abitare
Cancellare l'incancellabile
di Adriano Paolella
A Napoli, nel quartiere Scampia, furono costruiti nel 1962 sette edifici, di altezza variabile dai 4 ai 14 piani, chiamati “le Vele”. Sette eco-mostri, 3 già abbattuti, 3 di cui è previsto l'abbattimento quest'anno, una sola Vela riqualificata ad uso non residenziale. Un architetto anarchico, nostro collaboratore, ne ripercorre qui le vicende e interviene nel dibattito su abbattimento/riqualificazione. Osservando come le esigenze della gente siano raramente tenute presenti. Mentre decine di organizzazioni di base, da sole, si sono mosse concretamente per...
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Napoli, quartiere Scampia - Una delle Vele |
Premessa
Nel dopoguerra le condizioni abitative a Napoli erano sicuramente
molto degradate. I bombardamenti avevano ridotto la disponibilità
di alloggi in un contesto già caratterizzato da elevate
densità e da bassi livelli di igiene. La ricostruzione
post-bellica non migliorò tale condizione fornendo edilizia
speculativa non rispondente alla domanda di abitazioni accessibili
ai meno abbienti.
Dagli anni '50 la cultura borghese vide nelle modalità
di vita tipiche dei “quartieri” una macchia da rimuovere,
delle forme insediative non consone alla modernità, lesive
del decoro della città.
Nel 1962, nel quadro dell'attuazione della legge 167 nell'edilizia
popolare finalizzata a produrre nelle periferie urbane situazioni
decorose per cittadini consolidati e per quelli di più
recente urbanizzazione, furono progettate e costruite nel quartiere
di Scampia sette edifici, di altezza variabile da 4 a 14 piani,
chiamati “le Vele”.
Nel '98 fu abbattuta le vela F, nel 2004 la G, nel 2003 la H.
Nel 2017 si procederà, con fondi statali e con la totale
condivisione dell'amministrazione comunale, all'abbattimento
di tre delle quattro Vele rimanenti. La Vela B sarà riqualificata
ad uso non residenziale.
Le Vele sono divenute il simbolo di un degrado sociale e con
il loro abbattimento si vuole eliminare la testimonianza fisica
di una gestione pubblica errata.
Con la loro distruzione si vorrebbe eliminare una testimonianza
scomoda di una incapacità a capire, affrontare, risolvere
i problemi che ha caratterizzato l'azione (o meglio la non azione)
pubblica per mezzo secolo, senza però avere acquisito
consapevolezza degli errori. Proprio per questo il rischio di
reiterare simili condizioni è molto elevato, non avendo
predisposto soluzioni insediative a tutela delle comunità
e non avendo capito che più di degrado sociale le Vele
sono simbolo della sofferenza delle comunità insediate.
L'esperienza delle Vele, gravosa ed evitabile, dovrebbe invece
modificare profondamente il senso delle scelte pubbliche sul
tema insediamenti e abitanti, non limitandosi a cancellare l'incancellabile.
L'intento progettuale originario
L'insediamento delle Vele era costituito da edifici composti
di due blocchi paralleli distanziati meno di dieci metri e collegati
da scale e ballatoi. L'architetto Francesco di Salvo volle recuperare
attraverso questa soluzione la spazialità e le relazioni
proprie del centro storico: spazi comuni, accesso direttamente
dalla strada, vicinanza, comunanza.
Il progetto prevedeva la realizzazione di attrezzature e servizi,
verde pubblico, giochi, scuole, centri culturali e commerciali.
L'intervento delle Vele è il prodotto “nobile”
di una cultura architettonica e urbanistica che tendeva a qualificare
l'intervento pubblico nelle periferie urbane definite dall'intervento
speculativo e caratterizzate da bassa qualità, alta densità,
uniformità, mancanza di servizi. L'insediamento, caratterizzato
da spazi comuni, salubrità degli alloggi, servizi, nella
sua diversità diveniva, nell'intenzione dei progettisti
e degli urbanisti, un riferimento nel magma costruttivo indifferenziato
delle periferie.
Impostazioni simili furono adottate con soluzioni ed esiti diversi
in molte altre situazione, a partire dal Corviale di Roma e
dal quartiere Zen di Palermo, questo oggetto per anni di problemi
simili a quelli presenti nelle Vele.
