rivista anarchica
anno 47 n. 420
novembre 2017






Narrazione, lotta e propaganda

All'interno dell'ottava Vetrina dell'editoria anarchica che si è tenuta a Firenze tra il 22 e il 24 settembre scorso, l'Istituto Ernesto de Martino ha organizzato un incontro sul tema “Il canto anarchico come strumento di narrazione, lotta e propaganda”. Al convegno, coordinato da Stefano Arrighetti che dell'IEdM è l'attuale presidente, era prevista la partecipazione di Cesare Bermani (sostituito poi da Antonio Fanelli, antropologo culturale giovane e brillante), di Franco Schirone (autore di importanti studi sull'anarchismo italiano, nonché con Santo Catanuto di un testo fondamentale come “Il canto anarchico in Italia nell'Ottocento e nel Novecento”) e di Fabio Santin fondatore della rivista Aparte, il tutto con incursioni musicali di Alessio Lega.
Quando qualche mese fa Stefano Arrighetti mi ha chiamato e invitato a partecipare con una relazione a questo incontro, ho pensato a uno sbaglio. Cosa ci vado a fare lì, quelle sono persone serie - che c'entro io? Stefano ha insistito, mi fa: sono più di trent'anni che scrivi di gente che suona, di musiche e di canzoni su A/Rivista Anarchica, ho sentito in giro che probabilmente nessuno meglio di te sa cosa sta succedendo. Non avevo davvero mai visto la cosa sotto questo punto di vista. Così, oltre a rimuginare sulla possibilità di uno sbaglio, ho cominciato a dirmi: questo dev'essere uno scherzo.
La mia letteratura sono state le scritte sui muri, i volantini, le radio libere, le fanzine, i testi delle canzoni. Non ho granché scuola alle spalle: vengo da una famiglia operaia, ho studiato da perito industriale quindi poche ore di italiano e ancora meno di storia. Lavoro da quando ho sedici anni, tra pochi giorni ne compirò sessanta. Per quasi quarant'anni il mio lavoro è stato occuparmi di informatica, organizzare basi di dati, immaginare soluzioni, scrivere codici, mantenere archivi - un telefono in mano e davanti a un videoschermo. Mi si sono accorciate le dita a forza di dai e dai a battere stringhe di caratteri su una tastiera, invece a me sarebbe piaciuto adoperarle per suonare una chitarra, o per seguire dei segni su una mappa, o per accarezzare le pagine dei libri.
Chi cazzo me l'ha fatto fare - ogni tanto me lo sono chiesto, trovando però sempre velocemente la risposta. L'ho fatto perché bisognava. Perché bisognava dare una mano in casa, perché sono andato a vivere con la mia compagna, perché sono nate due figlie a distanza breve, perché Valentina stava male e bisognava starle sempre accanto, perché bisognava star dietro anche a Marta, perché Lucia ha perso il lavoro, perché non me la sono mai sentita di mollare tutto e andarmene via. Adesso è tardi, non riesco più a suonare, le mani mi fanno male anche a tenere una matita in mano. Quando ero un ragazzo mi sarebbe piaciuto studiare letteratura, arte, musica, imparare lingue, girare il mondo – ma di tutto questo invece ho avuto davvero poco o niente. Ho avuto una vita piena di casini, piena di sbagli, ma è stato anche divertente. Magari non sarei qui, magari non sarei così.

