Proposta/ Francobolli di anarchia
Nella sua dimensione esistenziale l'essere umano, godendo e
degustando i piaceri della vita e della natura, potrebbe avere
il ruolo di giardiniere del pianeta Terra. Colui che risolve
i problemi ambientali al posto di crearli.
Da questo punto di vista come genere umano in tutte le sue varianti
siamo stati per il momento un disastroso fallimento e questa
“nostra” civiltà industriale non ci ha aperto
di sicuro nuovi orizzonti. Presi da una follia collettiva nella
rincorsa consumistica ci siamo sempre più allontanati
dalle semplicità essenziali le quali, oltre agli aspetti
primari (cibarsi, vestirsi, ripararsi, riposare, vivere affetti
e una buona sessualità), significano essere parte attiva
di intensi e solidali rapporti sociali fondati sul mutuo appoggio,
rispettare il territorio, gli altri esseri viventi e, in ultima
analisi, rispettare noi stessi. È proprio sulla mancanza
di rispetto che si fonda questo sistema autoritario. Si sfrutta
e si specula per mancanza di rispetto dei lavoratori dipendenti,
degli utenti costretti ad usufruire di servizi indispensabili
(acqua, elettricità, gas) o dei semplici acquirenti allettati
dalle infinite merci spesso inutili messe a disposizione dal
mercato globale. E globalmente si insiste a togliere al povero
e dare al ricco. Per mancanza di rispetto si inquina, si deturpa,
si distrugge, si cementifica, si coltiva con diserbanti e chimica
assassina, si gettano rifiuti dove occhio non vede... È
la stessa logica e mancanza di rispetto che insulta, denigra
o deride chi non è in linea con il pensiero dominante
o non si adegua ai soliti conformismi e luoghi comuni tanto
cari alla moltitudine. Il tutto poi è codificato e normato
da una burocrazia legislativa che ha la pretesa di esercitare
un capillare controllo sopra ogni luogo e su ogni aspetto della
nostra vita. La soluzione dei problemi sociali ed ecologici
è delegata alle “autorità competenti”
o agli “esperti” istituzionali di turno e si è
di fatto espropriati dall'intervenire in prima persona (azione
diretta) nel gestire momenti di convivialità fuori dagli
schemi o manutenzioni del territorio non autorizzate.
Si
arriva all'assurdo di multare un anziano contadino di montagna
reo di voler ricostruire, a sue spese e con le sue fatiche,
un muretto a secco senza aver chiesto i relativi permessi per
il “movimento terra” e chi recupera legna secca
in boschi abbandonati all'incuria rischia una denuncia per “appropriazione
indebita”. Le attività di Genuino Clandestino possono
fornirci infiniti esempi delle assurdità istituzionali.
Proibito scambiarsi i semi? Sconsigliato e a volte multato l'uso
di stufe a legna e caminetti per riscaldarsi? Ci mancherebbe
solo che, con pretestuose motivazioni igienico-sanitarie, vietassero
la coltivazione di orti domestici e con l'assurdo si toccherebbe
veramente il fondo.
Fortunatamente esistono ancora dei margini di autonomia tra
le esigenze reali di vita quotidiana delle persone e la fredda
asettica ragion di Stato che spesso si scontra o è fuori
sintonia con la semplice logica del buon senso applicato. Questo
può significare aggirare o infrangere leggi o leggine,
organizzare proteste sviluppando propositive attività,
utili al buon vivere collettivo, o partecipare a lotte in difesa
di diritti calpestati e di territori sacrificati alle dinamiche
della squallida speculazione.
Ma il territorio – termine con cui si sciacquano ripetutamente
la bocca i professionisti della politica – è la
nostra linfa vitale, l'unica vera ricchezza di cui disponiamo
in grado di garantirci un futuro. Potremmo meglio comprenderlo
riuscendo ad evadere mentalmente dai ristretti schemi monetari
a cui siamo stati forzatamente educati da un perverso sistema
di dominio tecno-industriale che avanza e si espande ben oltre
il semplice concetto di capitalismo economico.
È inquietante pensare alla presenza di poteri forti capaci
di determinare vita morte e miracoli di ogni area del Pianeta,
condizionando la nostra esistenza individuale e quella di oltre
7 miliardi di umani nostri simili. Per non tacere poi di altri
animali.
Ci parlano di democrazie, governo del popolo, libertà
obbligatoria ma, nella migliore delle ipotesi, lo Stato se non
è apertamente complice resta ostaggio di questi imperi
economici che non conoscono limiti e confini, mancando di rispetto
all'intero Pianeta.
Dunque, tutto è perduto fuorché la vita e l'onore?
Direi di no. Non è il caso di alzare le bianche bandiere
della rassegnazione e neppure il farsi prendere la mano da un
incontenibile pessimismo, anche se la realtà dei fatti
e l'attuale periodo storico ci spingono sempre più alla
deriva.
