rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017


arte

Anarchici, bandiere, Rom, identità...

intervista a Luca Vitone di Franco Buncuga


In occasione di una sua mostra personale, in corso a Milano, intervistiamo l'artista sui suoi lavori, sui vent'anni della sua amicizia con “A”, sul suo lavoro con i Rom tedeschi e altro ancora.


Incontro Luca Vitone nel suo studio milanese approfittando del suo breve passaggio tra la sua Genova e la sua nuova città di adozione, Berlino. L'occasione è la mostra Io, Luca Vitone che dal 12 ottobre al 3 dicembre 2017 si articola in ben tre dei più significativi spazi espositivi a Milano, un raro evento nell'ambito dell'arte contemporanea: al Padiglione di Arte Contemporanea (PAC) ci saranno le sue opere “ambientali”, in cui Vitone descrive e suggerisce territori, spazi e storie; nei Chiostri di Sant'Eustorgio al Museo Diocesano opere più affini alla scultura; per l'occasione, poi, il Museo del Novecento espone per la prima volta un'opera dal sapore più “pubblico” che aveva acquistato negli anni passati.
Luca Vitone è da molti anni simpatizzante della nostra rivista con la quale ha anche collaborato, stabilendo un forte legame con Paolo Finzi, che per l'occasione ha redatto un breve commento a un'opera di Luca sul catalogo della mostra milanese. La nostra lunga chiacchierata si svolge sotto la benedizione di una storica bandiera anarchica che campeggia su una parete, tutta nera, bordata di rosso, come da tradizione antica, e come nelle sue installazioni con le bandiere anarchiche di cui vi daremo atto in questo breve resoconto.

Colonia, galleria Nagel, 1994 - Veduta dell'inaugurazione
della mostra Der unbestimmte Ort (Il luogo imprecisato)
Foto di Andrea Stappert

Franco - Non possiamo non partire dal breve intervento di Paolo per il tuo catalogo della mostra milanese. Nel suo commento alla tua opera Paolo parla di competenza, originalità e serietà quale caratteristica dei tuoi lavori e di una concreta conoscenza dei temi e dei valori anarchici. C'è evidentemente un rapporto di grande stima nei tuoi confronti, a quando risale e come inizia il tuo rapporto con Paolo e con la nostra rivista?
Luca - Abbiamo (userei il plurale perché il frutto del lavoro nasce da una collaborazione tra me e i due curatori della mostra, Luca Lo Pinto e Diego Sileo) pensato di organizzare il catalogo monografico, che uscirà in occasione della mostra, raccontando settantadue mie opere, o corpi d'opera, ognuna delle quali accompagnata dallo scritto di una persona con cui negli anni ho collaborato. Ad esempio ho chiesto interventi a Franco La Cecla su un'opera che ha come protagonista il cibo, a Giorgio Galli sul lavoro di Bologna sulla P2, ad Andrea Cortellessa, a Marco Belpoliti, all'architetto Mirko Zardini e poi a varie altre persone tra cui critici, curatori, galleristi, collezionisti con i quali negli anni sono entrato in contatto.
Ognuno ha avuto la libertà di scrivere il commento ad una mia opera nei modi a lui più consoni. Uno di questi commenti è quello di Paolo, sul mio lavoro liberi tutti! che coinvolgeva temi specificamente anarchici. Ho chiesto questo particolare intervento a Paolo anche perché lui nel '97, in occasione di liberi tutti! presentato a Roma, mi aveva convinto a scrivere su “A” un breve testo di tre pagine per illustrare la mia opera. Paolo dimostra in questo testo di essere molto generoso nei miei confronti, le sue parole mi mettono quasi in imbarazzo e, sarà la mia timidezza, ma mi sembrano eccessive. Io e Paolo ci siamo conosciuti verso la metà degli anni novanta, la prima volta che sono stato in redazione.
In quel periodo leggevo molti libri di Elèuthera, molti dei titoli in catalogo erano vicini ai miei interessi. Nell'autunno del '95 stavo lavorando a Colonia al progetto liberi tutti! che sarebbe stato esposto l'anno successivo a giugno a Basilea e in quel periodo ero andato all'Archivio Pinelli a fare delle ricerche sugli anarchici di quella città e anche a conoscere la redazione di Elèuthera che occupava gli stessi locali. In quell'occasione scoprii che al piano di sopra c'era la redazione della Rivista Anarchica e andai di sopra a curiosare. Certo da studente conoscevo “A”, ne ho ancora diversi numeri spaiati, ma ho iniziato a comprarla con regolarità solo dopo aver conosciuto Paolo.
Premetto che per quanto mi sia sempre sentito un libertario, non so se mi sono mai sentito, soprattutto all'epoca, veramente un anarchico. Comunque in quell'occasione ho scoperto che Elèuthera era una casa editrice con una forte radice anarchica e che trattava temi molto affini ai miei interessi in quel periodo, così come la rivista A.

