rivista anarchica
anno 47 n. 417
giugno 2017


pacifismo

No alla guerra. Ma come?

di Andrea Papi


I venti di guerra soffiano sempre in varie parti del mondo. Ma l'era delle grandi risposte e manifestazioni popolari sembra finita. Superare il potere e i suoi schemi è qui proposto come premessa per la fine delle guerre.


Venti bellicosi sempre più irruenti e destabilizzanti spingono a temere l'arrivo dell'uragano: una guerra dalle conseguenze imprevedibili. Nessuno può sapere cosa effettivamente potrà succedere, ma i segnali di un'incombente degenerazione ci sono tutti. Ci sentiamo minacciati da tendenze nichiliste che ci sovrastano e, stimolati dai mezzi d'informazione, siamo quasi in attesa di una catastrofe globale per niente escludibile. Oltre l'abnorme armamentario a disposizione, molto lucrativo per i mercanti d'armi e portatore di una potenziale esagerata capacità distruttiva, come sempre sui nostri capi pende la spada di Damocle dell'arrogante follia di personaggi al potere, narcisisti ed egocentrici, nelle cui mani è concentrata una quantità sproporzionata di facoltà di decisione e imposizione.
Stiamo pagando lo scotto dell'illusione che fossimo entrati in un'era di pace. Di fatto, da quando si concluse la seconda guerra mondiale nel 1945, allora considerata la più devastante di tutte, non si è mai smesso di combattere, anzi si è continuato ininterrottamente. Da allora c'è sempre stata qualche parte nel mondo dove armi in pugno si contendeva l'egemonia di qualcosa, o politica, o economica, o religiosa, o militare, ecc. Per chi si vuol documentare in internet sono reperibili dati e cifre aggiornati su tutti gli aspetti della questione: la continuazione imperterrita dei conflitti bellici, ritenuta indispensabile per gli equilibri intercontinentali geopolitici ed economici.
Al momento in cui scrivo, il fulcro della bellicosità ha il suo epicentro nella parte nord dell'Asia. L'occasione di un imminente scatenarsi incontrollato delle muscolosità guerresche sembra esser fornito da atteggiamenti strafottenti e provocatori contrastanti.
Da una parte il signor Kim Jong-un, dittatore della Corea del Nord, nipote del “semprericordato” Kim Il-sung immortalato nella costituzione come “presidente eterno della nazione”, da lui fondata dichiarando di voler avviare una rivoluzione comunista. Da anni Kim Jong-un, come suo padre e suo nonno prima di lui, sta investendo enormi risorse per dotarsi di strutture militari di altissimo livello, ben fornito di un temibile apparato nucleare. Dichiarando che è in grado di contrastare ad ogni livello militare perfino la superpotenza USA, con ostentata presunzione il 15 aprile scorso ha mostrato al mondo la sua presunta potenza con un'ennesima parata militare, mentre da anni continua a sfidare l'occidente con reiterati test nucleari.
Di contrasto dall'altra parte gli atteggiamenti machisti e bellicosi di Trump, attuale presidente statunitense. Ha minacciato di attaccare la Corea del Nord se non porrà fine al reiterarsi dei test nucleari, dicendo di considerarli una sfacciata provocazione che disconosce il Trattato di non proliferazione nucleare. Lo stesso trattato che la Corea del Nord aveva sottoscritto nel 1985, da cui poi, sospettata di costruire ordigni atomici e rifiutando ispezioni, si era ritirata definitivamente nel 2001.

