migranti
Povera Italia
di Renzo Sabatini / foto di Paolo Poce
La piccola vicenda di un immigrato senegalese su di un tram romano apre una riflessione sul razzismo nostrano. Le responsabilità dell'ideologia liberista, non delle migrazioni.
Correva l'anno 1993, si era in piena tangentopoli e tutta l'Italia che conta era sotto inchiesta. Segretari di partito, parlamentari, ministri e dirigenti dello Stato stavano collezionando il più alto numero di avvisi di garanzia che la storia della Repubblica avesse mai registrato. I materassi di un alto funzionario del Ministero della Sanità si scoprirono pieni di banconote. Venivano alla luce affari loschi e preoccupanti, come la storia di un ministro che aveva venduto la salute delle donne “dimenticando” di far aggiungere sull'etichetta di una nota bevanda che il suo consumo in gravidanza era sconsigliato. Chi c'era ricorderà il clima strano di quei giorni, coi magistrati divenuti eroi popolari e stelle dei notiziari, il team mani pulite come una posse di sceriffi a caccia di banditi, costi quel che costi. Un'ondata di processi minacciava di spazzar via la classe politica italiana; partiti storici, che avevano governato l'Italia dal dopoguerra e sembravano destinati a ingombrare la nostra vita fino alla fine dei giorni, si dissolvevano come neve al sole o si affrettavano a cambiare simboli e nomi.
In quei giorni, in cui Montenero di Bisaccia divenne famoso quanto Courmayeur, abitavo a Roma, sulla via Prenestina e ogni sera commutavo, stanco e pensieroso, nei vecchi tram che dalla stazione Termini sballottano gente disfatta dalla vita verso i palazzi tristi della periferia, passando tra brutti guard-rail e alberi eroici sopravvissuti allo smog.
Una sera, alla fermata di Porta Maggiore, dove il tram disegna una lunga curva cigolante sotto archi millenari, prima di avviarsi verso la desolazione di cavalcavia e pilastri della tangenziale, salì un ragazzo senegalese, uno di quei venditori ambulanti di cui la capitale, già allora, era discretamente piena. Alto, magro, il bel viso stravolto dalla stanchezza, il ragazzo si abbandonò sul sedile posando nel corridoio vuoto il grande borsone con la mercanzia. Un passeggero piuttosto in età, pingue e sudato, pantaloncini e maglietta sdrucita che lasciava intravedere la pancia sporgente, lo fissò con evidente disgusto e proferì ad alta voce, a beneficio di tutti i passeggeri: “Povera Italia, come siamo ridotti male”! Sembrava un personaggio uscito da certi film del dopoguerra; pensai che Pasolini avrebbe anche potuto scritturarlo. Il ragazzo invece neanche si voltò a guardarlo. Il tizio provò ancora qualche provocazione ma finì per rinunciare e rimase appoggiato a un sostegno a soppesare lo straniero con sguardo di disapprovazione. Per fortuna non era un pericoloso naziskin ma un innocuo proletario di periferia romana.
Pronti a chiedere la pena di morte
Erano i tempi di tangentopoli ed io sono stato zitto, poco
propenso a cominciare una discussione notturna su un tram di
periferia, ma avrei voluto prendere a male parole quel pancione
ambulante, metterlo di fronte al suo paradosso. Come, pensai,
viene a galla tutto il marciume, non solo alcuni, o i più
alti, ma proprio tutti i rappresentanti delle istituzioni sono
sul banco degli imputati per aver commesso una massa enorme
di reati a danno di tutta la comunità, accusati di essersi
arricchiti con soldi pubblici che magari sarebbero serviti a
far funzionare scuole e ospedali; accusati di aver gonfiato
le casse dei partiti, le proprie tasche e quelle di oscuri affaristi
e faccendieri; e lui lamenta la disfatta della nazione per un
ragazzo straniero che, probabilmente, sgobba dalla mattina alla
sera senza dare fastidio a nessuno? Povera Italia perché
un senegalese occupa il corridoio vuoto del tram col suo borsone?