Roma, 1997, progetto liberi tutti! di Luca Vitone - La bandiera in nylon posta vicino...

Quel viaggio a Carrara

La rivista A, così come in un altro settore l'editrice Elèuthera, da tempo non si occupano solo di argomenti di stretta matrice anarchica, ma sono anche molto aperti ad un'area culturale libertaria più vasta ed eterogenea.
È proprio questo che mi aveva piacevolmente colpito, e soprattutto entrambe trattavano temi che mi interessavano per la mia ricerca topologica e geografica a cavallo tra gli anni '80 e i primi anni '90. Per il mio lavoro era molto importante la cartografia ed erano molto importanti i temi toccati dall'urbanistica, dall'architettura, dall'antropologia. Avevo scoperto il bellissimo Perdersi di Franco La Cecla leggendo La Talpa, un inserto de il manifesto di quell'epoca che usciva il giovedì, proprio nel periodo in cui stavo allestendo la mia prima mostra alla Galleria Pinta di Genova (era il 1988), la cui planimetria avevo riprodotto su carta a scala 1:1, fotocopiata e posata sul pavimento. Volevo con questa azione creare un'ideale simulazione del luogo, una sua duplicazione, che divenisse concreta solo attraverso il movimento e le impronte lasciate a testimonianza dai visitatori.
Quando ho letto il libro di Franco La Cecla ho trovato forte corrispondenza con le mie sperimentazioni; per me, anche se dopo ho letto e apprezzato molti suoi titoli, rimane ancora il suo libro a cui sono più affezionato. Poi ovviamente ho letto molti dei libri pubblicati da Elèuthera sugli argomenti che mi interessano, le tue conversazioni con De Carlo, che è un personaggio importante per i temi che tratto, i libri di Ivan Ilich e poi soprattutto quelli di Colin Ward che mi ha aperto nuovi orizzonti e che ritengo non solo un grande dell'anarchia, ma anche un importantissimo intellettuale a tutto campo.
È stato così che ho cominciato a frequentare le due redazioni, che per me poi voleva dire Paolo e Rossella, che in seguito sono diventati degli amici.

Che all'epoca erano vicini di casa.
In più con Paolo ho scoperto di avere degli interessi in comune, ad esempio per il mondo Rom con il quale ero venuto in contatto l'anno prima per una mia opera. Con Rossella abbiamo in seguito realizzato il libro Non è cosa – non siamo mai soli insieme a Franco La Cecla con cui lei mi aveva messo in contatto. Nel '94 avevo fatto un progetto nel quale raccontavo gli oggetti che si trovano negli appartamenti, in particolare in quindici appartamenti della mia memoria.
Dopo aver letto i suoi libri ho pensato che Franco poteva essere l'interlocutore ideale per questo progetto. Il frutto della nostra collaborazione doveva risolversi in un catalogo per una mostra a Bologna, nel '95 o '96, che avrebbe dovuto esporre tutte le quindici opere. Questa mostra all'ultimo momento salta proprio perché la galleria si dichiara non più disponibile a realizzare il catalogo, cosa che ritenevo fondamentale per l'unità del progetto. A quel punto mi sono impuntato e non se ne è fatto più nulla. Franco avrebbe dovuto scrivere solo un testo affiancato al mio con il supporto di quindici immagini. È da quel catalogo mai nato che ha origine il libro attuale.

Col tempo le relazioni con Paolo sono diventate una buona amicizia.
Sì, perché le conversazioni con Paolo sono sempre state frutto di una riflessione sul mondo che, insieme alle parole di Ward, diventano fondamentali per un mio maggiore avvicinamento all'idea anarchica, anche senza mai diventare militante. E l'A rivista mi si rivela come portavoce di quell'anarchismo che mi era più congeniale: non violento e contro ogni dogmatismo, anche il proprio (io credo che ognuno di noi ha in fondo un po' di dogmatismo con cui deve combattere quotidianamente), che sa dar voce a chi si oppone o viene emarginato dall'autorità, una rivista che sa ascoltare e riporta senza moralismi ciò che ha ascoltato. La mia conoscenza di cosa fosse l'anarchismo nei primi anni Novanta era ancora vaga. Nei ricordi della mia infanzia ho una bella immagine, l'esperienza di una manifestazione di anarchici. Ero a Genova in piazza De Ferrari, tenuto per mano da mio papà, ed ho nella memoria lui che mi racconta in poche parole quello che sta avvenendo: “vedi, quella è la polizia, che sta dalla parte dei fascisti” e aggiunge: “e quelli sono gli anarchici che sono i buoni”, o qualcosa di simile, e io che gli chiedo: “e tu perché non sei anarchico allora?” “Perché essere anarchico è troppo difficile”. Lui è stato partigiano in Giustizia e Libertà, diventato comunista anche se sempre molto aperto alla libertà di pensiero e per gli anarchici aveva un grande rispetto.

