letteratura
Quella scrittura laica e libertaria
di Domenico Sabino / foto di Dino Ignani
La sofferta esistenza di Amelia Rosselli, figlia dell'antifascista Carlo, orfana a 7 anni per mano fascista, poetessa sensibile, morta suicida a 66 anni. A distanza di vent'anni, torniamo a parlare di questa poetessa.
Sono un'esperta di questi viaggi.
Anne Sexton
Pier Paolo Pasolini è
stato il primo, in una nota a ventiquattro poesie pubblicate
sul “Menabò” nel 1963, a porre in risalto
la straordinaria lingua poetica di Amelia Rosselli (1930/1986),
interpretata sulla base del lapsus freudiano, inteso
solo come errore linguistico, non come manifestazione dell'inconscio.
“Uno dei casi più clamorosi del connettivo linguistico
di Amelia Rosselli – principia Pasolini – è
il lapsus. Ora finto, ora vero: ma quando è finto,
probabilmente lo è nel senso che, formatosi spontaneamente,
viene subito accettato, adottato, fissato dall'autrice sotto
la specie estetica di una «invenzione che si fa da sé».
[...] Tuttavia, io direi che più che di specie culturale
(e lo sono) i lapsus della Rosselli, sono di specie ideologica”.
Quella della Rosselli è una metalingua totalmente sganciata
dagli automatismi, con una sensazione di dedizione al proprio
vissuto culturale. Una scrittura libera e libertaria quella
di Amelia Rosselli nata a Parigi il 28 marzo del 1930 e morta
suicida l'11 febbraio del 1996. Suicidio avvenuto esattamente
trentatré anni dopo quello di un'autrice da lei tanto
studiata, tradotta con passione e considerata la più
grande poetessa anglo-americana: Sylvia Plath (1932/1963).
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Amelia Rosselli (Parigi, 1930-Roma, 1996) |
Schizofrenia paranoide e depressione
Amelia nasce a Parigi dall'inglese Marion Cave e dal militante antifascista Carlo Rosselli, ucciso col fratello Nello in Francia nel 1937 dai cagoulards su ordine di Mussolini e Ciano. Un episodio tragico che segna tragicamente la vita e l'opera dal punto di vista psicologico ed esistenziale di Amelia. Nel suo stile ravvisiamo quella traccia di dramma collettivo e “i temi della Nevrosi e del Mistero” come scrive Pasolini. Ciò si evince da tali versi: “[...] O vita breve tu ti sei sdraiata presso di me che/ero ragazzina e ti sei posta ad ascoltare su/la mia spalla, e non chiami per le rime [...]”.
Difatti, la Rosselli soffre di schizofrenia paranoide e depressione, sin dalla giovane età è tormentata da ossessioni persecutorie - crede di essere seguita dai servizi segreti che hanno lo scopo di ucciderla - e da dispercezioni visive e acustiche, dapprima sporadiche, poi a partire dalla metà degli anni Sessanta diventano ricorrenti e minacciose, fino a dominare completamente il suo quotidiano.
Nel 1969 le viene diagnosticato il morbo di Parkinson. L'esistenza di Amelia Rosselli è fatta di spaesamento, sradicamento, fughe, lutti, ciò per far intendere che scrivere e vivere sono una cosa profonda, e spesso coincidono se segnati da una tragedia. “L'immaginazione torturata si tormentava/gli idilli nascevano e si tramutavano in fantascientifico dubbio o nausea/e l'amore era un gioco di scacchi. Il fantasma che regnava nella casa vuota/il fiero dedicarsi ai combattimenti tutto prendeva una piega imprevista/se il dolor di capo ricominciava”.
Incessantemente alla ricerca di un'appartenenza culturale e identitaria mai acquisita vivrà fra Inghilterra, Stati Uniti, Parigi, Londra, Firenze cui approdò nella primavera del 1948 per trasferirsi definitivamente pochi mesi dopo a Roma nei primi anni 50. Sono gli anni in cui frequenta gli ambienti letterari; conosce, tra gli altri, Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Roman Vlad, Luigi Dallapiccola. Amelia conosce Pasolini attraverso il film Accattone, folgorata dalla perfetta sincronizzazione della musica di Johann Sebastian Bach con le immagini.