Perché ha avuto la bella idea di portare la sua pelle
nera fino a queste latitudini, per andare a vivere in un qualche
affollato appartamentino sulla via Prenestina, dove probabilmente
un padrone di casa italianissimo incassa l'affitto sottobanco,
esentasse, un tanto a posto letto e brandine anche davanti alla
porta del cesso? Povera Italia perché quel ragazzo si
sbatte sul tram dalle prime ore del mattino lasciandosi alle
spalle un quartiere che politici e palazzinari hanno fatto crescere
selvaggio, squallido, senza servizi e infrastrutture, per gonfiarsi
le tasche di denaro pubblico, infischiandosene dei bambini che
crescono fra traffico e immondizia?
Non fu che un piccolo episodio ma a me parve un assurdo paradosso.
Nella mia personale simbologia, l'immagine classica dei nostri
difetti nazionali: noi, sempre pronti a piegare la testa di
fronte ai potenti, per antico senso di sottomissione e per accurato
calcolo di convenienza; sempre pronti a prendercela coi più
deboli, per sfogare le nostre frustrazioni.
Oggi, navigando fra social media, blog e stampa online sono
testimone di attacchi ben più gravi. Resto a volte incredulo,
spaventato dalla violenza dei commenti di tanti lettori; annichilito
dalla loro cattiveria, espressa senza vergogna dietro la protezione
del tastierino del telefono. Troppi, nella rete, sono diventati
spavaldi giustizieri di povera gente, pronti a chiedere la pena
di morte, la tortura, il linciaggio di migranti e rom per piccole
supposte infrazioni o per il semplice fatto di vivere nelle
nostre città.
Eppure quella corsa di tram mi è rimasta impressa nella
memoria. È un ricordo che negli ultimi anni è
tornato a visitarmi spesso, specie in occasione di certi avvenimenti
che sfidano il mito degli italiani brava gente: sgomberi di
poveracci senza altro posto dove andare, sindaci che governano
le loro città scacciando lavavetri, mendicanti e senzatetto;
facinorosi che si improvvisano sceriffi organizzando spedizioni
punitive nei campi nomadi; politici e prelati che uniscono le
forze contro la costruzione di un luogo di culto per immigrati;
cittadini e istituzioni che alzano barricate per impedire ai
rifugiati di raggiungere un posto dove passare la notte.
La parola “razza”
A un dibattito ho incontrato una docente afroamericana che
studia questioni razziali. Mi ha interessato il suo punto di
vista, non solo perché come nera americana ha avuto inevitabilmente
a che fare in prima persona col pregiudizio, ma anche perché
aveva appena terminato un periodo di ricerca in Italia sul tema.
Era stata colpita dal nostro assoluto rifiuto di parlare di
“razze” per riferirci a persone diverse per etnia,
cultura e colore della pelle. Secondo lei gli italiani, in questo
modo, negano l'evidenza del razzismo che si sta diffondendo
nel paese, rifiutandosi di osservare in modo obiettivo la realtà,
fatta di gruppi umani oggettivamente diversi fra loro. Si era
resa conto che gli italiani hanno in genere il terrore di pronunciare
quella parola, “razza”, quasi che il suo suono evocasse
qualcosa di terrificante.
Nel suo paese le cose vanno diversamente: il termine è
usato dalla comunità scientifica e generalmente accettato.
Ha valore giuridico, lo utilizzano le istituzioni, la polizia,
i giudici, i media, i religiosi. Nelle scienze sociali si parla
di razze umane e un matrimonio fra individui con diverso colore
della pelle è ancora oggi definito “interrazziale”.
Ho il sospetto che la differenza dipenda in primo luogo dal
diverso peso che quella parola ha nelle due lingue: in italiano
suona forte, inaccettabile, utilizzarla con la stessa disinvoltura
degli anglofoni sarebbe impossibile, significherebbe sostenere
l'idea che davvero esistano più razze umane. Secondo
quella studiosa, invece, questa reticenza ci spinge a ignorare
la realtà dei rapporti fra italiani e migranti nel nostro
paese, minati dal pregiudizio.
Non riesco a darle ragione, penso che la situazione italiana
sia molto diversa da quella degli Stati Uniti, paese la cui
prosperità ha radici nello schiavismo e dove il razzismo
è una realtà storicamente incastonata nelle stesse
istituzioni e non è riferita ai soli migranti ma riguarda
principalmente i cittadini americani non bianchi, che scontano
a milioni il prezzo di una secolare marginalità.