Il pacifismo scomparso

In questo spettacolo di “infantile virile contesa tra bulli politici”, che danno l'idea di voler smettere di giocare alla guerra per farla sul serio, si trovano direttamente coinvolti il Giappone, costretto a subire gli effetti radioattivi dei test atomici coreani che si svolgono in tunnel appositi nel mar del Giappone, e la Cina, storica alleata del “compagno regime comunista” nordcoreano, di cui è praticamente l'unica fornitrice di merci e beni di sussistenza. Il Giappone per ora sembra in parte rassicurato dal minacciato pugno di ferro trumpiano, mentre la Cina sta tentando una faticosissima mediazione pacificatrice, che però finora sembra destinata all'insuccesso.
Quest'area nordasiatica appare al momento il punto più preoccupante del mondo. Vi si stanno concentrando i pericoli più seri di probabile deflagrazione di un rovinoso conflitto nucleare. Ma non è l'unico punto attivo a livello bellico. Come ben si sa, il pianeta è disseminato di luoghi dove si combatte ferocemente, in particolare in Nord Africa, in Medio Oriente e lungo tutta la fascia di paesi islamici fino all'Afghanistan. Sono pure sempre in fibrillazione i paesi balcanici, seppur in questa fase sembrino acquietati. In questa sommaria elencazione non può mancare l'area occidentale, anch'essa sottoposta a un costante stillicidio, imprevedibile nelle sue singole manifestazioni, di quel fenomeno genericamente definito “terrorismo”, di cui la matrice più attiva e pericolosa è considerata il “fondamentalismo islamico”, pur esso definito in modo generico e approssimativo dall'incalzare mediatico.
Qui però non voglio soffermarmi sulle definizioni, né su una cronachistica, inevitabilmente superficiale, del bellicismo montante sopra appena accennato. Vorrei invece sviluppare una breve riflessione su un aspetto che può sembrare collaterale e marginale, che invece ritengo fondamentale per una completa comprensione dello sviluppo degli avvenimenti. Questa volta, di fronte ai molteplici fermenti guerreschi che incombono, non c'è opposizione e il pacifismo militante sembra scomparso, annichilito dalla crescente invadenza guerresca.

Sembra mancare ogni antagonismo

Inevitabili, almeno per me, ricordo e comparazione con quel lontanissimo 2003, quando a Roma a metà febbraio ci fu una manifestazione di circa tre milioni di persone contro la guerra in Iraq, in sintonia e concomitanza con milioni di manifestanti in tante altre città di tutto il pianeta. Allora si ebbe l'impressione che una parte consistente del mondo rifiutasse guerra e logica di guerra come strumenti di soluzione dei conflitti. Quel rifiuto pareva essersi trasformato in protesta attiva, nel tentativo di incidere efficacemente per porre fine ai cruenti rituali di morte che tutti i poteri da sempre prediligono sulla testa e la pelle dei popoli. La protesta non ebbe esito alcuno e inevitabilmente scemò.
Questa volta al contrario, almeno finora, non sta succedendo nulla, sembra mancare ogni antagonismo e le proteste hanno ammainato le loro bandiere. Anzi, c'è il sentore che aleggi un clima diffuso di resa allo strapotere dei signori della guerra. L'assenza delle opposizioni antimilitariste è come se gridasse, col suo silenzio, tutta l'impotenza, anzi la sconfitta, della voglia di pace. Purtroppo in cuor mio temo che stia affiorando qualcosa di molto più terribile: all'incontrario forme avanzanti più o meno larvate di consenso alle logiche di guerra, o non dissenso che in fondo è la stessa cosa. È come se la belligeranza in azione degli stati e delle varie forze guerrafondaie fossero una terrificante panacea per i mali avvolgenti il mondo.
Stiamo subendo il sopravanzare di culture, atteggiamenti, visioni e pratiche che, con un linguaggio forse considerato obsoleto, noi eredi di una sinistra radicale abbiamo sempre definito di destra. Manifestazioni di vario tipo che denotano sentimenti di xenofobia, esterofobi e razzisti, voglie di sciovinismi revanscismi e rivincite nazionaliste, aumento di fondamentalismi religiosi, bisogni di violenza come reazione alle paure e alle mancanze di sicurezza, ri-affermazioni avanzanti di supremazie androcratiche e suprematismi nazionalistici, omofobie, ginofobie, sessuofobie, sesso vissuto e pensato come predominanza fallocratica e sottomissione della donna in quanto donna. Tutti segnali che suggeriscono il diffondersi di propensioni alla guerra.
Condotto ad arte da forze di dominio culturalmente pregnanti, questo insieme rappresenta una micidiale mistura che induce a tollerare, se non a desiderare, il confronto bellico come mezzo per uscire dagli stati di apatia, anonimato e impotenza politica, cui vengono psicologicamente indotte masse addomesticate. Il potere incombente, vero signore della guerra, si nutre di questa linfa e l'alimenta, anzi la crea e la provoca, togliendo terreno e humus ai discorsi e alle prerogative antibelliciste e antimilitariste. Non può e non riesce a stare in pace un mondo in cui dilagano ingiustizie e disuguaglianze, perdono di senso la politica e la partecipazione, imperversano sottomissione e annichilimento psicologico collettivi e non riescono ad emergere alternative radicali egualitarie e libertarie. Un tale contesto non può che portare alla guerra, unico vero deterrente alla costante sgradevole sensazione dei fallimenti esistenziali che ci stanno regalando.