Una lingua del bio, del privato, labirintica
Tra gli anni 40 e 50 si dedica allo studio del violino, del
pianoforte, della composizione, dell'etnomusicologia che unitamente
alla scrittura che la accompagnerà per tutta la vita,
resero unica la sua poesia. Studia e commenta Dino Campana,
Sandro Penna, Boris Pasternak, James Joyce, Emily Dickinson,
Ingeborg Bachmann e si dedica a studi letterari e filosofici.
Il nomadismo renderanno unica la scrittura poetica e apolide
che commistiona tre lingue madri: il francese, l'inglese e l'italiano.
Il suo trilinguismo irrompe con una scrittura in cui le norme
di una lingua combattono con quelle delle altre due, fino a
creare una quarta lingua anomala e sovversiva.
Una poetessa e artista poliedrica che ha usato nella sua produzione
letteraria un idioma tripharium. Le interferenze linguistiche,
le parole ibride, i calchi sintattici, appartengono alla lingua
della Rosselli che è una lingua del buio, del privato,
labirintica e priva di codici. L'alterazione del linguaggio,
reinventato, contaminato da sgrammaticature, sregolatezze e
fusioni di parole lo ritroviamo in Variazioni belliche,
opera poetica del 1964: “Se nella notte sorgeva un dubbio
su dell'essenza del mio/cristianesimo, esso svaniva con la lacrima
della canzonetta/del bar vicino. Se dalla notte sorgeva il dubbio
dello/etmisfero cangiante e sproporzionato, allora richiedevo/aiuto”.
Nonostante i problemi di salute collabora con varie riviste,
tra cui «Botteghe oscure», «Civiltà
delle macchine», «Nuovi Argomenti». Nel 1969
pubblica Serie ospedaliera, scritta durante una degenza
in un ospedale psichiatrico. È l'opera in cui la poesia
di Rosselli raggiunge il climax della propria straordinaria
tensione formale. L'autrice riporta sulla pagina uno spazio
di radicale alterità linguistica ed esistenziale. L'intera
opera poetica - da Documento (1966-1973), a Primi
scritti 1952-1963, da Impromptu a La libellula,
fino a Sleep. Poesie in inglese. - è pervasa da
un'instabilità psichica, accentuata dalla triplice identità
culturale e linguistica scissa da sempre nell'anima e nel corpo.
Compie un'operazione di liberazione del linguaggio, attua un
modus autentico di descrivere la propria alterità, di
parlare di persecuzioni, di denunciare un'esclusione sociale
espressa anche attraverso l'eliminazione dalla comunicazione.
“I fiori vengono in dono e poi si dilatano/una sorveglianza
acuta li silenzia/non stancarsi mai dei doni. [...] Mi truccai
a prete della poesia/ma ero morta alla vita. [...]”. Versi
esemplificativi carichi di solitudine, silenzio, morte e logicamente
autobiografici.
Pier Vincenzo Mengaldo così definisce la lingua della
Rosselli: “Un organismo biologico, le cui cellule proliferano
incontrollatamente in un'attività riproduttiva che come
nella crescita tumorale diviene patogena e mortale”. Infatti,
vista la quantità di elementi di disagio, malinconia,
depressione, nevrosi di cui le poesie sono colme, si può
sostenere che quello della Rosselli sia stato un suicidio gradualmente
preannunciato nei suoi versi. “I miei occhi che non s'aprono,
dal/sonno o dalla tortura, ed invece eccoti/ qua, a scegliere
un'altra via: la medicina/per non addormentarti. [...] Con la
malattia in bocca spavento [...]”. Il mondo è una
ferita lacerante, un errore, un nonsense. Un lento distaccarsi
dal mondo che tanto l'aveva fatta soffrire e appassionare: “Il
mondo è sottile e piano:/pochi elefanti vi girano, ottusi”.
Profondo interesse per Silvia Plath
La forza dirompente della poesia, il lavoro impervio sulla lingua di Rosselli sconvolge modelli e forme della tradizione, realizza uno splendido rebus innovatore ed eretico. Ciò la porta a elaborare una profanazione del logos, una lingua dove l'interdetto, lo shock e il limite sono il punto di partenza della scrittura, lo spazio nel quale il lemma significa, ha il suo terrificante peso di verità. Le ferite psichiche e i riferimenti alla propria esperienza esistenziale di cui è carica la poesia rosselliana rivela evidenti forti analogie tematiche e stilistiche con la scrittura di Sylvia Plath. Il profondo interesse della Rosselli per la Plath emerge dal suo incessante impegno di studiosa e traduttrice, confluito con la pubblicazione nel 1985 del volume Le Muse inquietanti e altre poesie, che sottolinea le affinità tra le due scrittrici. Un esempio di 'identificazione proiettiva', per dirla in chiave psicanalitica.
