Calcio e letteratura, educazione e retorica
1.
Da acuto osservatore delle minuzie umane qual è –
e con la sua capacità di ricondurre queste minuzie alle
loro matrici culturali –, Thomas Mann, ne I Buddenbrook,
si sofferma un paio di volte sulla reazione infantile ai primi
rudimenti più e meno mascherati dell'indottrinamento.
In una di queste circostanze – protagonista una fanciulla
già in età da marito per quanto si poteva presumere
nella seconda metà dell'Ottocento –, Mann nota
che, “distogliendo gli occhi dal viso del babbo guardò
la finestra, al di là della quale scendeva silenzioso
un fitto e sottile velo di pioggia”, negli occhi di questa
fanciulla “c'era l'espressione che hanno i bambini quando
i grandi, leggendo loro una fiaba, commettono lo sproposito
di intercalarvi considerazioni generali sui doveri e sulla morale”
– “un'espressione mista di imbarazzo e di impazienza,
di bigotteria e di stizza”.
Nella seconda circostanza, protagonista è il piccolo
Hanno, un bambino davvero, che vive un rapporto difficile con
un padre pretenzioso – borghesemente pretenzioso; “poteva
esser stato allegrissimo fino a quel minuto, aver magari chiacchierato
col padre... ma appena la conversazione assumeva sia pur vagamente
l'aspetto d'un esame, la sua allegria crollava, la sua forza
di resistenza si sfasciava. I suoi occhi si velavano, la bocca
prendeva un'espressione di sconforto, e quel che lo dominava
era un grande doloroso rammarico per l'imprevidenza con cui
il babbo, pur sapendo che simili tentativi non portavano ad
alcun risultato, aveva rovinato il pranzo a sé e agli
altri”.
2.
Oltre a preziosi documenti di non facile reperibilità,
dalla lettura di Calcio e letteratura in Italia (1892-2015)
dello storico Sergio Giuntini si ricava il quadro complessivo
di una sorta di colonizzazione culturale. Dalla conversazione
quotidiana e dalle prime cronache dei giornali sportivi il gioco
del calcio come oggetto di narrazione si è progressivamente
intrufolato nella letteratura più nobilitata, nella poesia,
nel teatro, nel cinema. Bontempelli, Pratolini, Saba, Gatto,
Arpino, Pasolini, Del Buono, Bianciardi, Soldati, Brera e Russo,
fra i tanti, sono alcuni nomi di scrittori che, in maggiore
o minore misura, hanno ceduto al fascino di questo gioco contribuendo
ad un capitale molto più cospicuo di quello che possa
esser vantato da qualsivoglia altro sport.
Tuttavia, come in ogni capitale letterario che si rispetti,
non tutto il luccicante è oro. Il ruolo sociale che il
calcio ha finito con l'acquisire – la sua funzione ideologica
di nuovo oppio dei popoli –, infatti, fa sì che
spesso i suoi cantori, accorgendosene o meno, eccedano in servilismo
e il loro prodotto grondi di retorica. D'altronde se quando
un Maradona fa un gol commettendo una grave infrazione –
colpendo il pallone con la mano – non solo ne viene scusato
immediatamente ma viene anche innalzato all'esercizio della
“mano di Dio”, è evidente che il calcio è
raccontato più con l'occhio rivolto all'effetto che fa
che alle modalità del suo svolgimento.
Mantenersi alla giusta distanza, serenamente padroni dei propri
criteri di analisi, spesso, quando si tratta di calcio, diventa
difficile – se non impossibile. Il fatto che se stai guardando
una partita quasi automaticamente qualcuno ti chieda per quale
squadra “tifi” la dice lunga – lo spettatore
neutrale è malvisto, guardato con sospetto. Corrispondentemente,
il relativo linguaggio ha bisogno di virtù eroiche, di
abnegazione e di sacrificio, di gesta indimenticabili, di genialità,
di capacità sopraffine. La retorica consiste proprio
nell'enfatizzare il risultato a prescindere dal come lo si è
ottenuto.
