rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017





Dr. Drer & Crc Posse/
Dalla Sardegna da 25 anni

Gerry Ferrara - Ci sono gruppi musicali in Sardegna che con lenta, meticolosa e consapevole opera rimuovono le incrostazioni e le incurie del tempo dai “soffitti e dalle volte della dogmatica icona dell'identità” di cui la terra sarda è protagonista e vittima al tempo stesso, sospesa in un tempo di fascinazione e incanto che permette ai nuovi crociati di costruire cattedrali nel deserto e saccheggiare le terre con la benedizione dei politici locali e statali, lasciando la gente schiava del proprio mito avvolta nelle bende dei 4 Mori. Dr. Drer & Crc Posse da molto tempo sono saliti “sull'impalcatura per il restauro e il ripristino di alcuni “affreschi sociali” di cui avevamo perso traccia.
A raccontarci il progetto e l'ultimo disco dei Dr. Drer & Crc Posse, il libero pensiero e la voce, ieratica, del gruppo, Michele Atzori. Partiamo dunque dal nome, dal senso e dal contesto storico-culturale con il quale, circa 25 anni fa, comincia il viaggio.

Michele Atzori - Nei primi anni '90 eravamo poco più che ventenni io e Silvestro, i fondatori della band, entrambi militanti dei movimenti, in particolare quelli contro la guerra e le basi militari. Alla ricerca continua di un nuovo modo di fare politica e sopratutto di comunicare, in un contesto generale sociale e culturale che stava cambiando, all'indietro e molto di corsa. È stato naturale ed immediato, e ricordo bene il momento, passare dall'ascolto del primo rap militante degli Onda Rossa Posse all'idea di attivarci su questo terreno.
Il nome, lo ammetto, è stato pensato in pochi secondi, proprio il pomeriggio in cui stavamo andando al nostro primo live. L'ho buttato lì senza pensarci e in quel momento ci è andato bene, quindi l'abbiamo tenuto. Esprime il senso, per chi si intende anche solo un pochino di meccanica, dell'ambizione di voler essere attori di un processo di disincrostazione, in opposizione a quello di disinformazione di massa che stava partendo in quegli anni con un nuovo corso, importante, proprio in occasione della prima guerra del Golfo.

È stata subito fondamentale la prerogativa all'utilizzo della lingua sarda e alla narrazione del contesto sociale di appartenenza. Quali sono stati i punti di contatto, o di riferimento, per elaborare e far evolvere il progetto senza che questo corresse il rischio di rimanere ingabbiato in un linguaggio speculare ad altre realtà sonore simili.
Oggi ti do una risposta ragionata, ma 25 anni fa credo che non ci siamo posti il problema, è stato tutto molto spontaneo ed immediato. Ovviamente hanno contato le nostre esperienze, il vissuto sociale e politico di quegli anni. I punti di riferimento inizialmente sono stati quasi completamente estranei alla musica, o se non lo erano, erano distanti dal mondo della black music. Venivamo dai cortei, dalle cricche in piazza, dalla curva, da Marley e dagli Area.
Non venivamo né dal mondo della musica, né tantomeno dagli ambienti dell'hip hop. Poi nel tempo abbiamo conosciuto questo mondo e ne abbiamo attinto rispettosamente.
Rispetto alla lingua sarda, più che scelta, è stato un utilizzo spontaneo. Inizi con una cantilena e vai avanti rima dopo rima, è iniziata così. Oggi è una scelta alla quale diamo ovviamente un valore importante, ma 25 anni fa è partita in maniera assolutamente spontanea.

