rivista anarchica
anno 47 n. 418
estate 2017






Mille mondi

Sono incuriosita dal meccanismo che ci consente, a noi intellettuali, di guadagnare una facile assoluzione, spesso conseguente a un atto di contrizione e di matrice profondamente cattolica.
Come dice il rabbino all'inizio di Angels in America (Tony Kushner, 1991), mentre gli ebrei hanno solo la colpa, profonda e inespiabile, ai cattolici è possibile pentirsi. Il meccanismo che mi pare di veder operare in tante delle migliori menti della mia generazione, evocando Allen Ginsberg, ha a che fare, penso, con due condizioni, una individuale e intima e l'altra collettiva e consolidata.
Quella intima è, tout simplement, paura: di assumersi una responsabilità, di dire qualcosa di poco gradito all'opinione pubblica, di dover rispondere a critiche scomposte, quelle che caratterizzano i contraddittori di oggi nelle riunioni di condominio, nei talkshow televisivi e nei discorsi da bar. Per tutto questo, mentiamo. Oppure, per dirla con una prassi tragicamente operante nella cultura italiana, “interpretiamo”: la verità, la legge, i fatti, il discorso.
Quest'ultimo termine va spiegato. Michel Foucault scrive che si definisce “discorso” ogni interazione caratterizzata dall'esercizio di una forma di potere. Nella relazione, in qualunque relazione, le coordinate dell'interazione vengono definite da un rapporto di potere tra le entità coinvolte nella comunicazione. Di per se stesso, il dato non è necessariamente negativo. Se la relazione di potere è fluttuante e flessibile, essa è semplicemente un dato di fatto, non una costrizione. Diventa un elemento negativo quando il potere è esercitato (e subito) in modo unilaterale, e chi è costretto in una posizione subalterna non ha modo alcuno di uscirne.
Ecco: questo ci accade quando ci troviamo davanti all'alternativa tra dire la verità e interpretare la realtà. L'interpretazione ci rassicura, ci fornisce vie d'uscita di fronte a una scomoda assunzione di responsabilità. In altri termini, ci consente di dire che è colpa del gatto se gli abbiamo pestato la coda. E qui arriviamo al secondo meccanismo di assoluzione, quello collettivo: la separazione dei mondi. Esso ha a che fare con la inattesa e ostinata stabilità dei confini simbolici. Tutti abitiamo mondi diversi, e fin qui nulla di male. Ci muoviamo in contesti diversificati che paiono richiedere modelli di comportamento differenti, e anche questo è ovvio.

Confini simbolici

Quel che è meno ovvio è l'autorizzazione tacitamente condivisa a essere persone diverse in mondi diversi. Questo tipo di condizione può avere conseguenze imbarazzanti. Conosco studiosi di livello internazionale che scrivono di migrazione, di ingiustizia sociale, di radicalizzazione dei conflitti sociali dovuta a una non equa distribuzione delle ricchezze che, quando invitati, chiedono di viaggiare in business class e di essere alloggiati in alberghi adeguati. Come si riesca a mettere insieme questi due atteggiamenti è per me un mistero. O meglio, direi che si tratta di una forma di dissociazione della personalità resa possibile soltanto dalla separazione dei mondi.
Contro i confini simbolici non c'è globalizzazione che tenga. Essi sono dotati di meccanismi di autopreservazione che poggiano su una cultura antica e su una pulsione autenticamente umana, che impone, come prima reazione al rischio, la fuga, meglio se accompagnata da una autoassoluzione preliminare. È un atto culturalmente strutturato ma anche una reazione istintiva, che, tanto per chiarire, metto in atto io stessa. È la reazione primaria, non colpevole in stessa, ma irresponsabile se viene assecondata. In pratica: va molto bene agitare il vessillo politico dell'integrazione nelle riunioni di partito.
Va un po' meno bene, di fronte a un fatto criminale che coinvolge “stranieri” come agenti attivi, dichiarare che gli “stranieri” in questione sono ancora più colpevoli dei locali perché avrebbero dovuto essere grati di essere accolti e comportarsi di conseguenza.

Apriamo porte

Si può pensarlo, ed è umano, ma se si è un personaggio pubblico e lo si dichiara, diventa un guaio. Prima, un politico dovrebbe chiedersi quali sono le nostre pratiche di accoglienza e come stiamo lavorando davvero, anche nella formazione culturale, in direzione di una comunità equa, che ricordi costantemente un dato elementare: l'aria è di tutti, la terra non è stata acquistata da nessuno. Non è una proprietà privata e neanche un edificio demaniale. Non accogliamo in casa nostra chi questa casa ce la vuol rubare. Apriamo porte che abbiamo costruito noi stessi in una casa che tuttavia non ci appartiene, ma che abbiamo sottratto al bene comune.
Sto estremizzando una modalità di pensiero, naturalmente, ma il punto è che la separazione dei mondi non può essere una giustificazione alla mancanza di coerenza. Se i mondi sono mille, ciascuno di noi avrebbe il dovere di essere una persona sola, dotata di coerenza e capace di assumersi la responsabilità. Del giusto come dell'errore.

Nicoletta Vallorani