La colonizzazione dell'Artico, uno sguardo tra antropologia e letteratura
Nell'artico c'è il più alto
tasso al mondo di suicidi di minori, culture che vengono dal
Pleistocene che si dissolvono come ghiacci per il surriscaldamento
globale.
Matteo Meschiari
Quando
si scrive o si parla di colonialismo si pensa alla colonizzazione
da parte degli europei in Africa, o della conquista dell'America
e del genocidio dei popoli indigeni del sud, del centro e del
nord di quel meraviglioso continente, ma raramente pensiamo
a quella spinta colonialista sempre europea che ha dilaniato
politicamente e culturalmente i popoli dell'Artico. In pochi
ci parlano della distruzione, della depredazione della schiavizzazione
dei popoli dell'estremo nord, pagine di storia poco raccontate,
poco conosciute ma di estrema importanza.
Governi e corone danesi, norvegesi, zar russi e grandi dittatori,
da Pietro il grande a Stalin, le popolazioni indigene sono state
considerate dei selvaggi da schiacciare o se andava bene dei
primitivi da civilizzare. Capitalisti, comunisti, tutti concordavano
sulla colonizzazione dei territori indigeni, tutti si arrogavano
il diritto di includere all'interno di territori statali (mai
esistiti) culture secolari che avevano vissuto quegli stessi
territori molto prima dell'esistenza dell'URSS o degli stati
danesi, norvegesi; semplicemente per un unico, enorme genocidio
culturale in nome dello sviluppo economico, che sia stato uno
sviluppo capitalista o comunista.
Popoli che vivevano in Siberia da qualche migliaio di anni
erano considerati dai bianchi forestieri. Forestieri nella loro
terra. Non è un paradosso. È il seme più
elementare e contagioso del pensiero coloniale; la tua terra
è mia1.
Riprova del fatto che se ne parla poco di queste popolazioni
saccheggiate dal “nostro” progresso sta anche nel
fatto che se provate a scrivere su Google “colonizzazione
dell'Artico” tra i primi 20 risultati non vi esce nessuna
notizia che narra di colonizzazione, distruzione o resistenza
dei popoli indigeni del Nord.
Jnuit, Yupik, Aleuti, Komi, Nenci, Tungusi, Sami, ecc.
Ma quali sono i popoli indigeni dell'Artico? Principalmente
sto parlando degli Inuit che vivono nelle regioni costiere artiche
e subartiche dell'America settentrionale, della Groenlandia
e della punta nord orientale della Siberia, quel popolo che
spesso riconosciamo con il nome di Eschimesi, ovvero gli abitanti
originari delle regioni costiere artiche e subartiche dell'America
settentrionale e della punta nord-orientale della Siberia. Gli
Yupik che vivono sulle coste dell'Alaska occidentale, nel delta
del Yukon-Kuskokwim e lungo il fiume Kuskokwim, nell'Alaska
meridionale, nell'estremo oriente russo e nell'isola di San
Lorenzo, anche loro spesso vengono confusi con gli Eschimesi.
Ci sono gli Aleuti delle Isole Aleutine tra Alaska e Russia,
i Jakuti che principalmente vivevano tra quella che oggi si
chiama Repubblica Sacha o Jakutija nell'immensa e desolata Siberia,
poi ci sono i Komi nel territorio russo, i Nency sempre inclusi
nello stato russo dalla Baja dell'Esej a est fino alla penisola
di Kanin a ovest, i Tungusi tra Siberia, Mongolia e Cina settentrionale
e i Sami conosciuti anche come Lapponi che vivono in un territorio
che si estende dalla penisola di Kola fino alla Norvegia centrale.
Matteo Meschiari, antropologo di Modena e docente a Palermo,
nella suo ultimo preziosissimo lavoro pubblicato per Exòrma
dal titolo Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci
con una scrittura travolgente e una preparazione etnoantropologica
profonda, ci racconta la storia del colonialismo dell'Artico,
sottolineando l'importanza che queste storie possono avere nel
dibattito contemporaneo; l'estremo nord che ha conosciuto
come il sud colonialismo e postcolonialismo, capitalismo e proletariato,
sfruttamento delle risorse e disastro ecologico, potrebbe giocare
un ruolo cruciale nella riflessione sul dibattito postcoloniale2.
Scolarizzazione forzata, confisca delle renne...
Meschiari ci dona un testo che non è soltanto un libro di antropologia, ma una vera opera letteraria, e decide di raccontarci la storia del saccheggio culturale e politico dell'artico con uno stile che esce con grande forza dai limiti della scrittura accademica e riesce a farlo senza perdere la profondità che serve per trattare temi delicati come quelli che troverete in Artico nero.