Una domanda retorica è quella di cui – sia da parte
dell'interrogante che da parte dell'interrogato – si sa
già la risposta. Vale per l'atto del porla: come imperio
e indottrinamento. Dato il contesto, schivarla non è
semplice – implica un pensiero critico, prima nei confronti
dell'oggetto e poi nei confronti del linguaggio stesso con cui
se ne parla. Il libro di Giuntini – dove li si ritrova
tutti, chi in cerca di un consolatorio successo e chi, invece,
in cerca del modo più opportuno di esprimere la propria
coscienza critica –, allora, si rivela un fondamentale
promemoria delle fasi cruciali di un processo storico –
quello dell'espansione calcistica – da cui nessuno può
dirsi immune.
3.
È indubbio che la retoricità di un linguaggio
semplifichi la vita: evitando ogni complessità, ben lungi
da qualsiasi necessità di analisi, ce la schematizza.
E, al contempo, ci espropria dei valori in base ai quali vorremmo
viverla, questa vita. È come se riducessimo l'argomentazione
a slogan.
Tutta l'edificante letteratura per un'infanzia sempre più
“scientificamente” graduata – dallo zero ai
due anni, dai tre ai quattro, dai cinque agli otto e via allargando
la forbice fino a quell'adolescenza odierna in cui L'amante
di Lady Chatterley è roba vecchia – sta lì
a dimostrare la costruzione di una cultura della retorica –
senza la quale la subordinazione sociale sarebbe un miraggio.
E lo sport in genere – e il calcio in particolare –
vi fa la sua parte – con la sua cerimonialità rituale
e con la sua forza plasmante.
Il primo laboratorio di sperimentazione è il bambino
che, con le buone o con le cattive – senza che se ne avveda
o fregandosene ampiamente se se n'è avveduto –
deve imparare “come si sta al mondo” e nessun adulto,
nel ruolo di chi trasmette “istruzioni” e “verità”
– le prime fondate sulle seconde – riesce ad esentarsi
dalla sua funzione indottrinante e dall'attingere al repertorio
della retorica per svolgerla al meglio. Volendo è un'estensione
dell'accudimento – l'esigenza sociale che prende il sopravvento
sul biologico –, ma, indubbiamente, è anche sopruso...
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Città del Messico, stadio Atzeca, 22 giugno 1986 - La famosa “mano de Dios”, contestato gol di Diego Armando Maradona ai campionati mondiali di calcio (coppa Rimet). L'Argentina battè l'Inghilterra 2-1, anche grazie a questo clamoroso gol fatto a mano (e non rilevato). Fu lo stesso Maradona a definirlo così, chiamando in ballo dio. Le cronache ricordano che poco dopo Maradona fece di nuovo gol, regolarmente, con quello che fu definito “il gol del secolo” |
4.
Come i bambini di Mann, mio nipotino Leonardo – sette
anni – sembra saperla lunga. Nonostante le sue analisi,
questo suo nonno, ogni tanto, gli racconta questo o quell'altro
episodio della sua esistenza, ma, ahimé, mai a caso.
Giorni orsono, non so più in che pasticcio autobiografico
mi ero cacciato e lui, tra il divertito e il curioso di dove
volevo andare a parare, mi stava ascoltando.
C'è stato un momento, però, in cui – nel
mezzo del racconto – mi è venuto da commentare
– una glossa a se stessi – cavandone una sorta di
generalizzazione. È bastato quello. Leo si è girato
dall'altra parte e, buttandola lì come fosse la constatazione
più banale del mondo – “Ecco che adesso,
come al solito, vuoi fare l'insegnante” –, si è
mostrato improvvisamente indaffaratissimo in affari tutti suoi
– l'isolotto mentale della momentanea salvezza –
da cui io ero rigorosamente escluso.
Felice Accame
Nota
Per I Buddenbrook di Thomas Mann, ho utilizzato la traduzione
di Anita Rho, nell'edizione Einaudi, Torino 1992, rispettivamente
a pag. 194 e a pag. 466. Il libro di Giuntini è pubblicato
da Biblion, Milano 2017.
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