Del resto terrorismo psicologico e bombardamenti massmediatici
tendono a reprimere ogni tendenza al cambiamento, in positivo,
dell'esistente. È chiaro che da soli non si cambia il
mondo ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che ogni minima
azione ostinata e contraria a questo tecno-mondo autoritario
e assolutista non facendo notizia è come se non esistesse
al pari di un invisibile granello di sabbia infiltrato nei suoi
ingranaggi. È invece sulla buona onda del bene comune,
in aperta opposizione agli interessi privati speculativi, che
si muove il fluido di questa miriade di invisibili e spesso
isolate azioni ancora troppo minoritarie per incidere seriamente
nella realtà. Azioni eco-sociali di critica e propositive
nello stesso tempo, senza direzioni strategiche e organizzazioni
politiche calate dall'alto, spesso senza alcun collegamento
tra loro ma idealmente uniti poiché chi si attiva concretamente
per affermare qualsiasi aspetto del bene comune sa di non essere
solo e di camminare nella direzione giusta. L'esistenza, solo
in Italia, di oltre trecentocinquanta piccoli e grandi comitati
nati su specifiche esigenze locali di difesa del territorio
in questo senso è indicativa. Ed è appunto dal
territorio, dal ritorno alla terra e alla sobria rusticità
che bisogna ripartire per affermare il bene comune come valore
punto di riferimento per nuove lotte sociali. È una pratica
che coinvolge un imprecisato numero di coltivatori biologici
e quanti vivono zone montane, collinari, pianure, coste, isole...
Con una leggera impronta sulla mappa degli eco-sistemi, convinti
che nonostante il tutto sia frammentato in una miriade di proprietà
private e demaniali, il territorio nel suo insieme appartiene
a tutti gli esseri viventi. Se poi anche chi vive con disagio
i limiti e le sofferenze ambientali della città, sensibile
alle proprie esigenze antiautoritarie ed ecologiche si facesse
carico di un piccolo frammento di territorio, da preservare,
risistemare, difendere, accudire e, userei a questo proposito
il termine adottare, sì adottare come si può fare
con un figlio, qualcosa di meglio si prospetterebbe all'orizzonte
cupo e desolato. Senza dimenticare che lo Stato legifera, controlla,
reprime ed i poteri forti dettano le regole economiche a cui
siamo sottoposti, nel nostro piccolo potremmo benissimo andare
controcorrente nel realizzare dei... “francobolli di anarchia”,
come mi piace definire questi coriandoli di territorio liberato.
Non è detto che la sovversione debba per forza gratificarci
solo di momenti spettacolari ed eclatanti. Magari piccoli interventi
apparentemente insignificanti oltre che a darci una boccata
di ossigeno esistenziale e migliorare il paesaggio sul quale
abbiamo deciso di operare ci darebbero visibilità agli
occhi di chi abita i nostri stessi luoghi una modestissima propaganda
del fatto a esempio di come intendiamo la gestione libertaria
territoriale. Si potrebbero ad esempio risistemare terreni abbandonati,
bonificare da rifiuti e infestanti rive dei fiumi, torrenti,
fossi, canali, spiagge, pinete, giardini; piantare alberi da
frutta e ridare agibilità a sentieri scomparsi che attraversavano
boschi, selve, campagne; recuperare, coltivare e diffondere
semi di specie rare sia in campo aperto o utilizzando i balconi
di casa per una micro orticoltura urbana; questo e tutto quanto
i nostri desideri la volontà e la fantasia riusciranno
suggerirci.
Su queste tematiche mi permetto di tormentare il lettore di
“A” dopo circa vent'anni di esperienze in simili
attività, accompagnate da impegno, fatiche, entusiasmo,
delusioni, aspettative, illusioni, problemi, incazzature. Comunque
soddisfatto e arricchito da questi stimoli a diretto contatto
con una natura cui sento di appartenere. Questi, spesso inconsapevoli,
“francobolli di anarchia” già esistono a
macchia di leopardo, guardando più ai validi risultati
del recupero ambientale che alle mappe catastali. Sono ottimi
segnali di cambiamento che meriterebbero di essere amplificati
e diffusi con la partecipazione attiva di nuovi individui disposti
a mettere tempo, fatiche ed energie per concretizzare nell'immediato
queste piccole utopie. Concludo con un consiglio che esterno
a tutti e a tutte. Se ne avete la possibilità, cioè
se non abitate in un condominio ma in una casa dotata di canna
fumaria e già non l'avete fatto, installate una buona
stufa a legna. Oltre ad integrare le fonti di riscaldamento
già esistenti e migliorare la qualità della vita
resta una valida garanzia di sopravvivenza di fronte ad eventuali
inconvenienti del futuro. Il combustibile lo potreste poi recuperare
più o meno km zero... gratuitamente.