Meschiari non fa sconti a nessuno, il suo sguardo è profondamente critico e libertario e riesce, attraverso le sue parole ordinate con arte tra antropologia e letteratura, a parlarci della tragedia che è stata la scolarizzazione forzata per gli indigeni e della conseguente perdita della lingua nativa, dell'obbligo alla sedentarietà, o della confisca delle renne, ma non solo; ci racconta dell'arresto e dell'uccisione degli sciamani, considerati pericolosi dai colonizzatori per la loro forza e il loro carisma, della conversione del pastore-cacciatore in operaio-minatore o contadino. Culture millenarie di caccia e raccolta strettamente dipendenti da raffinati saperi ecologici, naturalistici, venatori che usavano l'animismo come un collante cognitivo e che per questo è stato distrutto, per colonizzarli al meglio.
Ho trovato estremamente interessante l'aspetto che unisce colonizzazione e spazio abitativo, la casa per l'uomo non è solamente un luogo dove risiedere ma è un essere tra lo spazio e il tempo. Meschiari collega l'aumento del tasso dei suicidi degli anni Settanta del '900 in Groenlandia proprio al concetto danese (ovvero dei colonizzatori) di città e spazio abitativo imposto alle popolazioni indigene e si chiede: che cos'è una città?
Non sono sicuramente la quantità di supermercati, di case o prigioni a fare una città. Pensarsi luogo, pensarsi paesaggio, pensarsi casa, pensarsi mondo è qualcosa di più complesso che un insieme di servizi emanati da uno stato assistenziale. Il modo di pensarsi danese, quello della modernità occidentale, non è il modo di pensarsi groenlandese.
La creazione della città e della casa moderna ha contributo alla distruzione della cultura Inuit, un mondo dinamico e ricorsivo che è stato fatto scivolare in uno stato nazione con le sue angoscianti simmetrie, gerarchie, teologie claustrofobiche e distruttive per la popolazione indigena che in molti, troppi casi ha preferito togliersi la vita piuttosto che vedersi addomesticata dai colonizzatori.
La stessa problematica la vivono anche i Sami che, costretti in una casa “moderna”, si sono sentiti incarcerati; il loro movimento nomadico incorporava il paesaggio nello spazio domestico e lo spazio domestico si dilatava fino a incorporare il paesaggio. Il corpo Sami si muove nello spazio e anche la sua casa si muove perché anche la casa è un corpo. L'Iglù non veniva trasportato ma ricostruito ogni volta e questo ha a che fare con il saper fare delle culture indigene, quello che il capitalismo cerca di espropriarci per renderci più docili grazie alla falsa utopia del comfort. Il processo di sedentarizzazione ha portato a una trasformazione radicale nella concezione dello spazio domestico. La casa prefabbricata non è più un corpo, non è più il meta-animale, la meta-persona che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti, di fatto si converte in un dispositivo di chiusura e di esclusione.
Colonizzazione violenta
Con le nuove case per i Sami è venuto a mancare l'intenso regime di visite che rinsaldava la comunità. L'economia della condivisone, del dono, dell'assenza di proprietà privata comincia a crollare sotto il nome del progresso e del comfort occidentale. La casa, un tempo rifugio aperto e includente si è convertita nel processo di colonizzazione, in un apparecchio di cancellazione e riprogrammazione culturale.
Una colonizzazione violenta che ha separato famiglie, saccheggiato, inquinato, militarizzato e distrutto territori vergini, da sempre in equilibrio con gli abitanti indigeni. Colonizzazione che con il crollo dell'impero sovietico, dice Meschiari, ha lasciato ai bordi della mappa un paesaggio calcinato, migliaia di villaggi che svolgevano un ruolo satellite nelle economie occidentali di frontiera sono stati abbandonati a se stessi, Stalin li ha voluti trasformare da selvaggi a proletari ma non tutti hanno accettato, molti si dispersero nella tundra vivendo anni di illegalità e anonimato. Resilienza silenziosa ma anche resistenza frontale violenta, e a volte armata. Sarebbe interessante produrre qualche ricerca su queste resistenze ancor più sconosciute della colonizzazione di questi territori.
Usando, per concludere, le parole dell'autore: Questo libro vuole spiegare il colonialismo e i suoi trucchi. Alcol, stato di diritto, silenzio e disinformazione, modelli fuori portata, promesse non mantenute, denaro e diversificazione della povertà ma soprattutto la costruzione scientifica dell'altro.
Andrea Staid
- Matteo Meschiari, Artico Nero. La
lunga notte dei popoli dei ghiacci (Exòrma Edizioni,
Roma, 2016, pp. 168, € 14,50).
- Ibidem.
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