È vero anche che in qualche modo siete punto di ispirazione e riferimento per altre realtà. Quanto vi gratifica tutto questo e quanto è faticoso per poter ogni volta proteggere e rinnovare il proprio linguaggio e, forse, il proprio pensiero, il proprio punto di vista.
Se siamo riferimento per altre realtà davvero non saprei, non vedo band ad esempio che han preso ispirazione da noi. Semmai, tornando indietro nel tempo, ti rendi conto di quanto quell'obiettivo ambizioso e spavaldo con il quale siamo partiti, di fatto fosse altissimo e difficile anche solo da sfiorare. Ma con qualche persona, individualmente, è servito, ha funzionato. Anche persone non necessariamente vicinissime a noi. Persone che ti raccontano a distanza di anni di come si sono avvicinate a alcune questioni, proprio perché noi abbiamo mosso o stimolato in quel senso. Oggi posso dire con grande soddisfazione che se questo è successo parecchie volte in 25 anni, tutto questo vale pienamente il senso di centinaia di concerti e migliaia di volte di canzoni cantate.
Rinnovare il linguaggio, per noi, è il semplice prendere spunto da cose che si ascoltano. Si tratta di rubare un linguaggio ma riuscendo a farlo tuo. Non c'è nulla che inventiamo, è lunga la lista di artisti o di elementi culturali da cui da cui ho attinto a piene mani per poi produrre canzoni che alla fine non assomigliano per nulla a ciò che ho preso a modello. È un processo abbastanza naturale per quanto mi riguarda.
Rinnovare il punto di vista sì, nel senso che è importante raccontare le storie facendo parlare i protagonisti. Anche quando la loro sensibilità non è coincidente con la mia.
Sul linguaggio invece inteso come lingua, nella fattispecie quella sarda, presto una maggiore attenzione. È però un'attenzione che mi diverte moltissimo. Poi ti dico come.

Identità e mito identitario

In una terra come la vostra dove la tradizione ha un peso notevole e ingombrante, dove il jazz, la world music, la letteratura, che occupano uno spazio rilevante nel panorama artistico sardo, troppo spesso si aggrappano alla fossile e sterile icona dell'identità, voi riuscite con il rap, il dub, l'elettronica, il funk e il ragamuffin (linguaggi che, permettimi l'azzardo e la provocazione, potrebbero essere la naturale evoluzione delle voci a Tenore o delle ipnotiche variazioni della trunfa, lo scacciapensieri sardo) ad essere naturali portatori e informatori, come nella migliore tradizione dei cantastorie, della forza e delle contraddizioni della terra sarda. Per quanto risulti sempre nitido e inconfutabile dalle cose che scrivi e racconti in musica, cosa puoi aggiungere rispetto a temi quali identità, lingua, appartenenza...
L'identità è un patrimonio collettivo di storia, cultura, lingua, conoscenze, modi di vivere, di stare al mondo, una Weltanschauung (concezione del mondo): ciò significa che la nostra identità si basa sulla storia, e quindi è dinamica e lo è sempre stata.
Il mito identitario invece è una narrazione tossica su noi stessi fatta con un'attenzione forte rivolta verso lo sguardo altrui.
In una popolazione come la nostra, da sempre privata di una memoria collettiva minima, è facile che il mito identitario sia enormemente più pesante e presente della coscienza collettiva.
Il mito identitario è, nella nostra fattispecie, quella concezione di sardo guerriero indomito (ottimo per mantenere alto il mito della Brigata Sassari che combatte al servizio dell'imperialismo), di comunità incapaci di unirsi e risolvere i problemi collettivi (quindi giustificazione della negazione di qualsiasi spazio di autodeterminazione), di tradizioni ancestrali ferme nel tempo (negando che anch'esse si son create e modificate per precise condizioni storiche), di distacco dalla modernità e di altre amenità e falsità storiche: stiamo parlando di una riproposizione in salsa nostrana del mito del buon selvaggio.
Ancora, non è affatto scritto nel nostro Dna che siamo “pocos locos y malos unidos”, citazione storica attribuita ad un regnante spagnolo ma assolutamente falsa, e non è affatto scritto neanche dalla storia: eppure questa frase ancora oggi in tanti, qui, la ripetono quasi con compiacimento, continuamente, malgrado sia pesantemente offensiva verso se stessi e densa di senso di inferiorità.
Su questo tema ultimamente, e devo dire finalmente, c'è un certo dibattito culturale: io sono assolutamente convinto che liberarci di questo mito, autocommiserante ed assolutamente funzionale ad interessi di dominio, sia un'urgenza. Per farlo è necessaria una riappropriazione onesta della nostra storia, soprattutto della nostra storia recente.
La lingua ha anch'essa un valore non affatto secondario. Per dirla alla Cicitu Masala, il sardo è la lingua degli ultimi nella nostra Isola: nel nostro contesto, dimostrare che in sardo si può parlare di speculazione energetica o di questioni fiscali complesse, ha un valore ben più che simbolico.

