rivista anarchica
anno 47 n. 416
maggio 2017






Servire i barbari

Mia figlia grande vive in Francia.
È quella di mezzo tra i tre rampolli di famiglia, e ha totalizzato 24 anni d'età.
Credo che la cosa sia definitiva, e comunque in Italia non credo proprio che tornerà, specialmente dopo che uno dei nostri ministri – quello del Lavoro, per la precisione - si è rallegrato per la fuga dei nostri giovani cervelli, col supporto fisico che li accompagna. Meglio perderli, dice Poletti, perché c'è “gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.
Forse mia figlia fa parte di questa allegra compagnia di turbatori della quiete pubblica, pretenziosi poco più che ventenni che seguono rotte migratorie anche loro, non in cerca di una salvezza fisica, ma per certo – data l'atmosfera qui – per desiderio di riscatto simbolico.
Poletti ha ritrattato, spiegato, rimodellato le sue parole, ma temo che la sua linea di pensiero non sia solitaria. Consiglio uno sguardo all'editoriale di Feltri pubblicato il 7 marzo 2017 su un giornale – anche se mi fa un po' impressione chiamarlo tale – nazionale, a firma di un “giornalista” – e le virgolette non sono accidentali – di frequente invitato in TV a esprimere opinioni che dice documentate su ogni cosa. L'articolo si intitola, con raffinata sottigliezza retorica, “Italiani via, dentro i neri”: prima pagina, sintassi ridotta all'essenziale (così che tutti possano capire), concettualizzazione assente, lettere cubitali, prima pagina. Nelle primissime righe si legge: “I connazionali che gradiscono mescere birre e vino preferiscono farlo a Berlino o a Londra, almeno imparano lingue ostrogote e sono felici di non conversare in pugliese o napoletano. Capirai che soddisfazione”. Penso a mia figlia, ai suoi amici, ai miei studenti e a quelli degli altri, agli attivisti che stanno cercando di cambiare il mondo, come si fa a vent'anni e come qui in Italia mi pare che pochi riescano a motivarsi a fare. E cerco di vedermela, mia figlia, a mescere birra mentre “parla ostrogoto”, lei che a tre anni, fastidiosamente, correggeva i termini impropri agli adulti.
Poi mi viene in mente Nino Manfredi, in quello strepitoso racconto di non-integrazione di un italiano in Svizzera, che così tanto somiglia alle vicende dei migranti di oggi. In Pane e cioccolato (F. Brusati, 1973), Nino aspetta un permesso di soggiorno che non arriva mai e per il quale è pronto a fare ogni cosa. Ogni lavoro va bene, gli scrupoli morali non esistono e l'obiettivo è chiaro. Solo alla fine, con i capelli tinti di biondo e dopo aver tentato pateticamente di comunicare con una donna tedesca in una lingua mista che per certo rientra nella categoria inventata da Feltri, Nino scatta in piedi quando, nella partita di calcio in onda in TV, la squadra italiana segna. Il migrante non resiste e torna alla sua appartenenza. “So' italiano, embè?”. Appunto.

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E a questo punto, penso a me stessa e al mestiere che cerco di fare. È un piacere scoprire, dai giornali, che insegno una lingua “ostrogota” in università, e anche che i giovani che lavorano nei bar di Berlino o di Londra sono pugliesi o napoletani e non conoscono altra lingua che il loro dialetto locale. Vorrei chiedere a Feltri quante lingue, ostrogote e non, è in grado di parlare con correttezza e autonomia sufficiente a comunicare senza interprete con un collega straniero. E mi piacerebbe anche non dovermi vergognare di essere italiana quando sento molti dei nostri ministri o presidenti del consiglio raffazzonare frasi scorrette in un “ostrogoto” inascoltabile. E sarei felice, infine, davvero felice se questo paese fosse in grado di accettare la colorata differenza delle lingue, delle tradizioni, delle religioni, dei cibi che fanno parte del mondo. E patisse il fatto di non conoscere altre lingue e altri mondi, invece di andarne fiero.
Migrare – per i nostri ragazzi come per chi arriva a Lampedusa o sulle coste della Sicilia – è una scelta che ha conseguenze. Sebbene con destini completamente, anche tragicamente diversi, anche chi arriva su un barcone deve affrontare il primo radicale problema dell'impossibilità di comunicare. Deve rimodellare il suo mondo attraverso una lingua diversa. Trovare una nuova appartenenza per raccontarla in un nuovo linguaggio. Imparare è un processo di crescita, del quale evidentemente alcuni giornalisti e alcuni politici, nel nostro paese, sono consapevoli. Ma questa è un'altra storia, della quale tornerò a parlare.

Nicoletta Vallorani