Tu poi hai fatto insieme a Paolo e ad Aurora Failla una bella esperienza a Carrara dove hai realizzato una tua opera.
Quella fu la terza edizione del progetto liberi tutti!, una decina di anni dopo Roma, nel 2008. In occasione della Biennale della Scultura di Carrara ho realizzato un leporello composto da nove cartoline per raccontare i luoghi significativi della città, capitale per antonomasia dell'anarchia. Una pubblicazione a distribuzione gratuita, una sorta di scultura portatile, che raccontava il vissuto anarchico della città. Ho deciso di realizzare una terza volta il progetto liberi tutti! perché fare a Carrara un percorso anarchico è un po' come fare un itinerario del Barocco a Roma, le cose vanno da sole. Per realizzare l'opuscolo ho scelto, con l'aiuto di Paolo e di Aurora nove luoghi da illustrare nella pubblicazione e poi ho chiesto a Paolo di scrivermi un testo.
Con Aurora ho trascorso una giornata molto simpatica a spasso per Carrara. Lei ha voluto farmi conoscere tutti i vecchi anarchici ai quali spiegava le mie intenzioni. Ricordo che ero anche un po' imbarazzato davanti alle aspettative che Aurora instillava in tutti quelli che incontravamo.

Biennale di Venezia, 2013 - particolare dell'opera Il sol dell'avvenire
di Luca Vitone presso il padiglione dell'America Latina
Foto di Floriana Giacinti

Non solo nomadi

Anche il tuo interesse per il mondo dei Rom in qualche modo ti avvicina a Paolo, cosa c'è in questo popolo particolare che ti ha incuriosito? Come ti sei avvicinato a questo mondo?
Mi ero avvicinato per motivi diversi in quegli anni al mondo dei Rom, un po' perché mi incuriosiva ma forse anche perché lo mettevo in relazione con un grande amore adolescenziale che avevo avuto per gli indiani d'America, categoria che poi per me comprendeva un po' tutte le popolazioni di “nativi” americani, dagli antichi popoli Incas per arrivare agli Inuit del circolo polare artico: argomenti sui quali soprattutto in quegli anni ho letto tanto.

Come hai messo in relazione gli zingari con questo tipo di popolazioni?
I Rom sono gli stranieri meno stranieri d'Europa ma contemporaneamente considerati i più estranei alla nostra cultura, un utile capo espiatorio in ogni occasione ed emarginati da tutti. Mi metteva curiosità capire perché noi che siamo pronti ad appoggiare e fare collette in solidarietà dell'indio dell'Amazzonia, dell'aborigeno australiano, dell'africano di Soweto, delle lotte degli indiani americani, quando saliamo sul treno e incontriamo uno zingaro cambiamo schifati scompartimento. Questo atteggiamento non ha senso! Approfondendo l'argomento mi sono reso conto che cadiamo tutti nello stesso fraintendimento nei loro confronti, come mi spiegava Stefan Januz della comunità di Colonia, nel malinteso di considerarli esclusivamente dei nomadi, cosa che non sempre necessariamente sono o sono stati, e di conseguenza escluderli.
Io mi riconosco come un essere sedentario che si sente di appartenere a un luogo, di avere radici precise, un riferimento riconoscibile, sia esso il pesto o il tralallero, il mare o la casa dove sono nato e mi sono chiesto: qual è il luogo con il quale un nomade si identifica? Vien da dire in se stesso, o in qualcosa che alla fine si porta con sé, possono esserci anche dei luoghi mobili. Questa riflessione mi intrigava e quando Nagel, all'epoca importante gallerista europeo mi propone di fare una mostra da lui, un po' forse per sfida, o per vedere le sue reazioni, gli propongo la cosa che mi sembrava la più difficile da realizzare, la più impensabile: “facciamo una mostra coinvolgendo la comunità Rom” e gli spiego le mie ragioni. Con mia grande sorpresa accetta subito e da qui nasce nel 1994 l'esposizione Der unbestimmte Ort, (il luogo imprecisato).
Ho coinvolto sin dall'inizio del progetto la comunità Rom a Colonia, e abbiamo pensato l'evento insieme, io come artista ho utilizzato i mie linguaggi specifici e quindi l'uso di fotocopie, gli strumenti utili per l'allestimento che prevedeva il cibo, la musica, tutto quello che poteva favorire un'esperienza personale generando situazioni di convivialità. Con una serie di accorgimenti: nel cortile un gruppo di musicisti Rom ha suonato per tutta la giornata, inauguriamo la mostra il sabato a pranzo invece che nel classico giorno infrasettimanale alla sera per far in modo di avere tutto il pomeriggio davanti a noi, viene proposto il cibo in degustazione preparato dalla comunità, si ascolta musica dal vivo anche per ballare e su due pianerottoli delle scale della galleria dietro a dei separé trovano posto due chiromanti, una che legge le carte, una la mano per dieci marchi a seduta.
Nella mostra erano presenti altre quattro opere: una delle quali realizzata insieme ai ragazzi della comunità sul rapporto tra loro, in quanto comunità Rom, e gli “altri”, tedeschi o turchi che siano; una sull'idea dell'emigrazione dall'india verso l'Europa; una sulla lingua e il suo non essere scritta e una sulla memoria storica recente in Germania e quindi il porrajmos (la shoah zingara). Sotto il nazismo i rom e i sinti, in quanto indoeuropei e quindi di ceppo ariano, vennero studiati in una struttura concentrazionaria attorno a Berlino per capire se ci fossero affinità con la razza tedesca, ma la loro indole, per così dire indisciplinata, li ha fatti alla fine considerare degli asociali ed essere deportati in vari campi di concentramento e di sterminio. Ad Auschwitz vennero rinchiusi tutti insieme, senza essere separati tra femmine e maschi, per non creare problemi alle altre comunità internate a differenza delle quali erano considerati un problema di tipo sociale, piuttosto che razziale o politico.