Probabilmente oggi il rap è la forma più ampia del concetto di “tradizione e cultura popolare”, quella che sa leggere, interpretare e riverberare le vicende e le istanze delle genti e dei territori che esse vivono, o subiscono. Sei d'accordo Michele?
Sì. Ed è così tanto espressione popolare che comprende anche tutte le contraddizioni presenti nelle genti. Possono arrivare le major a comprare band e snaturarle, ma la natura stessa del rap è che funziona se è “real”, come si usa dire nel genere, quindi quanto più possibile specchio alla realtà ed aderente ad essa. Questo accade a mio parere sempre in generale nel rap, e parlo anche di altri paesi europei (io vivo tra Francia e Sardegna), e in tutti i casi, anche quando il rap racconta storie non necessariamente legate a istanze collettive.

Dove trova più linfa la tua ispirazione concettuale che trasformi poi nei testi e che rapporto hai con la tua voce che, inevitabilmente, diventa megafono e veicolo di trasmissione potente per poter comunicare e farsi breccia nell'aridità dell'uditorio e delle sensibilità anestetizzate che abbiamo intorno.
Si parte dal guardarsi intorno: quando voglio raccontare una storia che mi colpisce e che ritengo sia necessario e giusto che venga raccontata, perché è comunemente conosciuta poco o male, mi leggo tutto quello che è stato scritto o edito in proposito, anche se ho una conoscenza più o meno completa di quella storia stessa. Dopo vedo cosa mi ha preso di più e me lo rileggo. Quindi mi segno le frasi e le parole che mi hanno colpito di più. A quel punto da quelle frasi segnate costruisco il testo. Questo avviene nella maggior parte dei casi. Evito di usare un linguaggio sempre mio, uso molto le parole altrui.
Con i pezzi in sardo inoltre mi diverto a fare ricerche sul fueddàriu (vocabolario) per inserire spesso parole che, seppur conosciute, vengono utilizzate di rado. Questo metodo è molto divertente, perché la ricerca di rime e metriche a volte è una fonte stessa di scrittura, nel senso che la ricerca della forma a volte produce contenuti stessi, versi ulteriori, nuovi concetti.
Con la voce invece ho un rapporto buffo: devo sempre allenarmi perché ho fiatone (lieve bronchite cronica) e sono anche leggermente stonato. Ma cerco di essere molto presente nell'interpretazione del testo.

Leggerezza e bellezza

Credo di poter affermare che sia fondamentale all'interno del gruppo, nella stesura e nella realizzazione di un brano, una totale sintonia, simbiosi, una sorta di naturale, complice, condivisione, dei temi e delle vicende che andate a narrare. Un intento comune, per capirci. È così Michele?
Assolutamente sì. Abbiamo un orizzonte comune. decisamente molto ampio e forte tra di noi. Magari possiamo discutere sulla adeguatezza di una musica o di una metrica, ma non ricordo in tutti questi anni una discussione su temi, testi, argomenti tra di noi. Al limite può succedere che un testo non funziona, lo capiamo subito e lo si mette da parte.

