rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017





Dove si andrà: le canzoni di Franco Fortini

Nel centenario della nascita uno spiraglio per sbirciare nel cuore di un poeta fondamentale.

“Cara, dove si andrà? diciamo così a fare l'amore...”
Sostenuto dalla splendida musica di Fiorenzo Carpi e trasportato dalla voce di una Laura Betti insolitamente crepuscolare, oppure drammatizzata dal cubismo interpretativo di Enzo Jannacci - il poeta non amò affatto la sua versione, giudicandola a torto beffarda - ci arriva questo canto, forse il più noto nel pugno di quelle canzoni notevoli che Franco Fortini ci ha lasciato. Il brano si chiama “Quella cosa in Lombardia”, inizialmente fu intitolato “Novembre lombardo-veneto”, due titoli ci permettiamo di chiosare inadeguati per una canzone così bella e innovativa.
Fortini, Fortini: intellettuale necessario, uomo di incoercibile rettitudine, severo quasi... difficile da comunicare, il suo rovello, la sua critica e la sua autocritica, il pungolo del suo pensiero oggi ci mancano. Non nel senso vero e banale che si attribuisce al desolato panorama intellettuale odierno se lo si confronta a quello di mezzo secolo fa, non solo per l'operazione nostalgia cui c'induce l'urna dei grandi: ci mancano Pasolini, Roversi, Gatto, Vittorini... la conta degli assenti di peso è vasta e traumatica.
Ma Fortini ci manca proprio perché ci affatica tenerne conto, la sua impronta è ineludibile nella cultura italiana del dopoguerra, ma ci sfugge, ci inciampiamo e facciamo finta di niente. Il paragone più di sovente azzardato per lui è quello con Pier Paolo Pasolini - col quale collaborò strettamente ad esempio nella rivista Officina - in un rapporto che fu spesso polemico. Pasolini però lo si può sempre travisare, si può beceramente citare quei quattro versi a proposito di Valle Giulia (a patto di non conoscere che quelli), c'è il suo martirio, la sua biografia da maledetto, i suoi film, la sua poesia che sa anche essere popolare.
Fortini no, Fortini è indigesto, va guadagnato rigo a rigo, impegna e promuove il lettore, non lo imbonisce mai. Per questo, nonostante sia uno dei massimi, è uno dei poeti meno declamati dai fini dicitori. Forse anche per questo per decenni le sue poesie sono state introvabili in libreria e semmai si rintracciava più facilmente il Fortini saggista.