Erano soluzioni in cui i progettisti interpretavano alla luce
delle loro idee le necessità degli abitanti e producevano
insediamenti astratti che ipotizzavano nuovi e uniformi comportamenti
delle persone. L'edificio era parte di una politica, uno strumento
di educazione scaturito da una visione autoritaria e auto referenziata
della vita comune.
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Un matrimonio alle Vele negli anni Settanta |
La questione sociale
La conformazione degli edifici può favorire il benessere
dei cittadini così come può essere un forte deterrente
alla qualità della vita. Il progetto degli spazi privati
e pubblici, dovrebbe scaturire dalle esigenze e dai desideri
degli abitanti e quindi dalla loro cultura, comportamenti, abitudini;
solo in questa maniera si formerebbero quelle relazioni con
i luoghi e tra gli abitanti fondamentali per attuare una gestione
qualificata degli insediamenti.
È quindi indubbio che il processo di astrazione compiuto
dai progettisti sia corresponsabile delle condizioni di uso
delle Vele. La visione teorica ha forzato i comportamenti degli
abitanti immaginandoli diversi da come in realtà si sarebbero
potuti svolgere.
Però negli anni '60 le Vele rappresentano, non solo per
i progettisti ma diffusamente per tutta la città, la
soluzione al degrado abitativo diffuso nella città consolidata.
Igieniche, areate, nel verde, erano la concretizzazione della
modernità perseguita dalla cultura dell'epoca, un modello
che per quanti errori abbiano compiuto i progettisti nell'attuazione
di modelli simili, non ha avuto storie paragonabili in altri
quartieri.
Ed allora bisogna cercare altre responsabilità.
Il progetto non fu completato: non furono costruiti i servizi,
le aree verdi, le scuole, gli spazi comuni interni agli edifici.
Le Vele per anni non furono raggiunte dal trasporto pubblico,
non fu fatta manutenzione, e un cospicuo numero di appartamenti
non fu assegnato. Così nell'80 una gran parte delle unità
abitative venne occupata da coloro i quali erano rimasti senza
casa a seguito del terremoto.
L'incuria da parte di chi avrebbe dovuto intervenire unita alla
miseria culturale e umana di alcuni abitanti, ai gravi problemi
occupazionali, economici, sociali di gran parte degli insediati,
alla condizione di illegalità in cui si vennero a trovare
gli occupanti hanno costituito gli ingredienti per una situazione
esplosiva.
Ma ci è voluto tanto tempo, tanta assenza delle istituzioni,
tanto disinteresse diffuso per fare assumere ai problemi una
dimensione e una gravità di rinomanza internazionale.
Di fatto si è in presenza di un progetto cosciente e
impegnativo, di concentrare in un luogo confinato tensioni e
problematiche che non si volevano risolvere; un progetto che
si è evoluto in un susseguirsi di occupazioni, marginalizzazioni,
sopraffazioni dell'interesse malavitoso di pochi ai danni dell'intera
comunità.
E questo progetto è stato un progetto pubblico.
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Uno scorcio dell'interno delle Vele |
La “soluzione” del problema
Il Comune ha deciso di abbattere le Vele in quanto palese rappresentazione
del degrado delle periferie urbane; un simbolo riconosciuto
del potere della camorra e degli errori di una pianificazione
urbanistica e sociale.
Gli insediamenti sono stati costruiti non rispondendo alle necessità
e ai desideri degli abitanti ma alla teorizzazione ideologica
dei progettisti che, in modo verticistico e un po' demagogico,
vedeva nei quartieri storici la negatività e nelle nuove
periferie il progresso.
È evidente che gli abitanti hanno subito esperienze dure
che vedano nell'allontanamento da queste periferie il superamento
di condizioni di difficoltà e che vivono le nuove abitazioni
più tradizionali come la riacquisizione di salubrità
e funzionalità da tempo persi e di quell'autonomia propria
della disponibilità di spazi individuali e di privacy
carente nelle Vele.
Ma nonostante ciò l'atto di abbattimento ha lo stesso
sapore di demagogia dell'atto della loro costruzione.
Chi ha reso inabitabile questi insediamenti se non le crepe,
i muri abbattuti e non ricostruiti, gli infissi rotti e non
sostituiti, le perdite, le infiltrazioni e la mancanza d'acqua,
la totale assenza di pulizia nelle aree comuni, la mancanza
di collegamenti pubblici con la città, la mancanza di
verde, di negozi, di servizi? Chi ha reso inabitabili le Vele
se non la totale assenza di quella presenza pubblica (financo
delle forze dell'ordine arrivata con il commissariato di quartiere
solo dagli anni '80) che aveva ideato e costruito l'insediamento?