Tra l'altro, mi piace sottolineare che due tuoi compagni di viaggio, Giovanni Siccardi e Riccardo Dessì, sono gli artefici e i gestori di un luogo di produzione e diffusione cultura alternativa dove la musica e il territorio, da un punto di vista soprattutto enogastronomico, trovano un connubio felice, sano e “libertario”, anche per la collocazione nel cuore del centro storico cagliaritano. Sto parlando ovviamente del Muzak. Raccontaci questa esperienza, partendo proprio dal nome. (A questa domanda risponde il bassista e batterista).
Riccardo Frichi Dessì - Il nome Muzak principalmente deriva dalla mitica rivista musicale degli anni '70 diretta da Giaime Pintor. Per noi a Cagliari negli anni '90 Muzak overground è stato il nome di un collettivo in cui era attivo anche Michele che ha organizzato feste memorabili in luoghi assurdi (compreso un treno) che continua ancora oggi sotto forma di web radio e le produzioni musicali di Dj s/Grauso. Quando abbiamo dovuto dare un nome al nostro club abbiamo voluto omaggiare quell'esperienza.
Credo che come fece la rivista, così le feste overground, così il club, sono uniti dalla voglia di liberarsi da etichette ricordando che la musica (anche la musicaccia) riguarda sempre e comunque le persone. È con lo stesso approccio con cui affrontiamo tutti i casi della vita che, quando ci siamo ritrovati a dover dissetare e sfamare chi veniva nel nostro club è stato naturale occuparsi di cosa c'è dietro quello che mangiamo e beviamo. Del bere ce ne occupiamo io e Giobia, del cibo Michela, mia compagna anche nella vita che mette in cucina la stessa leggerezza e bellezza che utilizza nella danza.
Ci riforniamo da piccoli produttori e artigiani e instauriamo con loro dei rapporti umani ma soprattutto cerchiamo di divertirci provando ad educare i nostri clienti a un consumo consapevole di musica e cibo. Abbiamo affrontato questo argomento anche nella nostra canzone Terra primo singolo dell'ultimo disco.

Ed eccoci arrivati a Capudanni, il vostro ultimo viaggio, una sorta di “pellegrinaggio laico e imprescindibilmente antagonista”, dove le storie di ieri e di oggi si intrecciano per riportare all'urgenza dell'attualità e alla salvifica funzione della memoria che è ponte per attraversare, limitando i danni, quest'ennesima era di svenduta al miglior offerente e di sciacallaggio e privazione delle dignità e dei saperi... Cabudanni (settembre) significa per i sardi, ma non credo solo per i sardi, l'inizio di un nuovo anno lavorativo della terra, un nuovo ciclo, una nuova semina per un raccolto migliore... metafora fertile per questo vostro lavoro. Raccontaci la genesi Michele e, nello specifico, il brano che dà il titolo al disco.
Questa serie di canzoni che sono in questo disco nascono sopratutto attorno alle recenti vicende di speculazioni, o tentativi di, in Sardegna. Quindi qui e ora. Poi ci son alcuni viaggi nel tempo e nello spazio, ma son viaggi che tornano sempre al qua ed ora.
Il brano che dà il titolo al disco è un ulteriore punto di vista, questa volta collettivo, di migliaia di persone, sulla battaglia contro la presenza militare in Sardegna. Non è la prima canzone sul tema, perché possiamo raccontare questa questione da parecchi punti di vista.
Tre anni fa, per l'appunto il 13 di capudanni (settembre) siamo andati a Capo Frasca ad una grande e quasi (dico quasi, per come è montata in brevissimo tempo) spontanea manifestazione popolare sulla questione, credo la più grande vista in Sardegna negli ultimi 30 anni. Ho iniziato a raccontare quel viaggio, per poi raccontare cosa c'è dietro quella recinzione di filo spinato, dietro quei cancelli. E raccontare l'ideale, vivo e tangibilissimo, condiviso dalle migliaia di persone presenti il giorno, e da tutte le altre che non erano lì fisicamente ma che guardavano a noi. Da raccontare ce n'è tantissimo su questa vicenda e credo che ne racconteremo ancora.
Cabudanni è una canzone che racconta di un giorno felice del mese di cabudanni, ma è anche chiaramente l'auspicio di una stagione nuova per tutti quanti. È anche il mese del raccolto, della festa, della vendemmia. Della vita.

Il disco si apre subito con S'acentu e Terra, una alchemica ed efficace commistione tra la tradizione e i suoni che sono a voi congeniali come a testimoniare che il passato torna non per essere cornice da salotto ma monito costante delle ataviche lotte che l'uomo è costretto a mettere in atto.
Michele Atzori - Esatto. S'Acentu è una strofa singola di canzone a curba, tradizione popolare poetico-musicale del Campidano, che, dato che mi piacciono le citazioni, inizia con la precisa traduzione in sardo di “I never tried to pretend to have an accent that I never had”, verso dei Public Enemy. E l'accento è in questo caso, oltre ovviamente al nostro riconoscibile accento, la metafora (in poesia sarda si direbbe il vestito) che vuole significare un modo nostro per vedere e leggere il mondo, ed anche il nostro punto di vista sullo stesso.
Terra, pur non seguendo la metrica della trallallera (forma semplice di improvvisazione poetica a versi, più volte citata nel pezzo), riproduce lo stesso modo di leggere la realtà, ironico e amaro allo stesso tempo, che si utilizza molto spesso in quella forma poetica. In questo caso l'abbiamo usato per ribaltare il senso di tutto ciò che da noi è comunemente considerato privo di valore, e che invece è la nostra vera possibile ricchezza, materiale, umana ed immateriale.