Tutto così veloce

Ho accettato. Vengo a Firenze, ho detto a Stefano. D'accordo, non sono uno che ha studiato, un ricercatore che sia poi riuscito a trovare qualcosa e che possa mettersi a insegnare. Come ognuno di voi, dentro a una, due, dentro a tante storie mi ci sono ritrovato: protagonista raramente per scelta, molto frequentemente per caso. Ecco perché faccio fatica a mettere insieme i fili adesso: nella storia, anzi meglio nelle storie, mi ci ritrovo ancora proprio in mezzo. Faccio fatica a prendere le misure delle cose di ieri, non riesco a percepirne la distanza, a disegnarci attorno un contorno, a guardarle da ferme. Perché si muovono, si muovono ancora, si allungano fino a toccare il tempo presente.
E poi è tutto così veloce, oggi. Due occhi non sono abbastanza per guardare tutto quello che succede, due sole orecchie non bastano per sentire le musiche e le canzoni che risuonano intorno. Non so voi, io non sono in grado di ascoltare e seguire tutto e tutti. Escono dischi nuovi ogni giorno, tanti sono bellissimi, mi piacerebbe ascoltare, conoscere, incontrare, sapere… ma come faccio? Non c'è tempo: a me piace ascoltare e riascoltare un disco che mi piace, lo tengo su per tutto un pomeriggio, per tutto un giorno, anche il giorno dopo e i giorni dopo ancora. Non c'è tempo.
Mi ci sono ritrovato spesso a riflettere sull'accelerazione che hanno subito gli scambi culturali in questi anni grazie alla tecnologia - sarei tentato di avvolgere questo grazie che ho appena scritto tra virgolette, ma rischierei di esagerare, magari di farmi fraintendere o peggio di rendermi patetico. Grazie (senza le virgolette) alle nuove tecnologie si può venire a sapere in tempi ridotti cosa si pensa e cosa succede altrove, senza passare per forza attraverso i filtri sapienti di chi comanda radio televisione e giornali. Rispetto ad una volta si viene a sapere più velocemente cosa succede e cosa si pensa in una parte distante del mondo: guardandola dalla parte “di chi adopera” si riesce ad avere un certo accesso a ragionamenti, musiche e libri e filmati e disegni prima più difficilmente raggiungibili, e guardandola dall'altra parte, quella “di chi crea”, si può riuscire a sfuggire a controllo e censure perché è più difficoltoso tenere zitte ferme nascoste certe cose, bloccarle o almeno rallentarle. Grazie alla tecnologia scriviamo e riceviamo lettere elettroniche veloci, oppure possiamo vedere dentro uno schermo le facce e sentire le voci di persone che vivono altrove, così da illuderci di averle vicine.
Una volta fare la rivoluzione, anche con una chitarra in spalla, era piuttosto costoso: quelle Martin e quelle Stratocaster che nei telefilm americani erano banali oggetti di consumo, da noi in provincia arrivavano di rado e generalmente in pochi esemplari che restavano in mostra a luccicare nelle vetrine dei negozi. Coi miei compagni ero costretto di qua del vetro a sognare, con le mani ficcate nelle tasche vuote mentre invece mi sarebbe piaciuto stringerle attorno a quel legno fino a stamparci sopra il disegno delle dita, e farle andare libere senza collare in corsa sopra a quelle corde.
Le nuove tecnologie sono economicamente accessibili e questo ha permesso di produrre, documentare e diffondere forme artistiche l'accesso alle quali solo fino all'altroieri era un privilegio di pochi: quest'affermazione magari sembrerà banale ai ragazzi più giovani, ma magari potrà sembrarlo meno a quelli che come me si davano da fare con macchina da scrivere e ciclostile prima che in un qualche ufficio della Xerox inventassero le fotocopie.

La raccolta Miniatures curata da Morgan Fisher

La storia del rock'n'roll in ventidue secondi

Come già sapete se leggete quello che scrivo su questo giornale, sono uno che tende a prendere i discorsi alla larga. Quando ho cominciato a lavorare alla relazione da presentare a Firenze, immaginavo di raccontare l'ambiente sociale dove sono cresciuto, cercando di spiegare lo spaesamento che ho provato a ritrovarmi dagli anni Sessanta ai Settanta agli Ottanta al millennio nuovo. Troppo piccolo per seguire gli hippies ai raduni pop, forse appena troppo vecchio per il punk, ogni tanto piazzato in fondo oppure seduto in panchina o più spesso tagliato fuori.

Patti Smith, 1975

Alla raccolta “Miniatures” curata da Morgan Fisher vecchio organista dei Mott The Hoople all'alba degli anni Ottanta, Fred Frith contribuì con “The entire works of Henry Cow”: riuscì a ritagliare una frazione microscopica di ciascuna registrazione ed a concentrare in un minuto tutto il lavoro del gruppo di cui aveva fatto parte per tanti anni. Nella medesima raccolta, Andy Partridge degli XTC offriva una “A brief history of rock'n'roll” di ventidue secondi. Forse la cosa fa sorridere, a me sarebbe piaciuto fare altrettanto: la mia idea era scrivere, ritagliare, sistemare, mettere insieme roba vecchia e roba scritta apposta e raccogliere un bel pacco di carta da condividere, senza trasformarlo in una colossale sega autoreferenziale.
Invece che un'analisi puntuale, fatta con metodo e disciplina (non ne sono capace, davvero – un po' per scarsità di studi e un po' per carattere) a Firenze volevo raccontare qualcuna delle storie in cui mi sono ritrovato dentro. Storie mie, dei miei compagni di strada - tante persone che mi porto nel cuore. Ogni pezzetto di storia con una voce, una musica, una strofa - canzoni che mi hanno fatto compagnia quando mi sono ritrovato da solo, quando mi sono trovato in difficoltà, quando sono stato triste.
Oltre al testo, che mi sembrava complessivamente interessante, mi ero organizzato con tutta una serie di letture collaterali, frammenti audio e video, fotografie - ho ficcato tutto dentro il tablet, ma la batteria è andata a farsi fottere giusto un paio di settimane prima. Il tablet è ancora in laboratorio, a Firenze ho portato con me un sacco di cose da dire che erano rimaste lì appese a mezz'aria.
Sono poi venuto a sapere che il tempo a mia disposizione si è accorciato e all'ultimo momento, quando mi ero già seduto davanti a tutti, ho deciso di leggere solo e soltanto l'introduzione. Eccola.

