rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017






Linguaggio e potere

Arrival (D. Villeneuve, 2016) è una strana storia, che si aggancia deliberatamente al filone di narrazioni utopiche capaci di scegliere una strada diametralmente opposta al mercato e di perlustrare un territorio più complicato e meno esplorato, con una cifra meditativa che, lo si sa, non è mai stata il modo migliore per aver successo. Nel descrivere un primo contatto tra alieni e umani, il film introduce la questione del linguaggio come collante che tiene insieme una comunità, ma anche come arma imperialistica molto efficace. A un certo punto, nella vicenda, la linguista Louise Banks racconta al colonnello Weber, scettico sulla necessità di instaurare un ponte comunicativo con gli alieni, la storia di come il capitano James Cook nel 1775, approdando alla costa australiana, avesse incontrato un gruppo di aborigeni e, intravvedendo un canguro, lo avesse indicato. Gli aborigeni avevano risposto: “Kangaroo”. La parola era stata interpretata come una designazione dell'animale, quando invece significava “Non capisco”. Un malinteso avrebbe determinato la scelta di un termine preciso, caricandolo di un senso che non era quello originario. Alla lettera, essa aveva cioè creato un mondo.
Nei contatti con popolazioni altre, nel rapporto tra occidente e quel che occidente non è, la relazione linguistica tra due culture è spesso stata usata, più che come strumento di comprensione, come pratica imperialista, metodo per imporre una visione del mondo. Alla fine dell'Ottocento, Leopoldo II, capitanando l'impresa economica di colonizzazione del Congo, faceva sottoporre ai capitribù contratti scritti in una lingua per loro incomprensibile e strutturati in modo tale da ottenere il consenso dei nativi a farsi schiavi. Come sia finita, lo si sa. Quel che è più complicato capire è come questa pratica sia sopravvissuta alla storia e sia ancora oggi del tutto operante.

Foto di Paolo Poce

La strategia degli occidentali

In un romanzo del 2008, anch'esso genericamente catalogabile come distopico, Will Self descrive il processo di colonizzazione e ricolonizzzazione di un'isola esotica della quale non viene detto il nome (Una sfortunata mattina di mezza estate). Apparentemente, la popolazione indigena dell'isola sarebbe stata sterminata dalla prima ondata imperialista, per poi essere “ricreata”, alla lettera, dalla seconda ondata: i nuovi colonizzatori avrebbero cioè ricostruito la popolazione indigena, rimodellandone usi, costumi, sistema normativo e, soprattutto, lingua.
La storia di Self è un grottesco, illuminante apologo, semplificato ma per questo utile, sui processi di colonizzazione. Esso comincia, e trova la sua arma più potente, nel linguaggio, utilizzato dai nuovi colonizzatori non come la semplice istituzione, meccanica e funzionale, di un rapporto tra le parole e le cose, ma come ricostruzione tutt'altro che neutrale di una cultura che nei fatti e nella storia reale delle comunità indigene descritte da Self proprio non esisteva.
A pensarci bene, il processo non è tanto diverso a quel che accade oggi nei CIE (Centri di identificazione ed espulsione) sparpagliati lungo le coste settentrionali del Mediterraneo. Raccolti in mare o approdati fortunosamente sulla terraferma, i migranti vengono immediatamente “denominati”, cioè infilati in una casella riconoscibile: sono richiedenti asilo, migranti economici, rifugiati, soggetti vulnerabili, minori non accompagnati… Le definizioni in sé appaiono al tempo stesso neutre e rassicuranti. Crediamo di capire – come il colonnello Cook – e questa comprensione ha due effetti: ci fa sentire intelligenti e civilizzati e ci permette di coltivare l'illusione di essere al tempo stesso “buoni” e più forti. Il fatto è che nessuna definizione è davvero corrispondente alla realtà: ne fornisce solo una rappresentazione, che, come sempre, è funzionale al mantenimento di una relazione gerarchica, nella quale c'è qualcuno che è “padrone del linguaggio” (e attraverso esso esercita il suo potere) e qualcuno che, invece, lo subisce.
Così ogni etichetta designa una categoria di migrante, e a ogni categoria corrisponde un sistema normativo, che viene esercitato a prescindere dall'adeguatezza dell'etichetta nel riassumere la storia personale, la cultura, la natura della comunità di provenienza. La strategia funziona benissimo per noi occidentali, un po' meno per la risoluzione dei mille, inimmaginabili problemi di chi migra.

Foto di Paolo Poce

Un dubbio utile

E torno alla letteratura e all'arte, che sono lo strumento migliore per riflettere sulla natura paradossale del linguaggio: esso serve per dar senso al mondo, ma questo senso è impregnato di potere, e dipende in modo determinante da chi esercita la sua autorità su chi. In Little Bee (Chris Cleave, 2008), la protagonista è una ragazzina nigeriana che comincia a raccontare la sua storia mentre è chiusa in un CIE inglese, dove ha passato alcuni anni. Little Bee adesso sa l'inglese, e dunque può rivolgersi direttamente alla regina d'Inghilterra per perorare la sua causa. Il fatto è che il suo inglese è riconoscibile. Non è “l'inglese della regina” e dunque è una lingua che la etichetta immediatamente come “non appartenente”. Il senso delle sue parole è confuso, i significati non passano e possono essere fraintesi, la comunicazione mantiene una relazione gerarchica che è, per Little Bee, l'origine di tutti i suoi guai.
Lo diciamo sempre: se vengono da noi, devono imparare la nostra lingua e adeguarsi alle nostre regole. Ma se davvero non avessimo compreso? Se “Kangaroo” non significasse “canguro”? È un dubbio utile, specialmente oggi, e l'arte è la patria del dubbio.
Così forse è importante tornare ad Arrival e al dialogo dal quale sono partita. Alla fine della conversazione, Louise Banks rivela che la sua storia è completamente inventata. Ma è una buona storia, perché dimostra qualcosa di vero: il linguaggio è potere. La rappresentazione è un'attribuzione di senso. E di questo senso noi facciamo, in ogni momento, individualmente e collettivamente, lo strumento per costruire il mondo. Se bene o male, dipende da noi.

Nicoletta Vallorani