Senza contrasto

Altra costante della vostra ricerca e dei vostri linguaggi, la capacità e la lucidità di prendere a prestito, di “mosaicizzare” in qualche modo, versi che appartengono a diverse lingue del mondo per raccontare la vostra terra. E questo, in qualche modo, è il paradigma che ci riporta alla stucchevole questione delle finta, anzi imposta e “importata”, identità con la quale da secoli si assoggetta la gente sarda e alla sua “fasulla” etnicità, non foss'altro per tutte le civiltà e le culture che hanno attraversato, e troppo spesso, “agonizzato” la terra sarda. La speculata sardità non è altro che la confluenza di molteplici esperienze. Per meglio tradurre questa mia riflessione mi viene da accostare i brani Palestina, Arborea e Po su dinai, simboli delle trame economico-militari che i poteri forti continuano a tessere.
C'è un filo conduttore che accosta questi tre pezzi. Ma lascio sempre che dall'ascolto delle canzoni questo venga colto, ripreso, tagliato o riannodato. Per coincidenza, questi tre pezzi sono quelli che hanno avuto per me una gestazione lunga.
Militanti palestinesi che conosco da tanto mi avevano detto: ma voi che cantate un sacco di storie, come mai sulla Palestina non ci avete mai provato? Perché penso di non riuscire a trovare le parole per raccontarla senza cadere nel retorico o nel banale. Bene, mi son letto le poesie, i libri dei più grandi poeti e scrittori palestinesi, il libro-blog della giovanissima Shahd Abusalama e ho preso le loro parole, le ho fuse insieme, unite in modo da sembrare un unica storia, che poi è la storia collettiva di un popolo.
Ho seguito la battaglia della comunità di Arborea (OR) che sconfigge il gigante Saras, comunità che ha avuto l'intelligenza di coinvolgere le altre comunità sarde, e capire (non tutti hanno questa maturità, ahimè) che era una storia che interessava tutta l'Isola. È una storia importante perché è la prima volta che in Sardegna un grosso tentativo di speculazione sul territorio, spacciato per grande affare alla popolazione, è stato smontato in tempo e rispedito al mittente.
Po su dinai è una questione fiscale complessa dei rapporti malati tra stato italiano e Sardegna, che solo da poco è di pubblico dominio, anche se pochi ovviamente ne hanno un quadro anche solo di massima. Un amico me l'ha riassunta con una barzelletta. Peccato che quegli euro che un tipo deve nella barzelletta, e che paga chiedendo prestito, fregandolo, allo stesso amico, sono nella realtà servizi sociali, ospedali, infrastrutture base che ci vengono a mancare e alle quali abbiamo diritto.
Puoi accostare queste tre canzoni insieme, come puoi combinarne altre a mio parere, e lascio che ognuno che ascolti ci trovi un senso comune, che può variare da persona a persona, da una sensibilità ad un altra. Il bello è proprio questo.