Franco Fortini

I Cantacronache

“Fratelli d'Italia/tiriamo a campare”: Cantacronache e dintorni.
Essendo nato nel settembre del 1917, se non fosse morto nel novembre del '94, quest'anno Fortini avrebbe compiuto i cento anni. L'università di Siena, l'ateneo in cui ha insegnato e la sede che ospita le sue carte, per provare a rompere il silenzio generale, si è impegnata in una serie di iniziative per ricordarlo e, in collaborazione con l'Istituto Ernesto de Martino, ha affidato a me l'ideazione di uno spettacolo basato sul suo rapporto con la canzone.
Apparentemente si tratta di poca roba, gira e rigira una decina di brani di cui quattro o cinque quelli davvero definiti e che hanno avuto una loro vita in pubblico. Quasi tutti provengono dalla temperie dei Cantacronache, il collettivo di intellettuali-musicisti che a Torino nel lustro 1958/63 tentò un radicale rinnovamento della scena italiana. I Cantacronache, un po' sulla scorta di Brecht e dei francesi, coinvolgevano gli intellettuali che con loro potevano avere delle affinità, come Calvino, Arpino, Buttitta, Eco... fra questi uno dei primi a rispondere fu appunto Fortini.
«Erano dei testi sentimentali e a contenuto politico. Le canzoni a contenuto politico erano fatte per prendere in giro certe parti politiche e per favorirne altre. Sia in quelle sentimentali che in quelle politiche l'intenzione era sempre la stessa: di mettere in rapporto un fatto privato (per esempio un sentimento amoroso) con dei sentimenti, dei fatti pubblici. Una poesia nasce spesso per una specie di illusione di maggiore libertà, invece per il testo di una canzone io devo in qualche modo immaginarmi una struttura. In un certo senso è molto più difficile scrivere il testo di una buona canzone.»
Queste due affermazione tratte da una tarda intervista ci raccontano dall'interno il rapporto di Franco Fortini con la canzone, un rapporto difficile, nel quale il poeta si schernisce, un rapporto ridimensionato, quasi ripudiato.
Canzoni d'amore con un fondo esistenziale “Tutti gli amori”, “Le nostre domande”, “Canzone dei litigi”. Canzoni di protesta: “Patria mia”, “Julian Grimau”. Persino una strana canzone per bambini, dal trattamento musicale molto colto: “Però però”.
Queste le canzoni propriamente dette.
“No, non sprecatelo il tempo ragazzi”: incrociando canzoni.
La cosa buffa è però che Fortini lo incontriamo parecchie altre volte sui percorsi musicali che - in maniera più o meno consapevole - ha incrociato. Notorio è il fatto che il contributo suo (e di sua moglie Ruth Leiser) alla diffusione in Italia di Brecht è stato fondamentale. Paolo Pietrangeli, che dal famoso libro Poesie e canzoni di Brecht trasse il testo della sua celebre “Risoluzione dei Comunardi” (“dato che voi deboli le nostre/leggi avete fatto e servi noi”), racconta che Fortini gli scrisse una lettera complimentandosi.
Più volte Angelo Branduardi - disinteressato alle tematiche politiche così centrali in quest'opera - ha raccontato del vero apprendistato letterario fatto, in gioventù da studente, presso il professor Fortini, e in effetti la sua canzone “Il funerale” è una vera e propria rilettura di una poesia tratta dalla raccolta Foglio di via del 1947, come pure la meno riuscita “Domenica e lunedì”, peraltro già cantata, su una splendida partitura di Carpi, da Milly.
Nel 1964 quando Roberto Leydi e Gianni Bosio concepirono lo spettacolo Bella ciao, che scandalizzando il pubblico della prima al Festival dei due mondi di Spoleto determinò l'inizio del Folk Revival in Italia, lo concepirono come uno spettacolo di sole canzoni. Unica eccezione furono delle brevi prose affidate a un nastro registrato: «Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce.
Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l'orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva. Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile. Questi canti sono stati uditi – quando sono stati uditi – tutt'al più come voce di una cultura separata e arcaica; ma noi oggi sappiamo che essi esprimono un mondo di dominati in contestazione e in risposta». Frasi appositamente scritte da Fortini: Bosio ne fu così entusiasta da riprodurle sulla copertina del disco. Io continuo a trovarle un po' retoriche, ma non posso fare a meno di notare come l'uso della parola “contestazione”, con sensibilità da poeta, riconducesse l'alterità del canto popolare al fenomeno sociale che di lì a poco sarebbe stato definito proprio con quella parola.

La locandina dello spettacolo “Dove si andrà:
le canzoni di Franco Fortini”

“L'Internazionale di Fortini”