Quella anarchica è una bandiera stramba

Sembra assodato che vengano dall'India, dunque ragionevolmente indo-europei, o di razza ariana come dicevano i nazisti. E le bandiere che hai fatto sugli zingari sono di quel periodo?
No, posteriori di qualche anno. Dopo aver fatto questa mostra con i Rom a Colonia in altre occasioni mi avevano chiesto di fare interventi simili. Ho quasi sempre declinato l'invito, non volevo essere identificato come l'artista amico dei Rom, semplicemente in quel periodo volevo ragionare sul concetto di appartenenza e di identificazione con i luoghi in una comunità nomade e la cosa più utile e corretta mi è sembrata quella di lavorare direttamente con loro, senza contare che per me quel progetto è anche una riflessione su cosa si possa intendere per scultura e quella festa, quel incontro, io la considero una scultura ambientale. Una cosa che mi incuriosiva è il senso del loro darsi una bandiera, un atto che va al di là del convenzionale. Non è mai esistita tradizionalmente una loro bandiera, non ne hanno mai avuto bisogno, non hanno mai avuto una nazione, né un esercito o un'ideologia da propagandare.
Pensandoci bene già quella anarchica è una bandiera stramba perché è sì il vessillo di un'ideologia ma un'ideologia talmente aperta e talmente contraddittoria che nell'opinione comune è spesso considerata impossibile. È una bandiera che veicola un'idea, un qualcosa che può essere esperito prima in modo individuale che collettivo, attraverso quella particolare forma di consapevolezza di cui parla Colin Ward. Se un individuo non riesce a dare forma viva, ad immaginare quella impossibilità insita nell'idea, non potrà mai essere veramente anarchico. La bandiera dei Rom è composta da una banda azzurra ed una verde con al centro una ruota rossa, che si identifica istintivamente con una ruota di carro, forse anche questo è frutto del malinteso sul nomadismo. Però il simbolo mi piace e a me funziona.

Mi viene in mente la bandiera indiana. A quando risale?
Infatti la bandiera Rom prende spunto proprio da quella indiana che ha al centro la ruota vedica della vita, ed è un simbolo che vuole rappresentare il loro luogo di provenienza, l'India, dalla quale sono partiti intorno al Nono Secolo per muoversi verso occidente. La bandiera è molto recente in realtà, risale ai primi anni '70 ed è stata decisa dall'Unione Internazionale Romanì per salvaguardare la propria identità culturale. L'evento coincide con l'essere ammessi nelle Nazioni Unite come minoranza etnica, per cui hanno dovuto munirsi di una bandiera, come tutti i popoli rappresentati nell'assemblea.