A testimonianza delle connessioni con temi e istanze “suggerite” da terre apparentemente lontane alla terra sarda e di un ipotetico “ritorno a casa”, metafora possibile di una sorta di emigrazione di ritorno che potrebbe rappresentare una possibile “rivoluzione” per il cambiamento, per “sparigliare destini e fortuna” (per dirla alla Faber) c'è una sorta di filo rosso sempre teso nel vostro viaggio e nella vostra ricerca che mette in relazione canzoni a curba (metrica tradizionale del sud Sardegna), i poeti improvvisatori, e nel caso specifico il “cantadori”, il poeta improvvisatore Antonio Pani, i brani Murra e In su mundu e In domu con la voce della straordinaria Maria Carta. Prova a raccontarlo tu questo filo rosso.
Il filo comune è il gioco che pratichiamo da 25 anni e che dicevo prima, è quello per cui puoi mettere insieme la metrica rap con il gioco ritmico-ipnotico della murra e con l'energia di chitarre punk anni '80 senza che ci sia alcun contrasto. Anzi!
Questo gioco qua puoi ripeterlo quando Maria Carta, seppur “pitchata”, entra in loop su un pezzo fatto di metafore e “dicius” (traduciamo con proverbi) che stanno raccontando la storia del 1963 che si ripete ancora oggi. Stai ascoltando quel che ti dico con le rime e c'è una voce in loop che ti sta dicendo ancora altro, ma in perfetta sintonia (stavolta non solo musicale) con quel che ti sto dicendo. A volte è più semplice, altre volte è quasi subliminale.
Il filo rosso è cercare di aggiungere con figure sonore parole non dette né scritte alle migliaia di parole dette.

Doveroso, a questo punto, ricordare i compagni di viaggio del disco e i tanti ospiti.
A parte Mauro Mou e dj alex p (Alessandro Pintus) che sono con me dall'inizio di questa avventura, la formazione si è assestata negli ultimi dieci con Giobia (Giovanni Siccardi), Giorgia Loi e Frichi (Riccardo Dessì). Per il disco, come da sempre nelle nostre produzioni ci siamo avvalsi della collaborazione di numerosi musicisti e amici in una lunghissima fase di gestazione dei brani durata circa 2 anni.
Siamo andati in giro a registrare musicisti tra i più disparati aggiungendo alle idee originali, suoni, atmosfere e linee melodiche che poi abbiamo consegnato ai due produttori del disco. Alessandro Coronas e Andrea Piraz che hanno dato forma compiuta ai brani (a volte anche stravolgendo le nostre idee di partenza) e realizzando un lavoro di cui siamo molto soddisfatti.
In Cabudanni suonano anche le launeddas elettroniche di Francecso Capuzzi, le percussioni di Tomas e Mauro Addari, il ney e la jura di Mubin Dunen, la fisarmonica di Antonio Firinu, i synth di Piero Marras, l'hammond di Claudio Corona, la batteria di Alessandro Coronas, il dub di Andrea Scalas, la tromba di Adriano Sarais e i beats di Spaider.

Altre due tappe importanti di questo viaggio: Il treno, una sorta di pagina svelata della storia che narra di un episodio storico, poco conosciuto, del massacro dei Sardi a Itri in Campania, che nel 1911 dissero no alla Camorra. Su palu, la traduzione in sardo della celebre canzone politica di protesta del catalano Luís Llach, L'estaca.
Viaggi nel tempo che riportano con forza ad oggi. Il treno è una strage rimossa, offuscata dalla storia ufficiale e dai media, sulla quale esiste soltanto un libro scritto da Antonio Budruni, che aveva riscoperto per caso la vicenda. Siamo gli stessi medesimi migranti di Rosarno del 2010 se torniamo indietro di un secolo, è la storia che si ripete. E non è retorica stavolta. La storia del 1911 costringe con forza, anche chi è restio in questo senso, a guardarla dal punto di vista delle vittime.
L' Estaca è una canzone antifranchista che ha 40 anni ma che conosco da poco. Quando ho visto e sentito la versione live dell'epoca o giù di lì, me ne sono innamorato. Ho provato a tradurla cambiando in chiave sarda le metafore che l'autore aveva posto, e così mi son impantanato per mesi. Poi ho capito che dovevo lasciarla così com'è, traducendo letteralmente dal catalano al sardo. Va benissimo così, il testo è di una attualità assoluta.

Dovesse trovare una metrica per le pagine libertarie di A-Rivista Anarchica, il “giaculatore” Dr. Drer cosa scriverebbe?
Unu mutetu.
Aici dònnia interbista / po si fai arrexonai
est precisu arringratziai / a Gerardu i A-Rivista

Magari fosse così ogni intervista / atta a stimolare la riflessione
è doveroso ringraziare / Gerardo e A-Rivista

Contatti http://www.crcposse.org/

Gerry Ferrara