Piero Tognoli
Sondrio
Botta.../Via libera ai licenziamenti? Basta che non ci sia lo Stato
Certi “anarchici” di sinistra fanno cadere le braccia a volte. Dicono che senza una legge che preveda il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza “giustificato” motivo, un lavoratore può venire licenziato in qualunque momento, senza una motivazione valida. La “motivazione valida” a cui si fa riferimento è una motivazione stabilita per legge dall'autorità politica. Quella stessa autorità politica che gli anarchici – da statuto! – combattono, e senza la quale sostengono che staremmo meglio.
È chiaro che per un anarchico vero, non sedicente tale, non esiste che un'autorità politica statale stabilisca i motivi per cui si può o non si può interrompere un rapporto di lavoro.
Gli anarchici sostengono da sempre l'esistenza di un ordine spontaneo proprio della società quando essa è lasciata libera e non è oggetto di interventi coercitivi dell'autorità politica. Gli anarchici sostengono che la società si organizza meglio da sola, da dentro e dal basso, meglio di quanto qualsiasi autorità esterna possa organizzarla, con i mezzi della politica, della pianificazione, della centralizzazione, e del dirigismo. Per loro invocare una legge significa rinnegare completamente se stessi. Significa dimenticarsi che una legge è una imposizione esterna, che non potrà che generare una situazione peggiore, portare a conseguenze indesiderate e mandare in tilt l'ordine spontaneo. Significa dimenticarsi dell'esistenza stessa di un ordine spontaneo e fare implicitamente propria l'idea – anti anarchica! – che senza un'autorità politica possano regnare solo il caos, la violenza e l'ingiustizia, e che di fatti essere anarchici sarebbe proprio essere a favore della violenza e del caos.
Se si ritiene che, in realtà, in assenza di una legge, in assenza di un intervento dell'autorità politica, e in assenza di un'interferenza coercitiva, ciò che emerge è un ordine spontaneo, questo equivale ad affermare che si avranno strutture, regole, autorità e governo, non basati sull'uso della coercizione. Per parlare di ordine questi sono elementi necessari, ma per definirlo Spontaneo” è necessario che non siano fondati sull'uso della forza, che si reggano sul consenso volontario e che siano modificabili o abbandonabili in ogni momento.
Una società anarchica dovrebbe reggersi su rapporti pacifici e volontari. Questo genererebbe il caos?
Pensiamo a un rapporto di amicizia o a un rapporto d'amore: non c'è una legge che stabilisca i giustificati motivi per essere amici, o per rompere un'amicizia, per innamorarsi e stare insieme o per separarsi... eppure tutto sommato le persone non cambiano amici e partner ogni giorno, come trottole impazzite, in un caos incomprensibile.
Le persone non agiscono a caso: hanno una cultura, hanno abitudini, hanno consuetudini, hanno valori, hanno persone la cui opinione importa loro, hanno un carattere, hanno una visione del mondo, hanno la capacità di ragionare, hanno la capacità di imparare, di imitare, di seguire esempi, di innovare. Vivono in una rete di relazioni e rapporti che li influenza e li condiziona. Vivono in un mondo naturale che li influenza e li condiziona. In assenza di una autorità politica nessuno è libero di fare quello che vuole. Ciascuno è limitato dal mondo in cui vive, dalla situazione in cui si trova, e dalle persone che ha intorno. Gli altri sono allo stesso tempo la libertà e il limite.
Chi è anarchico crede che tutto ciò (cultura, abitudini, consuetudini, tradizioni, valori, desideri, influenze, esempi, testimonianze, ragionamenti, convinzioni, fantasie, sogni, volontà, etc...) possa ordinare la convivenza umana, in un modo bello, pacifico, interessante, felice, giusto e nobile. Chi crede che “ci voglia una legge”, che stabilisca arbitrariamente i motivi “giusti” per licenziare, dando una definizione politica del termine “giusto”, perché lasciata a se stessa la società genera un caos irrazionale, dove tutti licenziano e sono licenziati senza ragione, nega tutto ciò che l'anarchia è. Al contrario un anarchico crede nei rapporti volontari, che si reggono sulla libera scelta di chi vi partecipa, e che dunque possono essere contratti o sciolti in assoluta libertà secondo le scelte di chi ne fa parte. Libertà di associarsi e non associarsi, sono la stessa cosa. In ogni rapporto umano, si tratti di amicizia, sesso, famiglia, lavoro, economia, finanza, religione, cultura, sport o qualsiasi altra cosa, ogni rapporto dovrebbe idealmente essere volontario e non coercitivo.