I peccati di qualcuno

Gesù è morto per i peccati di qualcuno ma non per i miei
i miei peccati sono solo miei, mi appartengono
La gente mi dice stai attenta, ma non ci faccio caso
le parole sono solo norme e regolamenti per me
Gesù io ti dico addio, stasera ti mando via

Comincio da quella che è considerata dai più una cosa inutile - una poesia.
Patti Smith, americana, scrive “Oath” (“Bestemmia”) nel 1970 – la poesia inizia con una frase che nessuno in questa parte del mondo avrebbe ancora letto oppure ascoltato fino al 1975: “Jesus died for somebody's sins but not mine” e prosegue con: “Christ, I'm giving you the goodbye, firing you tonight”.
Patti lascia fuori “Oath” dal suo primo libro di poesie “Seventh heaven” del 1972, e anche dal successivo “Witt” - il pezzo riemerge anni dopo forse per caso durante le prove del gruppo che Patti aveva raccolto attorno a sé, Lenny Kaye e Richard Sohl. I tre attaccano con una cover di “Gloria” di Van Morrison per scaldarsi, il tempo di un mi basso e una frase sussurrata: “Gesù è morto per i peccati di qualcuno ma non per i miei” e il pezzo gli scoppia tra le mani, i tre appiccano un incendio, c'è da dire che lei negli anni a venire si è data un gran da fare con l'acqua e la sabbia ma da qualche parte il fuoco – quel fuoco – non si è ancora spento.
Un pezzo di “Oath” resta incollato a “Gloria” e finisce nel debut album del gruppo: “Horses” esce negli Stati Uniti a metà dicembre 1975, di lì a breve viene stampato anche in Europa. Ne trovo una copia in un negozio di dischi in campo San Barnaba a Venezia, gli do tutti i soldi che ho in tasca e porto il disco a casa. In copertina c'è lei, immortalata dall'amico e compagno Robert Mapplethorpe. Ho diciotto anni compiuti da poco. Patti Smith mi aveva proprio preso, era più vecchia di me di dieci anni, idealmente la vedevo come una specie di sorella maggiore ribelle che era scappata di casa e che era improvvisamente ritornata di notte per raccontarmi i segreti di famiglia e farmi aprire gli occhi.
Lei mi offriva a piene mani collegamenti e rimandi e connessioni tra la ribellione del presente e quella che c'era stata prima: leggere le cose che scrive e ascoltare le sue canzoni per me è una pacificazione nella ribellione, è un trovare posto nella corrente.
“Oath” fa saltare le valvole bloccate da anni di repressione nella provincia bianca, l'amaro in bocca delle gocce di paura sciolte nell'acqua che bevo ogni giorno, la vergogna e il senso di colpa polvere nera mescolata al pane, le confessioni obbligatorie del sabato che non so da che parte cominciare a fare – e io ragazzino lo faccio solo per dire qualcosa al prete e far finire presto quella rottura di coglioni e tornarmene a correre fuori in strada per i campi, fuori, via, via da quel malessere, da quel sentirmi inadeguato, sporco, sbagliato. Nessuno me lo dice in faccia, ma un giorno improvvisamente capisco che qualcosa dentro è saltato, che la normalità è solo un altro nome per costringermi a restare zitto e obbedire, e che il silenzio e l'obbedienza non sono cibo adatto a me. Sono il ragazzino cattivo. Sono la pecora nera. Quello destinato a sedere sull'ultimo banco. Quello che fa piangere l'insegnante di religione. Quello che non si vergogna più delle cose che pensa.
Nel settembre del 1979 Patti Smith viene invitata alla Biennale di Venezia ed io mi ritrovo con alcuni compagni di radio a rincorrerla per le calli per poi restare chiusi fuori della porta al reading: ci voleva un invito per entrare, o forse era solo una bugia perché ci togliessimo dalle palle. Andiamo in branco a Bologna il giorno dopo, il suo concerto è una celebrazione di anarchia e libertà, un'emozione che non dimenticherò mai: hanno iniziato con “So you wanna be a rock'n'roll star” dei Byrds e poco dopo hanno fatto “All along the watchtower” di Bob Dylan, offrendoci un collegamento assolutamente esplicito con la contestazione di dieci anni prima.
Poi suonano a Firenze, ma io non posso andarci perché non ho trovato un cambio turno. I miei amici ci vanno, e mi raccontano che il concerto stavolta è iniziato con “Gloria”, ma le parole all'inizio Patti Smith le ha cambiate: “Jesus died for somebody's sins, why not mine?”.
Gesù è morto per i peccati di qualcuno, perché non per i miei? Dunque a bestemmiare sono ancora da solo. Lasciami stare. Patti io ti dico addio, stasera ti mando via.

