Lo sguardo etnografico
Il primo interesse degli antropologi verso l'immagine risiede
nella sua testimonianza di realtà. Il rapporto tra documentazione
verbale e documentazione audiovisiva in antropologia è
stato spesso contrastato. In epoche diverse e secondo punti
di vista differenti, queste due forme di documentazione e indagine
hanno conosciuto vicinanza e complementarità, ma anche
spazi autonomi di ricerca ed esclusioni reciproche.
Utilizzare mezzi di restituzione etnografica differenti è
stata una grande sfida e sicuramente la riproduzione filmica
e la fotografica sono stati i principali che hanno sfidato l'antropologia
classica negli ultimi 80 anni.
Per lungo tempo la fotografia e il film furono considerati capaci
di registrare la realtà (quale?), il dato oggettivo,
sul quale si poteva ritornare e ricercare in un secondo momento.
Basti pensare al lavoro della Mead e di Bateson che all'inizio
del '900 decisero di utilizzare delle cineprese nella loro ricerca
sul campo a Bali; produssero moltissimi materiali, stiamo parlando
di 6.000 metri di pellicola, 25.000 fotografie, che però
verranno montati dai venti ai quaranta anni dopo in diversi
film, un taglia e cuci che produceva delle etno-fiction.
All'epoca si credeva che la documentazione visiva fosse in grado
di riprendere efficacemente l'aspetto fenomenico, l'ambito dell'esperienza
concreta di una cultura, mentre la scrittura sembrava più
adeguata alla descrizione dei rapporti simbolici. L'intento
della Mead e di Bateson a Bali consistette nel documentare e
restituire l'<ethos> di un popolo; si concentrano pertanto
sui vari tipi di comportamento non verbale filmando con telecamera
fissa per ore. Contestualizzandolo negli anni in cui è
stato svolto, lo trovo un lavoro molto interessante, ma allo
stesso tempo con molte problematiche legate soprattutto al metodo
di utilizzo etnografico della macchina da presa. In sintesi
il loro lavoro consisteva in una raccolta di immagini che integravano
la descrizione verbale degli eventi; queste immagini venivano
usate come una prova, una specie di testimonianza, dell'avvenuto
evento e della veridicità del testo che lo descriveva.
Oggi sappiamo bene che è difficile parlare di dati oggettivi,
che è quasi impossibile essere agenti neutri e che la
sola presenza della macchina da presa muta le relazioni con
gli interlocutori presenti sul campo, per questo il loro metodo
risulta oggi ai nostri occhi totalmente non appropriato.
La nascita dell'antropologia visiva
Il cambiamento definitivo di prospettiva in questo campo di
studi antropologici avviene con J. Rouch e J. Marshall, i quali
non considerarono più il film una raccolta di dati da
trascrivere in forma letteraria, né un'evocazione fisica
di persone e luoghi, ma una conoscenza, creata cinematograficamente,
di mente, emozioni, desideri, relazioni, percezioni reciproche
dei partecipanti. Il tutto si fa molto più interessante!
Da quel momento in poi possiamo dire che nasce l'antropologia
visiva, una disciplina che si occupa dello studio delle forme
della comunicazione visiva e della produzione popolare di immagini;
vale a dire del loro ruolo come mezzo sia di esplorazione dei
fenomeni sociali, sia di espressione di conoscenza antropologica.
A questo punto del discorso mi interesserebbe rispondere a questa
domanda, ma alla fine che cos'è un film etnografico?
Heider nel 1976 sostiene che il film etnografico sia un mezzo
di espressione della comprensione antropologica di un fenomeno;
egli nota che esiste una tensione fra le due strategie miranti
a mettere ordine all'esperienza: quella estetica e quella scientifica.
Per non considerare tutti i film sull'uomo film etnografici,
egli propone di parlare di grado di etnicità di un film.
L'attributo più importante di un film è il grado
in cui esso esprime una comprensione etnografica del fenomeno
rappresentato in azioni. Quindi filmare per Heider presuppone
una conoscenza diretta non solo di quel particolare fenomeno,
ma anche dell'intero sistema socioculturale in cui un particolare
fenomeno è inserito, il film etnografico deve rappresentare
interi corpi, intere persone, intere azioni.
Altro ricercatore molto interessante è Goldschmidt che
già nel 1972 pone l'accento sul valore di traduzione
culturale del film etnografico: questo sarebbe pertanto un tentativo
di interpretare il comportamento di persone appartenenti ad
una cultura per persone appartenenti ad un'altra, utilizzando
sequenze che mostrano persone fare cose che avrebbero fatto
anche in assenza della macchina da presa.
Trovo importante e particolarmente condivisibile la posizione
di Ruby che nel 1975 sostiene che gli antropologi sono in errore
perché non considerano il film etnografico come un'etnografia
filmica, cioè non attribuiscono le stesse valenze scientifiche
all'etnografia scritta e a quella espressa visualmente.
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Il libro di Jean Rouch e Steven Feld Cine-Ethnography (2003, pp. 416) |
Una bic e un block-notes
Fino agli anni '70 l'uso del cinema è stato confinato ai margini dell'antropologia, è stato considerato unicamente come strumento di osservazione senza esaminare le sue potenzialità come narrazione e asserzione etnoantropologica del mondo. Sempre secondo Ruby, il film etnografico deve essere valutato come testo e allo stesso tempo, l'etno-cineasta deve conformarsi alle esigenze dell'indagine antropologica.
Il grande Jean Rouch trova una quadra sulla faccenda e a proposito dei film etnografici scrive: “fra filmare gli uomini e osservarli, in fondo non c'è che una piccola differenza di strumentazione: il découpage e l'inchiesta preliminare, le riprese e l'osservazione, il montaggio e la redazione successiva sono le tre fasi essenziali del lavoro del cineasta e dell'etnologo. Il cineasta scrive con una macchina da presa sulla pellicola, e l'etnologo con una bic su un block-notes. Poi il primo monta su una moviola ciò che il secondo elabora con una macchina da scrivere.
Andrea Staid
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A sinistra, Robert Gardner |
Note bibliografiche
Questo
testo deve molto a una dispensa di Cristina Balma Tivola
su antropologia visuale.
Consiglio la lettura di:
Massimo Canevacci, Antropologia della comunicazione
visuale. Per un feticismo metodologico (Costa &
Nolan, 2003, pp. 260)
Francesco Marano, Camera etnografica. Storie e teorie
di antropologia visuale (Franco Angeli, 2007, pp.
216)
Cristina Balma Tivola, Visioni del mondo. Rappresentazioni
dell'altro, autodocumentazione di minoranze, produzioni
collaborative (Edizioni Goliardiche, 2004, pp. 228)
Cristina Balma Tivola, Identità in scena. Etnografia
del caso (leggibile sul sito booktoday.ru)
A.S. |
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