Quell'arguta professoressa non mi ha convinto ma mi ha spinto
a pormi delle domande. Mi sono chiesto da quando il termine
razza, riferito agli esseri umani, è divenuto tabù
nella nostra lingua. La mutazione potrebbe essere più
recente di quanto non sembri. Mussolini parlava di razza nei
suoi discorsi deliranti e il fascismo fu apertamente, ideologicamente
razzista. Nel 1938 dieci cosiddetti scienziati pubblicarono
il manifesto della razza, che divenne la base pseudoscientifica
delle leggi razziali approvate da lì a poco: norme ignobili
che inventarono la razza italiana e ufficializzarono discriminazione
e persecuzione sistematica degli ebrei e di altri gruppi umani
presenti sul territorio della penisola.
Non è quindi poi così lontana l'epoca in cui ci
siamo scritti razzisti anche nella legge: razzisti ufficiali.
Il tempo in cui ci siamo definiti ariani e abbiamo mandato via
dalle nostre scuole studenti e professori ebrei, per poi condannarli
a morte nei campi di sterminio, è terribilmente recente
ed è durato fino all'ultimo atto della ridicola “era”
fascista. Non so quanti italiani, all'epoca, abbiano giudicato
negativamente quelle norme assurde, non credo che qualcuno si
sia dato pena di elaborare statistiche.
Oggi si parla, a volte, di cittadini eroici che rischiarono
la vita per nascondere ebrei fuggitivi, mai dei simpatizzanti,
dei delatori o della maggioranza silenziosa che vide scomparire
dalle classi i ragazzi ebrei ma non disse nulla. Forse oggi
ci rifiutiamo di parlare di razza per non rievocare i fantasmi
di un passato molto vicino, che dovrebbe farci tremare di indignazione
ed arrossire di vergogna; un passato frettolosamente seppellito,
su cui troppo poco si è indagato. Non parliamo apertamente
di razze umane, come fanno gli americani, ma c'è, oggi,
chi si oppone ai bambini stranieri nelle scuole, riportando
in vita i fanatismi del trentotto.
Ho letto analisi di studiosi che distinguono fra razzismo e
xenofobia e sostengono, con qualche evidente contraddizione,
che gli italiani non sono razzisti, ma in Italia il razzismo
sta crescendo. È certo importante evitare semplificazioni
linguistiche ma, razzisti o xenofobi, il fatto resta che l'intolleranza
si è diffusa come un virus, con risvolti sconcertanti.
Non è raro assistere ad attacchi violenti, anche se solo
verbali, nei confronti degli stranieri; la protervia con cui
spesso ci si rivolge ad essi fa pensare che qualcuno si senta
portatore di una sorta di diritto di superiorità; l'indifferenza
con cui lasciamo che chi può li sfrutti e li tratti come
schiavi, come è accaduto e accade a Rosarno e in tanti
altri luoghi, costringe a riflettere. Non siamo nemmeno più
maggioranza silenziosa, piuttosto maggioranza vociante.
Valvola di sfogo
Qualche anno fa ho partecipato ad un progetto di monitoraggio
che puntava a denunciare notizie discriminatorie o di incitazione
all'odio razziale nella stampa italiana.1
Nella cronaca di importanti giornali scovavo articoli sciatti
e malati di pregiudizio, nei quali si chiedeva a gran voce lo
sgombero di campi nomadi o si reclamava il pugno duro contro
la presenza nei centri storici di zingari e venditori
ambulanti. Fra i quotidiani da controllare mi era toccata in
sorte la Padania, organo della Lega. Erano i tempi in cui Cécile
Kyenge era ministra dell'integrazione ed io, che non avevo mai
sfogliato quelle pagine, nemmeno per caso, rimasi sconvolto
dalla violenza razzista degli attacchi contro di lei.2
La Kyenge non era presa di mira per le idee o il programma ma
in quanto donna dalla pelle nera, africana, dunque straniera
agli occhi di chi la attaccava, benché giuridicamente
cittadina italiana. Che una donna africana fosse diventata ministro
della pur odiata Repubblica pareva alla Lega inaccettabile e
la campagna era quotidiana, serrata, umiliante e violenta. Quell'esperienza
mi mostrò come fosse possibile sprofondare nel pregiudizio
più becero, schernendo e umiliando l'altro fino a negarne
l'umanità. Quelle letture mi davano malessere, vergogna.
Mi facevano temere che stessimo scivolando lungo una china senza
ritorno.
