La normalità delle cose
Che cosa strana il rapporto coi genitori: si riesce, ma solo
fino a un certo punto, a immaginarsi com'erano quei due, come
ragionavano, come potevano muoversi quando erano giovani. Difficile
immaginarseli giovani, intanto. Un gioco di immaginazione al
contrario: la fantasia che deve correre verso un passato meno
ricco di oggetti e di accadimenti e non verso un futuro da inventare,
e nel quadro alla fine resta una zona irrisolta, un angolo coi
contorni sfocati. Mia figlia, che come altre ragazze e ragazzi
della sua età è cresciuta con internet e personal
computer già alle scuole elementari, resta sempre un
po' così quando mi sente dire che a casa nostra non avevamo
il telefono: per chiamare i suoi al paese mia madre andava a
piedi fino in centro alla sede dell'ASST e aspettava che le
passassero la chiamata in teleselezione, poi hanno messo una
cabina vicino a casa – me la vedo in fila, mia mamma col
gettone in mano. Ero già cresciuto tipo seconda/terza
superiore che abbiamo avuto un telefono tutto nostro in casa.
A lei, giustamente, sembra strano – le manca un aggancio
con la realtà e le abitudini di questi giorni suoi, con
quella che è la sua normalità delle cose. Anche
a me sembrava strano e lontano immaginare i vent'anni dei miei
genitori: loro avevano attraversato il fascismo e consideravano
una grande fortuna essere riusciti in qualche modo a venirne
fuori, e costruirsi una mentalità e una quotidianità
fatta di briciole e monetine.
Sono riusciti a fare dei progetti, ad emanciparsi dalla famiglia
e costruirsi una vita praticamente da niente. Anche loro con
ogni probabilità si erano ritrovati a confrontarsi con
l'ambiente dei genitori: il Novecento per i miei nonni si svegliava
in un casone in barena senza elettricità né acqua
corrente, la normalità quotidiana viaggiava a piedi,
in barca o sopra ad un carretto trainato da un cavallo. Treni
ed aerei avevano un senso sinistro: la normalità per
i miei nonni è stata per anni una normalità di
guerra, di fughe e miseria, bombardamenti, deportazione, lavoro
forzato, ansia, figli morti piccoli, razionamenti e mercato
nero.
La cosiddetta normalità dei miei vent'anni è
stata caratterizzata dalla lentezza tipica della comunicazione
old style. Le lettere, innanzitutto. Succedeva spesso di fare
amicizia con qualcuno a una manifestazione o a un concerto,
ci si scambiava gli indirizzi poi ci si mandava una cartolina
solo per dire ciao oppure per provare ad incontrarsi ancora
ad un'altra manifestazione o a un altro concerto. Le lettere
erano più impegnative, servivano per far sapere cose
importanti. Ci si metteva un po' a raccogliere le idee e buttare
giù i pensieri, si rileggeva, si ricopiava, si spediva
e si aspettava. Una risposta poteva anche non arrivare.
Per venire a sapere qualcosa di musica alternativa, o per farsi
un'idea di che cosa succedeva in Inghilterra o in America coi
miei amici leggevamo abitualmente riviste come Muzak e Gong,
che trovavamo a scrocco in radio, e alcuni giornali stranieri
come NME che arrivavano nell'edicola della stazione già
vecchi di un paio di settimane se non di un mese. Erano giornali
fatti bene, ma non riuscivano neanche ad andare vicino al brivido
che provavo nell'ascoltare i racconti dei compagni più
grandi che giravano viaggiavano incontravano sperimentavano
quando a me e ai miei amici sfigati invece toccava restare.
Non era il mancato o scarso tempismo della stampa a preoccuparmi,
quanto la misura del tempo che dovevo ancora attendere per ottenere
l'emancipazione dal groviglio tentacolare casa/scuola/famiglia/paese.
Associavo il raggiungimento di una certa indipendenza alla possibilità
stessa del viaggio, alla sua distanza e durata.
Vi ho senz'altro già raccontato che mi è stato
regalato “Stations” dei Crass nel 1979, un disco
che penso mi abbia acceso un gran casino dentro in testa. Siccome
la cosa mi aveva molto preso, dopo un po' mi sono deciso e gli
ho scritto una lettera, loro hanno risposto (e con mia grande
sorpresa), dopo qualche altra lettera e qualche pacchetto scambiato
sono riuscito ad andare a Londra in treno da Venezia la prima
volta nel 1981, e poi a incontrare Scott Piering a Rough Trade
che mi ha presentato a John Loder nel 1982 e solo l'anno successivo
a far visita a Penny, Gee e compagni nella comune di Dial House.