Patti Smith, 2016

Facce incuriosite, sorridenti, stupite

E questo era solo l'inizio. Un frammento di “Oath” l'ho poi ritrovato dentro ad uno dei primi dischi degli anarcopunks inglesi Crass, ma questo e il resto della storia a Firenze non l'ho raccontato perché non c'era tempo. Mentre leggevo vedevo attorno a me parecchie facce incuriosite, e quando ho alzato gli occhi alla fine del mio intervento ho visto tante facce sorridenti, qualcuna stupita. Il dibattito poi alla fine non è stato affatto un dibattito, non tanto perché bisognava alzare le chiappe e lasciare posto e spazio al concerto di Alessio Lega e compagni, quanto perché era chiarissimo a tutti il cambiamento del rapporto di ciascuno col fatto musicale e non c'era altro da aggiungere. In fin dei conti era una platea di anarchici, di persone di una certa età e con una certa esperienza e proprie opinioni precise quindi direi che da me non ci si aspettava una qualche ventata di novità o chissà quali rivelazioni – la mia (la nostra, meglio) è stata una specie di predica ai già convertiti.
A tanti piace ascoltarle e riascoltarle (Alessio ha raccolto intorno a sé un gruppo di compagne e compagni musicisti che ha dato più di un brivido nel riproporre certo repertorio “tradizionale”), ma ritengo che negli ultimi anni le canzoni anarchiche nonostante internet, nonostante la velocità, nonostante il “progresso” oppure forse proprio a causa di quelle virgolette che adesso ci ho messo intorno, siano rimaste a riverberare chiuse dentro le teste, nelle stanze delle case, tra le mura dei centri sociali, nel perimetro delimitato/autorizzato delle manifestazioni. In zone circoscritte, quindi, rese quasi impermeabili al resto del mondo.
Potrebbe essere proprio l'idea della guerra, resa abitudine come fosse una caratteristica del nostro paesaggio da anni di piombo e soprattutto di televisione, che ci ha cacciati sotto, dentro, in cerca di riparo. Pensiamo al volume: dove una volta l'impatto sonoro era parte integrante del messaggio (non so voi, io la musica amo ascoltarla con lo stomaco) adesso il suono è costretto tra le cuffiette, compresso per gli altoparlantini degli smartphone o dei microimpianti hi-fi casalinghi. Mi soffermerei a ragionare su questo radicale cambiamento della fruizione del fatto musicale: le piazze, i prati, le aree aperte sono state sottratte alla collettività e rimpiazzate da spazi ridotti, transennati, limitati all'uso personale. È successo lo stesso ad altre fonti di piacere, di ispirazione, di acculturazione. Condivisione è diventata una parola diversa: era un accadimento unico e difficilmente ripetibile in serie nel quale ci si ritrovava coinvolti io e te e cento e mille e diecimila altri – adesso sta a raccontare quel mucchietto di uni e zeri che passa dal mio pc al tuo e viceversa.
Eppure sono convinto che canzoni anarchiche se ne scrivano ogni giorno. Prendono forme diverse, suonano differenti, fanno giri strani ma per arrivare prima o poi arrivano e vanno dritte al cuore. Potrebbe succedere ancora: tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta l'espressione musicale/culturale libera è riuscita ad aprire falle significative nel tessuto sociale che sono state ben presto rabberciate.
Quest'ultima frase ha senso compiuto anche sostituendo la parola “mercato” a “tessuto sociale”. Se di dibattito si può parlare, è in questa forma che è poi proseguito: nei discorsi spiccioli al banchetto di stella*nera, nelle due-tre-quattro-cento parole scambiate con la scusa di prendere un libro o un disco, consapevoli tutti d'essere stati nutriti dall'ideologia del mercato obbligatorio ed avvelenati dalla cultura dominante, eppure determinati a non soccombere.
Ho una speranza segreta nel cuore: alla prossima Vetrina, alla prossima manifestazione, alla prossima riunione nostra, accanto alle canzoni di Pietro Gori vorrei ritrovarne almeno una di Faber e almeno una di Franti.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it