rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017





Esiste un mondo a venire?

Alluvioni, terremoti, siccità estrema, frane, sono all'ordine del giorno in tutto il pianeta. Inutile dire “è la natura che fa il suo corso” perché la realtà è diversa e lo sappiamo bene. Il nostro stile di vita ha distrutto “Gaia”, i nostri consumi, le nostre pratiche sono insostenibili e cominciamo tutti a pagarne le conseguenze. Siamo nell'era dell'antropocene, l'era geologica attuale nella quale noi animali umani con i nostri iper consumi e stili di vita abbiamo modificato interi territori in modo strutturale, inquinato acqua aria e terra e portando a cambiamenti climatici senza precedenti.
Sono decenni che gli ecologisti, e più in generale tutte le persone con un minimo di coscienza, hanno capito l'importanza di vivere in modo diverso da quello dell'iper consumo capitalista.
Fin da piccolo ho sempre avuto a cuore la questione ecologista profonda e tanti sono stati i movimenti libertari che mi hanno influenzato, movimenti conflittuali e intellettuali che hanno posto al centro del loro discorso politico la natura, gli animali non umani e i loro rapporto con gli animali umani. Imprescindibili le letture dei teorici come Murray Bookchin, Élisée Reclus, Pëtr Kropotkin, Henry David Thoreau, delle riviste militanti come Earth First, Terra Selvaggia, Green Anarchism.
Gli “anarchici verdi” si sono opposti fin dagli anni Settanta all'antropocentrismo e alla tecnocrazia, propugnando una profonda e intima connessione dell'individuo con la natura. Per i nuovi “anarchici verdi”, l'individualità viene quindi percepita come uno dei tanti elementi dell'universo, ognuno dei quali unico e indispensabile, senza alcuna gerarchia d'importanza; secondo molti individualisti questo sarebbe anche un modo per percepire l'unicità della propria esistenza, permettendo l'inizio della propria emancipazione individuale. Tanti di questi concetti e altri ancora più profondi e innovativi li ho ritrovati nel bellissimo volume pubblicato da Nottetempo e scritto a quattro mani da Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro dal titolo Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (Nottetempo, Milano, 2017, pp. 320, € 17,00) tradotto in modo egregio da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri.
Un testo importante che, attraverso un approccio filosofico antropologico, analizza il perché dei cambiamenti climatici, della sparizione di molte specie animali e delle catastrofi naturali in relazione alla possibilità che possa esistere un futuro per noi animali umani sul pianeta Terra. Un testo che non ci dice solamente che stiamo per scomparire e che abbiamo violentato Gaia e lo stiamo ancora facendo, ma che ci dà anche qualche possibilità di resistenza e di costruzione di un avvenire possibile. Secondo gli autori per “salvarci” sarebbe utile una ripresa di concetti cari agli indigeni amerindiani, alla loro cosmopolitica ovvero la loro concezione pluralista delle specie viventi. Noi animali umani non siamo superiori a nessun animale o vegetale, non dobbiamo dominare gli altri, ma metterci in relazione con essi. Del resto già Günther Anders molti anni addietro scriveva che il crollo della cosmologia geocentrica è stato rapidamente compensato, nel pensiero moderno, da un'assolutizzazione antropocentrica della storia. Questo modo di pensarsi nel mondo ha reso gli animali umani un'entità biologica divenuta forza geofisica capace di destabilizzare le condizioni limite della propria esistenza. Il soggetto costituente moderno è un'allucinazione narcisistica, noi umani ci guardiamo continuamente allo specchio e vediamo solo la nostra immagine riflessa senza vedere il resto che ci sta crollando sopra.
