Servire i barbari
Mia figlia grande vive in Francia.
È quella di mezzo tra i tre rampolli di famiglia, e ha
totalizzato 24 anni d'età.
Credo che la cosa sia definitiva, e comunque in Italia non credo
proprio che tornerà, specialmente dopo che uno dei nostri
ministri – quello del Lavoro, per la precisione - si è
rallegrato per la fuga dei nostri giovani cervelli, col supporto
fisico che li accompagna. Meglio perderli, dice Poletti, perché
c'è “gente che è andata via e che è
bene che stia dove è andata, perché sicuramente
questo Paese non soffrirà a non averli più fra
i piedi”.
Forse mia figlia fa parte di questa allegra compagnia di turbatori
della quiete pubblica, pretenziosi poco più che ventenni
che seguono rotte migratorie anche loro, non in cerca di una
salvezza fisica, ma per certo – data l'atmosfera qui –
per desiderio di riscatto simbolico.
Poletti ha ritrattato, spiegato, rimodellato le sue parole,
ma temo che la sua linea di pensiero non sia solitaria. Consiglio
uno sguardo all'editoriale di Feltri pubblicato il 7 marzo 2017
su un giornale – anche se mi fa un po' impressione chiamarlo
tale – nazionale, a firma di un “giornalista”
– e le virgolette non sono accidentali – di frequente
invitato in TV a esprimere opinioni che dice documentate su
ogni cosa. L'articolo si intitola, con raffinata sottigliezza
retorica, “Italiani via, dentro i neri”: prima pagina,
sintassi ridotta all'essenziale (così che tutti possano
capire), concettualizzazione assente, lettere cubitali, prima
pagina. Nelle primissime righe si legge: “I connazionali
che gradiscono mescere birre e vino preferiscono farlo a Berlino
o a Londra, almeno imparano lingue ostrogote e sono felici di
non conversare in pugliese o napoletano. Capirai che soddisfazione”.
Penso a mia figlia, ai suoi amici, ai miei studenti e a quelli
degli altri, agli attivisti che stanno cercando di cambiare
il mondo, come si fa a vent'anni e come qui in Italia mi pare
che pochi riescano a motivarsi a fare. E cerco di vedermela,
mia figlia, a mescere birra mentre “parla ostrogoto”,
lei che a tre anni, fastidiosamente, correggeva i termini impropri
agli adulti.
Poi mi viene in mente Nino Manfredi, in quello strepitoso racconto
di non-integrazione di un italiano in Svizzera, che così
tanto somiglia alle vicende dei migranti di oggi. In Pane
e cioccolato (F. Brusati, 1973), Nino aspetta un permesso
di soggiorno che non arriva mai e per il quale è pronto
a fare ogni cosa. Ogni lavoro va bene, gli scrupoli morali non
esistono e l'obiettivo è chiaro. Solo alla fine, con
i capelli tinti di biondo e dopo aver tentato pateticamente
di comunicare con una donna tedesca in una lingua mista che
per certo rientra nella categoria inventata da Feltri, Nino
scatta in piedi quando, nella partita di calcio in onda in TV,
la squadra italiana segna. Il migrante non resiste e torna alla
sua appartenenza. “So' italiano, embè?”.
Appunto.
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www.flickr.com/photos/gaia_d/ |
E a questo punto, penso a me stessa e al mestiere che cerco
di fare. È un piacere scoprire, dai giornali, che insegno
una lingua “ostrogota” in università, e anche
che i giovani che lavorano nei bar di Berlino o di Londra sono
pugliesi o napoletani e non conoscono altra lingua che il loro
dialetto locale. Vorrei chiedere a Feltri quante lingue, ostrogote
e non, è in grado di parlare con correttezza e autonomia
sufficiente a comunicare senza interprete con un collega straniero.
E mi piacerebbe anche non dovermi vergognare di essere italiana
quando sento molti dei nostri ministri o presidenti del consiglio
raffazzonare frasi scorrette in un “ostrogoto” inascoltabile.
E sarei felice, infine, davvero felice se questo paese fosse
in grado di accettare la colorata differenza delle lingue, delle
tradizioni, delle religioni, dei cibi che fanno parte del mondo.
E patisse il fatto di non conoscere altre lingue e altri mondi,
invece di andarne fiero.
Migrare – per i nostri ragazzi come per chi arriva a Lampedusa
o sulle coste della Sicilia – è una scelta che
ha conseguenze. Sebbene con destini completamente, anche tragicamente
diversi, anche chi arriva su un barcone deve affrontare il primo
radicale problema dell'impossibilità di comunicare. Deve
rimodellare il suo mondo attraverso una lingua diversa. Trovare
una nuova appartenenza per raccontarla in un nuovo linguaggio.
Imparare è un processo di crescita, del quale evidentemente
alcuni giornalisti e alcuni politici, nel nostro paese, sono
consapevoli. Ma questa è un'altra storia, della quale
tornerò a parlare.
Nicoletta Vallorani
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