grandi capitali di avvantaggiarsi di qualunque avanzamento tecnologico a partire (almeno) dalla prima rivoluzione industriale. Vuol dire affidarsi a strumenti di gestione tecno-politica senza capire che la vita politica è l'esercizio stesso su cui si basa ogni autonomia e ogni autogestione.
Vuol anche dire non aver compreso che i rapporti tra pari (e su questo invitiamo tutti alla lettura dell'VIII e IX libro dell'Etica Nicomachea di Aristotele, ossia le pagine dedicate all'amicizia) si basano sulla costruzione della fiducia reciproca, il riconoscimento e la valorizzazione delle proprie e altrui differenze. Solo così può avvenire una trasformazione sociale radicale. Non mediante la delega a un automatismo tecnico.
Il dominio del capitale si esercita come violenza epistemica, regime di verità incontestabile, nel luogo in cui codice ideologico e codice informatico sono tra loro connessi. Appena si gratta la superficie delle parole usate dai fieri tedofori della crittografia come panacea di tutti i mali, anche della crisi economica, emerge tutta una retorica anarco-capitalista volta a sostenere la presunta irriducibilità della proprietà privata. È un discorso sostanzialista che vuole normare, naturalizzandolo, il solito ammuffito desiderio egoistico del maschio bianco (ma non solo), col fucile spianato. Allora la priorità diventa demolire questa narrazione tossica. Evidentemente oggi dire queste semplici cose significa andare alla radice della questione, ovvero essere radicali.
Ippolita
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