Il nostro mondo è divenuto troppo umano, questo è il problema centrale da risolvere. Per le popolazioni amerindie, per questi “altri umani”, i concetti sugli animali umani sono diversi dai nostri. Il mondo, quello che noi chiamiamo mondo naturale è per le popolazioni amazzoniche una molteplicità di moltiplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie sono concepite come altrettanti tipi di persone, come delle entità politiche. Non è il giaguaro a essere “umano”: sono i giaguari individuali ad acquisire una dimensione soggettiva, grazie al fatto di essere percepiti con una “società” alle spalle. Un'alterità politica e collettiva. “Gli amerindi pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un'arena internazionale, una cosmopoliteia”.
Non esiste dunque differenza assoluta di statuto tra società e ambiente, come se la prima fosse il soggetto e il secondo l'oggetto. Ogni oggetto è sempre un altro soggetto, sia esso animale umano, giaguaro o montagna. Questa concezione del mondo plurale ribalta una concezione cara a “noi” occidentali ossia è la natura che nasce o si separa dalla cultura e non il contrario come per la nostra antropologia o filosofia. Gli amerindi fanno parte della gigantesca minoranza di popoli che non sono mai stati moderni, poiché non hanno mai avuto un concetto di natura e quindi non l'hanno mai persa né hanno mai sentito il bisogno di liberarsene.
Un punto importante di questo testo è quello che Viveiros de Castro chiama “prospettivismo amerindio”, secondo cui ogni specie di esistenti vede se stessa come umana (anatomicamente e culturalmente), poiché ciò che vede di se stessa è la sua “anima”, un'immagine interna che è come l'ombra o l'eco dello stato umanoide ancestrale di tutti gli esistenti. L'anima è sempre antropomorfa, è l'aspetto degli esistenti che essi vedono quando guardano verso o interagiscono con gli esseri della stessa specie - è questo che, in verità, definisce la nozione stessa di specie.
Per capirci meglio, quando un giaguaro guarda un altro giaguaro, vede un uomo, un indio; ma quando guarda un uomo - quello che gli indios vedono come un uomo - vede una scimmia, poiché è la selvaggina più apprezzata tra gli indios amazzonici. Così tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano; ma non vede le altre specie in quanto tali. L'umanità è sia una condizione universale che una prospettiva strettamente deittica e autoreferenziale.
Quindi per gli amerindi gli animali non sono umani, ma non sono umani per loro, sanno allo stesso tempo che loro non sono umani per gli animali che tra loro si vedono come umani, ecco perché ogni interazione interspecifica nel mondo amerindio è un affare internazionale, una negoziazione diplomatica o un'operazione di guerra che deve essere condotta con la massima circospezione. È per l'appunto cosmopolitica. Gli amerindi, come tutti gli esseri umani e come tutti gli animali, hanno bisogno di mangiare e quindi di distruggere altre forme di vita per vivere. Sanno che l'azione umana lascia inevitabilmente un'impronta ecologica nel mondo. Per loro, la differenza risiede nel fatto che il suolo che calpestano è anche vivente e sempre all'erta, essendo spesso un dominio gelosamente custodito da qualche super-soggetto come lo spirito-padrone della foresta, del fiume, della montagna o della miniera. Ciò richiede che si faccia molta attenzione a dove si mettono i piedi perché ci sono “anime ovunque”.
La proposta degli autori che condivido quasi completamente è quella di rilanciare un principio antropomorfico (che prenda spunto dalle cosmogonie amerindie) in grado di contrastare il principio antropocentrico che abbiamo come una delle radici più profonde della metafisica occidentale e che ci ha portato a distruggere il pianeta che ci ospita. Dire che tutto è umano come gli amerindi è come dire che gli umani non sono una specie speciale, un evento eccezionale venuto a interrompere in modo grandioso o tragico la monotona traiettoria della materia dell'universo.
Riposizionarsi nell'universo, non sentirsi superiori ma rispettare le altre specie viventi cercando di smetterla di distruggere Gaia, per usare le parole degli autori; dobbiamo fomentare un'insurrezione culturale contro il processo di zoombificazione del cittadino-consumatore.

Andrea Staid