Il germe così si è diffuso, infettando il tessuto sociale. L'insulto razzista è stato sdoganato. Un'insegnante milanese, da molti anni impegnata nell'inserimento dei ragazzi stranieri, mi racconta di come sia diffusa l'intolleranza fra i suoi studenti italiani. Sempre più di frequente esprimono sentimenti razzisti, con un repertorio di banalità e stereotipi quasi certamente appreso in famiglia. Quei ragazzi sembrano impermeabili a qualsiasi tentativo di ragionare su questi temi, avvolti nei loro pregiudizi, indifferenti alla sorte dei migranti, insofferenti per la loro presenza. Nutrono convinzioni difficili da scalfire: il dubbio non fa parte del loro scarso bagaglio culturale e si infastidiscono fino a divenire aggressivi se si cerca di argomentare.
Sono convinto che ogni cultura contenga in sè i germi dell'intolleranza e del razzismo. Ogni comunità ha una sua naturale tendenza alla chiusura, alla diffidenza nei confronti dello straniero, del diverso. Anche nel mondo globalizzato restiamo tribali e i quartieri delle grandi città hanno confini invisibili, finiscono per avere qualcosa in comune con i più sperduti villaggi. Quasi certamente ognuno di noi coltiva, più o meno consapevolmente, qualche sua intolleranza, per non parlare del campanilismo, che è un tratto distintivo dei popoli italici.
Circondato da facce nere
Non ci dobbiamo per forza scrollare di dosso tutte le antipatie e le idiosincrasie, o farci diventare simpatica, ad ogni costo, ogni altra cultura umana. Non si chiede, ovviamente, di accettare le violazioni dei diritti umani, le donne prigioniere in casa, le spose bambine, le schiave del sesso o le mutilazioni genitali per un malinteso senso di rispetto culturale. Si tratta piuttosto di riconoscere e cambiare le storture della nostra società e cultura nel rapporto con gli stranieri che arrivano da noi; di non utilizzarli come valvola di sfogo delle nostre frustrazioni, non indirizzare verso di loro la rabbia che dovremmo invece dirigere verso il potere che ci condiziona la vita e produce emarginazione e povertà, alimentando la follia capitalista che rende sacrificabili sull'altare del profitto tutti gli esseri umani che non ce la fanno. Se la data del mio pensionamento si è allontanata a dismisura e se i miei figli trovano solo lavori sfruttati e sottopagati non è colpa degli stranieri ma della legge Fornero, del Jobs Act e di tutte le nefandezze che negli ultimi decenni hanno spinto il paese e il mondo verso una sola, maledetta direzione. Verso quel baratro ci hanno costretto Reagan, la Thatcher e tutti coloro che, dopo di essi, hanno sposato l'ideologia liberista, non gli sbarchi di migranti.
Così, ogni tanto, mi torna in mente quel piccolo episodio su un tram romano, ai tempi di mani pulite. Tangentopoli è passata, come passa una tempesta. Quando alla fine le acque si sono calmate i potenti si sono rimessi in piedi, riciclati, autoassolti, cambiati d'abito ma sempre al timone, sempre ricchi, dopo aver rubato e sperperato il denaro pubblico, coi loro appartamenti, gli yacht, i loft e tutti i privilegi che né il senegalese col borsone, né il pingue romano, avranno mai.
Mi chiedo che fine abbiano fatto quei protagonisti di una scena da film neorealista. Il senegalese, oggi non più ragazzo, forse è finito nei guai, attratto magari dai più facili guadagni della malavita romana. Oppure è tornato al suo paese e ha aperto un ristorante. Il pingue romano sudato, con la maglietta lurida tirata sulla pancia, forse è ancora in giro su quei tram, avanti e indietro fra centro e periferia, a vociare sugli stranieri che oggi li affollano più di allora. Magari, esodato dalla legge Fornero o disoccupato dal Jobs Act, si è ritrovato a fare la fila assieme agli africani, per un pasto caldo alla mensa della Caritas di ponte Casilino, chissà. “Povera Italia”, avrà pensato allora ancora una volta, circondato da facce nere, povere come la sua.
Renzo Sabatini
- Iniziativa dell'associazione 21 luglio. Per approfondimenti:
21luglio.org/21luglio/manifesto/
- Il leghista Calderoli, all'epoca vice presidente del Senato, la definì pubblicamente “orango” durante un comizio.
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