Come detto le Vele sono l'esito di un cosciente progetto politico
di allontanamento dalla città, e di successivo abbandono
di quella parte di popolazione ritenuta indecorosa, problematica,
rumorosa, fastidiosa.
La ferita è quindi sociale e non architettonica.
E la demagogia continua a dettare le scelte. Nei mezzi di comunicazione
di questi giorni si legge: “le Vele rappresentano nell'immaginario
collettivo il simbolo più forte del degrado e della delinquenza
urbana”; “Scampia (a seguito del programmato intervento
di abbattimento e riqualificazione) come nuova polarità
della Città metropolitana”; “Restart Scampia:
da margine urbano a centro dell'area metropolitana”, “Rivoluzione
periferie”. Sostituiamo alcuni termini, oggi in voga,
e sono le stesse parole che venivano declamate negli anni '60
per presentare le necessità di riqualificare il degrado
e la delinquenza dei centri storici e per presentare le capacità
taumaturgica delle periferie e nello specifico del progetto
delle Vele.
Stesse parole, stessi concetti, stessa demagogia.
Non solo.
La soluzione adottata consiste nel trasferimento degli abitanti
in nuove abitazioni anonime dove non si è neanche tentato
di proporre modelli insediativi maggiormente a misura della
comunità. A detta del “Comitato Vele di Scampia”
in alcuni casi tali edifici già presentano problemi simili
a quelli che caratterizzarono i primi anni delle Vele (ascensori
e cancelli non funzionanti, perdite di acqua, ecc.). E tutto
ciò avviene mentre, ripetendo un copione noto, altre
persone stanno occupando gli appartamenti alle Vele lasciati
vuoti.
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Lucien Kroll, Bethoncourt (Montbéliard)
Dall'alto: prima e dopo la riqualificazione |
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Diversamente
Se il progetto Vele è fallito, ed è fallito, il suo scopo di comporre spazi adatti alle persone non ha ragione di essere ignorato. Fornendo solo delle abitazioni si è rinunciato ad un progetto sociale, si è cercata la strada semplice delle periferie senza senso come se il solo, l'indiscutibile miglioramento rispetto alle condizioni dell'attuale abitabilità delle Vele fosse un risultato soddisfacente.
Ma questa è una vera sconfitta culturale.
A Scampia oggi vi sono 120 associazioni attive nel territorio e cinquanta spazi pubblici recuperati dall'azione diretta degli abitanti a dimostrazione della forza delle comunità e della capacità di ricomporre quel tessuto relazionale, maldestramente ipotizzato dal progettista delle Vele e profondamente osteggiato dall'azione pubblica e privata.
Partendo da tale capacità si sarebbe dovuto fare meglio.
Tutti gli edifici esistenti, in diversa misura, sono modificabili, trasformabili, adattabili a nuove esigenze. E non è solo una questione ambientale (il recupero dell'energia impiegata nella costruzione, la limitazione dei costi, la riduzione degli impatti) ma anche sociale (il mantenimento di una memoria, la partecipazione alla trasformazione, l'attivazione delle comunità, il superamento attraverso il lavoro comune di una condizione di degrado).
Alla fine degli anni ottanta molte delle periferie europee formate da edifici di grandi dimensioni (stecche e torri) solitamente prefabbricate e ossequenti ai criteri dell'uniformazione della modernità furono abbattute. L'architetto Lucien Kroll fu chiamato per progettare un nuovo quartiere appunto al posto di uno di questi.
Ma lui si comportò in maniera diversa: parlo con gli abitanti, cercò di capire le necessità e i desideri, aprì dei laboratori di progettazione, e partendo dal fatto che l'impegno energetico e ambientale dell'abbattimento e ricostruzione è superiore a quello della trasformazione dei manufatti esistenti, si propose con gli abitanti di rendere gli edifici esistenti coerenti con i loro desideri e ci riuscirono.
Con maggiore impegno, con maggiore coraggio, con maggiore capacità si possono ottenere modelli insediativi in cui fare vivere bene individui e comunità.
Adriano Paolella
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