A sottolineare tale 'identificazione proiettiva' compariamo due frammenti poetici delle poetesse.
Sylvia Plath: “[...] Morire/è un'arte, come ogni altra cosa./Io lo faccio in modo magistrale, lo faccio che fa un effetto da impazzire/lo faccio che fa un effetto vero. Potreste dire che ho la vocazione. [...]”. “La donna ora è perfetta/Il suo corpo/morto ha il sorriso della compiutezza,/l'illusione di una necessità greca. [...] Siamo arrivati fin qui, è finita. [...]”.
Amelia Rosselli: “La vita è un largo esperimento per alcuni, troppo/vuota la terra il buco nelle sue ginocchia/trafiggere lance e persuasi aneddoti, ti semino/mondo che cingi le braccia per l'alloro. [...]”. “E morire per te è vano: ma più vano ancora/questo dissimulare una parvenza di vitalità/quando mi scacciasti dal borgo, i tuoi occhi/affratellati. [...]”. “Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l'ultima specie umana./Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione! [...]”.
In entrambi i casi la scrittura scaturisce da una necessità di cicatrizzare un dolore originario, terribile e profondo. Sensibilità acute i cui versi toccano al contempo vertici e abissi di estremo sentimento umano e ne rimangono per la vita e per la morte incantate. Sono versi che lacerano la psiche e le carni. Il mal di vivere, il desiderio di morte, vacilla e si trasferisce, come in una trama; si propaga ed echeggia per sempre. Amelia (come la Plath) non può vivere senza scrittura come non può vivere senza riconoscere la violenza inquietante che la pervade e senza misurarsi con essa; solo un'intelligenza critica, cosciente malgrado ciò, mai paga di sé come la sua, si appassiona a districare nodi nevralgici tra i più difficili e delicati che i fili della mente umana possano costruire. L'Io nei versi rosselliani è emarginato per opera della società repressiva, tuttavia intraprende continui tentativi di attraversamento di questo limite ricercando una relazione con l'altro, individuo o collettività che sia. La sua è una scrittura in cui sperimentare con la vita si permane imprigionati.
L'opera di Amelia Rosselli è l'angelo e il demone di se stessa. A vent'anni dalla morte - la data del suicidio segna un legame profondo con quella di Sylvia Plath - i sui versi luminosi e di singolare potenza si collocano nella costellazione tumultuosa del Novecento, segno peculiare nel panorama letterario italiano e non solo. Una voce/lingua visionaria essenziale anche se in perenne contraddizione come ogni utopia che si rispetti: “Cercatemi fuoriuscite”.
Uno scherno sconfinato alla vita che come un suono sordo squarcia e fa pulsare l'oscuro, mediocre, monotono, meccanico quotidiano di condannati a vivere.
Domenico Sabino
Un precedente scritto (“La straniera”) su Amelia Rosselli, di Marc de' Pasquali, è stato pubblicato in “A” 233 (febbraio 1997).
Breve
bibliografia di Amelia Rosselli
Opere e scritti
Variazioni
belliche, Garzanti, Milano 1964
Serie ospedaliera (1963-1965), Il Saggiatore, Milano
1969
Documento (1966-1973), Garzanti, Milano 1976
Primi scritti (1952-1963), Guanda, Milano 1980
Impromptu, San Marco dei Giustiniani, Genova 1981
Appunti sparsi e persi (1966-1977), Aelia Laelia,
Reggio Emilia 1983
La libellula, SE, Milano 1985
Sonno-Sleep (1953-1966), Rossi e Spera, Roma 1989
Diario ottuso (1954-1968), IBN, Roma 1990
Sleep. Poesie in inglese, Garzanti, Milano 1992
Le poesie, Garzanti, Milano 1997
Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici,
(a cura di Francesca Caputo), Interlinea, Novara 2004
Lettere a Pasolini 1962-1969, (a cura di Stefano
Giovannuzzi), San Marco dei Giustiniani, Genova 2008
L'opera poetica, (a cura di Stefano Giovannuzzi),
Mondadori, Milano 2012
October Elizabethans, San Marco dei Giustiniani,
Genova 2015
Traduzioni
Sylvia Plath, Le muse inquietanti, Mondadori, Milano
1985
Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano
1997 |
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