C'è bisogno di un simbolo per darsi identità, in questo caso di una bandiera sulla quale poi accumulare una serie di elementi identitari, reali o fittizi che siano.
Questa bandiera ovviamente mi ha subito affascinato per la sua intrinseca inconsistenza e l'ho anche riprodotta nella mostra di Colonia, dipinta sul muro, con i due colori e una ruota di carro incastrata dentro la parete. In seguito ho lavorato anche utilizzando la bandiera anarchica scegliendo come base, tra le varie che ho recuperato, il disegno di quella appesa qui nel mio studio, nera con attorno un bordo rosso. A un certo punto nel 2002 per il progetto di un'opera, dovevo inventarmi un'oggetto, un segno che fosse agevole da trasportare, qualcosa da installare su un'imbarcazione.
La mostra girava per l'Europa navigando sui canali partendo da Dresda, era una mostra fatta da giovani artisti che mi avevano chiesto un contributo e io ho proposto una bandiera. La nave ha sempre una bandiera: ma che bandiera dargli? Ero indeciso tra quella anarchica e quella Rom, ma nessuna delle due mi convinceva del tutto e allora mi sono inventato una bandiera nera con al centro una ruota rossa, ho messo insieme le due cose. Ho fatto una sintesi tra le due idee. Dando adito una volta di più al malinteso occidentale del nomadismo sostanziale e irriducibile dei Rom.

Nostra patria è il mondo intero sotto forma di bandiera.
Esatto! Nostra patria è il mondo intero, volevo in questo modo affermare il desiderio e l'insopprimibile esigenza di viaggiare senza frontiere, anche in senso letterario, anche con l'immaginazione, per inseguire quel senso ideale di libertà che abbiamo solo quando ci confrontiamo soprattutto con noi stessi, prima che con gli altri, al fine di raggiungere un grado di consapevolezza che ci permetta di rapportarci con il prossimo con piena dignità. In un certo senso questo è quello che per me è l'anarchia, una forma elevata di rispetto per gli altri e per tutte le libertà possibili.
Quando in un'intervista nel 2000 mi hanno chiesto: “ma tu hai fatto le bandiere anarchiche perché sei anarchico?” ho risposto in maniera provocatoria: “no, faccio bandiere anarchiche in qualità di artista e questa realizzazione è parte di un mio itinerario, se mi fosse stato utile avrei riprodotto anche le bandiere bianche e gialle del Vaticano”.

Certo non hai fatto le bandiere zingare perché sei zingaro, credo...

Franco Buncuga


Liberi tutti!

Come introduzione a un capitolo del catalogo della mostra di Luca Vitone in corso a Milano, compare questo testo di un nostro redattore.

Luca è una persona seria.
Niente a che vedere con tanti artisti che nei decenni ci hanno contattato per chiederci informazioni, consulenze, aiuto in merito a loro progetti inerenti l'anarchia.
Gran parte di quegli artisti aveva un'idea sicuramente simpatica e simpatetica dell'anarchia, ma di quel “comune sentire” che poco ha a che fare con le idee e i movimenti degli anarchici – lo scrivo al plurale per sottolinearne le diverse sensibilità. E tematiche.
Luca mi ha colpito, fin dal nostro primo incontro a metà degli anni Novanta, per la sua competenza e originalità.
Competenza perchè tutte le volte che mi parla di un aspetto dell'anarchismo di cui vorrebbe occuparsi (e viene qui in redazione per allargare le proprie conoscenze), ne sa qualcosa in più di noi. È andato sul posto, ha letto, cercato, riflettuto. E alla fine, come nel suo percorso “Liberi tutti!”, questa sua attenzione viene fuori in tutta la sua ricchezza. Si vedano, per esempio, i 22 “luoghi” dell'anarchismo romano da lui scelti per questo percorso attraverso la città, ciascuno significativo, evocativo delle diverse stagioni di un movimento – come quello anarchico – che ormai ha un secolo e mezzo ininterrotto di presenza e attività in Italia (e lo stesso vale anche per il suo tour nella svizzera Basilea).
Originalità perchè le modalità artistiche che ha utilizzato in varie sue realizzazioni (compresa “Liberi tutti!”) sono tra di loro differenti, mai scontate, sempre frutto di un ragionamento e di una sensibilità che sono essi stessi parte dell'opera d'arte.
Ogni volta che viene a trovarci nella redazione della rivista anarchica “A” ci lascia una valigia di vestiti per gli zingari. In continuità con il suo impegno, vent'anni fa, a Colonia, tra la comunità rom locale. Liberi tutti, anche i rom.
Il suo impegno artistico, culturale e sociale, che sa rinnovarsi ad ogni sua “opera”, ci accompagna.
Una bella persona, un amico e (davvero) un anarchico. Serio.

Paolo Finzi