“Se Berlino chiama ditegli che s'impicchi”: un poeta contro la guerra. Essendo nato nel '17 Fortini aveva giusto vent'anni all'epoca delle leggi razziali, condizione non felice per un ebreo (il suo vero cognome era Lattes), fu costretto a interrompere gli studi, passò la sua giovinezza fra i bombardamenti e il terrore, prese parte alla lotta partigiana. Nel dopoguerra e fino alla morte fu sempre una delle menti più lucide della sinistra italiana, socialista libertario, antistalinista, radicalizzatosi nel rapporto con Raniero Panzieri e Luciano Della Mea, interlocutore del Movimento del '68. Uno dei suoi massimi impegni fu quello pacifista, che lo portò a partecipare nel 1961 alla prima marcia Perugia-Assisi di Aldo Capitini, nel corso della quale improvvisò con Fausto Amodei delle strofette (poi incise da Maria Monti) notevoli quasi solo per essere state oggetto di una denuncia.
L'impegno antimilitarista lo ispirò costantemente, dal capolavoro I cani del Sinai (1967) scritto a ridosso della guerra dei sei giorni – e divenuto anche un film di Straub e Huillet - fino alla sua ultima raccolta Composita solvantur (1994), dove il poeta vecchio e molto malato, nella sezione “Sette canzonette del Golfo”, con amarissima ironia dà conto di un generale senso di impotenza per quella che fu la prima guerra trasmessa in diretta televisiva. Alcuni di questi versi sono stati cantati (con musiche diverse) da Margot (attiva dai tempi di Cantacronache) e da chi scrive, e le sette canzonette sono state messe integralmente in musica con esiti notevoli dal cantore/professore barese Roberto Talamo.
Fra gli inediti più notevoli apparsi dopo la morte di Fortini vi è un testo travagliatissimo, che porta la datazione 1968, 1971, 1990, 1994 e l'indicazione “da cantarsi sull'aria dell'Internazionale”, vi lavorò dunque per oltre venticinque anni e fino all'ultimo respiro. Sappiamo tutti che l'Internazionale è l'inno per antonomasia del movimento operaio, concepito dal poeta comunardo Eugène Pottier, mentre nascosto durante la terribile repressione della settimana di sangue, scriveva con il costante rischio di essere scoperto e deportato o fucilato. Messo in musica anni dopo da un operaio belga si diffuse fino a diventare l'inno dei vari partiti socialisti e comunisti ed essere adottato persino dall'Unione Sovietica di Stalin. Ogni Lingua ha la sua versione, e - senza offesa - mi pare che quella italiana sia di ineguagliabile bruttezza e sciatta infedeltà, che oltre a parlare a nome di un “Partito” che nell'originale non è menzionato (“In piedi dannati della terra”), ignora quella seconda strofa “non ci sono salvatori supremi/né Dei né Cesari né tribuni”. Molti furono tentati dall'idea di rifare la versione italiana, ma è praticamente impossibile sostituire a un canto largamente conosciuto un altro testo.
La versione di Fortini, già all'indomani della sua morte, venne cantata e costantemente riproposta da Ivan Della Mea: riadattando e rallentando la musica - non proprio la stessa/non proprio un'altra - al dettato dei versi, malinconici ma per nulla disperati, personali ma non individualisti, sapienti nelle forme e volutamente ingenui nelle rime.
Testamento spirituale di una coscienza inquieta, libertaria e religiosa, rivoluzionaria e rinascimentale, impegnata ma per nulla populista, l'“Internazionale di Fortini” è un capolavoro di Ivan Della Mea e un significativo lascito che quel poeta duro, che si scherniva dall'idea di far canzoni, ha fatto al futuro dell'umanità: “Noi non vogliam sperare niente/il nostro sogno è la realtà”.

Alessio Lega

Lo spettacolo “Dove si andrà: le canzoni di Franco Fortini”, dopo la prima rappresentazione il 30 settembre a Sesto Fiorentino, è previsto in replica il 3 novembre a Siena.



Ricordo di Margot

Proprio mentre lavoravamo allo spettacolo sulle canzoni di Franco Fortini, e dunque ci confrontavamo alle versioni così coraggiose e così sensibili fatte da Margot (“Le nostre domande”, “Canzone dei litigi”, “Canto per noi”, “Lontano lontano”) la sua voce - intatta per oltre cinquant'anni - ci abbandonava per sempre il 23 agosto scorso.
È morta Margot, Margherita Galante Garrone. Cantacronache in servizio permanente effettivo. Poetessa, musicista e donna di teatro. Figlia, sorella, compagna e madre di intellettuali, di antifascisti e di artisti. Amante degli animali, nemica dell'ingiustizia, severa nel criticare e fraterna nello stimolare i suoi simili. Grande nel dolore personale come nell'anelito alla giustizia del mondo.
Rompicoglioni, anche, poteva essere, ma sempre accogliente e pronta a discutere con chiunque.

Margot nella copertina dell'omonimo disco

Senza essere un suo intimo sono andato qualche volta a trovarla nella sua casa veneziana in fondo alla Giudecca. L'impressione era quella di entrare in un antro di Storia e trovarci una bambina tenera e dispettosa ma viva.
Viva come ora. Viva Margot.
(Trovate in giro molte foto della sua bellissima persona, io preferisco ricordarla con la copertina di questo bel disco recente, voluto dal suo e mio amico Valter Colle: amate i poeti, ma amateli da vivi).

A.L.