Per un superamento degli assetti di potere

In effetti, se si vuole essere onesti innanzitutto con se stessi, non si può non ammettere che le manifestazioni, anche di milioni di persone, gli scontri con le forze dell'ordine, il dissenso gridato in ogni lingua e in ogni maniera, non hanno nessuna possibilità d'incidere, spesso rappresentando un mero momentaneo sfogo della rabbia che monta. Manifestazioni e richieste pacifiste non hanno mai fermato le guerre né la preparazione di esse, né l'avrebbero potuto fare. In realtà son sempre stati strumenti spuntati. Ora sono nulli. Solo le diserzioni e il rifiuto di obbedire, in qualche occasione quando la riuscita della guerra dipendeva dalla partecipazione e sottomissione dei soldati, hanno avuto un po' d'incidenza. Con le tendenze oggi in atto gli strumenti fondamentali degli interventi bellici sono sempre di più droni, sofisticate tecnologie robotiche e informatiche, gerarchie manageriali militari centralizzate e computerizzate, cosicché purtroppo le tradizionali proteste del dissenso non possono servire in alcun modo a fermare il nichilismo rampante.
Viene spontaneo chiedersi: la lotta e l'opposizione radicali sono finiti? Ciò a cui siamo abituati in questo ambito sta senz'altro vivendo una specie di agonia. Ma rimangono invariati e non vanno affatto abbandonati i fondamenti, i principi e i valori che vi sottendono, cioè il ripudio del militarismo, della guerra e della violenza che esprimono. Dato lo spettacolo che continua a offrire il mondo, la loro validità e la loro attualità si sono anzi amplificate. Le guerre in fondo non sono desiderate da nessuno, se non dai guerrafondai che ne ricavano lauti guadagni. Non è perciò in sé sbagliato continuare a gridare la propria rabbia e la propria protesta, purché lo si faccia con la consapevolezza della loro inefficacia. Se infatti si continuerà esclusivamente a proporre contenuti, forme e metodologie abituali, ormai sempre più assimilabili a stereotipi della contrapposizione, la protesta e la lotta saranno destinate ad esaurirsi fino all'annichilimento.
Le possibilità di un superamento del militarismo, purtroppo, risiedono nel superamento degli assetti di potere e di dominio, quelli vigenti e quelli che verranno. Data la capacità di armamento e aggressione del sistema, trattandosi di un problema globale, se ci si fa chiudere nell'angolo dello specifico antimilitarista si continuerà a rimanere schiacciati e annullati. Soltanto quando le società saranno riuscite ad emanciparsi dalla soggezione statale e capitalista/finanziaria, sarà possibile liberarsi dell'imposizione militare e dell'incubo guerrafondaio. Un cambiamento di tal fatta, vera e propria mutazione struttural/antropologica è necessariamente frutto di processi molto lenti, che non sappiamo nemmeno se avverranno mai.
Per questo sarebbe indispensabile riuscire a rinnovarsi, reinventare qualità e modalità d'intervento, affrontando il problema soprattutto nella sua globalità, pensando ed agendo per il superamento degli assetti politici, economici e militari esistenti. Bisognerebbe attivare luoghi, gruppi e situazioni di resistenza esistenziale e sperimentazione libertaria. Non isole separate, ma comunità interagenti. Non gruppi a base di affinità ideologiche, a salvaguardia di purezze teoriche esistenti solo nei cieli dell'astrazione, ma luoghi d'incontro e confronto sulla base di liberi accordi. Momenti permanenti di ricerca aperta alla realizzazione della libertà sociale in tutte le sue forme, senza ottusità ideologiche e senza autoritarismi o intromissioni confessionali di sorta.

Andrea Papi
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