Adesso magari basterebbe un paio di click, ma così sono
convinto non riuscirei neanche ad arrivare vicino all'importanza
e al significato di quel nostro primo incontro di persona, così
costruito e denso, sognato a tutto volume, letteralmente carico
di anni di attesa di aspettative speranze ragionamenti deliri
e tempeste del cuore. È stato un percorso, un alternarsi
disordinato di domande e sorprese e conferme, all'inizio alimentato
dalla curiosità poi da un senso di riconoscimento e identificazione
che ha preso via via spessore e consistenza. Da un po' uso la
posta elettronica, gironzolo in rete e ho anch'io il mio smartphone,
ma sono affezionato ai tempi lunghi di una volta. Come dire,
mi piace arrivare a piedi - nei posti, alle persone.
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Julia Kent (foto di Fionn Reilly) |
Asperities
E veniamo alla segnalazione di questo mese. Non so bene come
collegare tutto il malloppone scritto finora a questo lavoro
di Julia Kent. Cioè sì, dai, so bene come sono
arrivato qui e perché, ma è un giro lungo e, sapete,
io ogni tanto mi perdo. Lei l'ho già sentita da lontano
e da tanto tempo. Forse la prima volta che ci siamo “incontrati”
(qui le virgolette ci vanno) è stato dentro a un vecchio
disco di Antony Hegarty: lì dentro c'è una canzone
che fa “Allora ci sentivamo così diverse, ma poi
negli anni così simili / Il modo di ridere o di soffrire
/ Così tanti ricordi, ma coi ricordi non si può
fare niente / Facce e mondi che nessun altro conoscerà
mai / Sei mia sorella e ti amo / Che tutti i tuoi sogni possano
avverarsi...” che penso anche voi lì fuori avrete
ascoltato in tanti, e ne sarete rimasti colpiti o almeno lo
spero. Lo spero perché “I am a bird now”
è un disco importante – importante perché
forse per la prima volta qualcuno trova la voce ed il coraggio
di raccontare storie così intime, fragili e profondissime.
Julia dopo qualche tempo me la sono ritrovata a sorpresa dentro
a “Borderline” un lavoro fatto da un amico friulano,
Loris Vescovo (vedi
segnalazione su “A” 347). Lei è canadese,
so che viene da Montréal e vive a New York ma so anche
che viene spesso in Italia e parla piuttosto bene l'italiano,
secondo me è un segno che stare qui le piace. L'ho vista
e sentita, anzi guardata e ascoltata, in un recente concerto
estivo nel parco del castello di Este – ha presentato
il suo quarto-e-mezzo cd “Asperities” (pubblicato
dall'indie inglese Leaf).
Il concerto mi ha scosso e lasciato dentro quintali di interrogativi. Lasciamo da parte lei, generosa ma enigmatica, esigente e concentratissima. Lasciamo da parte anche il pubblico: silenziosissimo, attento, altrettanto esigente e concentrato. Ecco, vi dirò dello strumento: un violoncello dall'aspetto metallico che emanava riflessi oscuri. Poi, vi dirò del gesto: a volte Julia sembra impugnare l'archetto come una frusta, altre come una lama, altre ancora sembra accogliere in mano una piuma d'angelo. Ogni volta che passa l'archetto, sia frusta o lama o piuma, il violoncello prende una voce nuova e diversa e canta frasi in forma quadrata che lei cattura e mette a camminare in circolo mantenendone l'incedere lento, e sovrappone e accatasta in strutture sempre più profonde e complicate, ricamate come frattali. Laddove il concerto è stato così suggestivo da lasciarmi dentro un senso perdurante di dubbio e preoccupazione, nel cd è raccolta una versione sorprendente che lascia grandi spazi aperti, luminosità e speranza.
Dentro a queste musiche ho ritrovato una familiarità calda ed avvolgente, suoni che arrivano a piedi da posti che sembrano lontanissimi e che invece ho riconosciuto come miei da sempre e che hanno svegliato ricordi vecchi rimasti chiusi nei cassetti dentro in testa. A volte l'ascolto mi ha fatto avvertire presenze, quasi che si stesse materializzando un sogno. Non so se è stata solo suggestione. La prossima volta che Julia verrà a suonare da queste parti voglio tornare, sento come se fosse rimasto in sospeso un discorso. La prossima volta che Julia verrà a suonare dalle vostre parti vi chiedo di non andare a vedere e sentire, ma di andare a guardare e ascoltare.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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