Ma anche in assenza di qualsiasi intervento autoritario, esiste una logica per gestire una squadra di basket, una scuola, un negozio, una casa editrice, in assenza di una legge che limiti chi può essere assunto e chi può essere cacciato. Esistono dei limiti che non vengono dalle imposizioni politiche, ma stanno dentro le cose. Non hanno a che fare con la polizia, i tribunali, le carceri, ma si impongono ugualmente.
Siamo tutti mutualmente dipendenti. La squadra di basket non potrà giocare bene, vincere le partire, avere dei fans, trovare persone disposte a farne parte, avere degli sponsor, e così via... se viene gestita da un pazzo che ogni giorno manda via qualcuno senza ragione. Per esistere, per crescere, per affermarsi dovrà seguire una logica: dovrà fare le scelte giuste con i criteri giusti.
Le scelte della altre squadre la influenzano: se si scopre che i più bravi giocatori di basket sono – dico per dire – i neri, beh, per competere con chi li arruola, dovrà arruolarli anche chi non li avrebbe voluti, o esserne penalizzato. La scuola dovrà assumere degli insegnanti decentemente capaci se vuole che qualcuno si iscriva e la finanzi, dovrà pagare decentemente questi insegnanti se vorrà che qualcuno si presti ad insegnare, dovrà preoccuparsi di aggiornare i suoi corsi e di verificare il destino di chi ha studiato lì, per poter testimoniare a chi deve scegliere in quale scuola iscriversi, che iscriversi lì è una buona idea. Il negozio dovrà vendere un prodotto che qualcuno vuole acquistare, a un prezzo che qualcuno è disposto a pagare, dal momento che allestirlo, mantenerlo aperto, e anche solo vivere ha un costo. Se mi metto a vendere ghiaccio agli eschimesi, scoprirò che anche se la legge me lo permette, esiste qualche altra cosa che me lo impedisce. E così via.
In una società anarchica ciascuno è obbligato a chiedersi “cosa ho da offrire agli altri?”, ciascuno è obbligato a cercare il rapporto con le altre persone, a cercare di capirle e di andarci d'accordo, perché in una società volontaria nulla è dovuto: là dove non puoi ricorrere alla violenza, né direttamente, né attraverso lo Stato, tutto ciò che puoi ottenere passa dal consenso altrui. Da qui nasce un ordine dove nessuno può fare quello che vuole, e dove nessun datore di lavoro può licenziare chi vuole, quando vuole, senza una valida ragione, semplicemente perché sarebbe un datore di lavoro completamente inetto, e farebbe fallire la sua impresa.
Di fatto le imprese si avvalgono, pagandole profumatamente, di persone che si occupano di valutare accuratamente chi assumere. Non assumono e non licenziano a caso, ma secondo la migliore teoria a loro disposizione, su quale può essere la migliore persona da assumere. Fanno colloqui, test, selezioni per scegliere: tutto questo – al di là dell'efficacia dei processi di selezione – è l'opposto di una scelta irrazionale. Essendo le varie imprese in concorrenza fra loro, anche i criteri con cui assumono e licenziano lo sono, per cui non esiste la possibilità del “padrone” di fare tutto ciò che desidera.
È molto più probabile che una scelta politica, burocratica, clientelare, arbitraria, come sono sempre le scelte degli stati, sia irrazionale, e demenziale.
Pietro Agriesti
Milano
e risposta/ Comunque senza Stato né capitalismo
Il tema del licenziamento è evidentemente all'ordine
del giorno: su numero di dicembre-gennaio di “A”
(n. 421) abbiamo dovuto leggere la richiesta di licenziamento
dei dipendenti statali per favorire il carrierismo (articolo
di Vallorani), oggi la critica agli 'anarchici' di sinistra
che si oppongono al licenziamento senza 'giustificato' motivo.
Prima di essere licenziato anch'io vorrei fare alcune considerazioni
in merito.
Nella società 'anarchica' prefigurata da Pietro Agriesti 'nessun datore di lavoro può licenziare chi vuole, quando vuole, senza una valida ragione,...'; ne deduco che questa società 'anarchica' è una società che prevede imprenditori – sia che siano possessori dei mezzi di produzione, sia gestori, per conto di altri, degli stessi – e lavoratori, dipendenti dal salario che viene loro elargito.
Inoltre viene affermato sempre da Pietro Agriesti: 'Se si ritiene che, in realtà, in assenza di una legge, in assenza di un intervento dell'autorità politica, e in assenza di un'interferenza coercitiva, ciò che emerge è un ordine spontaneo, questo equivale ad affermare che si avranno strutture, regole, autorità e governo, non basati sull'uso della coercizione'. Se le parole hanno un senso una società di tal tipo – basata sulla gerarchia d'azienda, sull'autorità e sul governo – mi pare difficile che possa essere basata sul consenso.
Quando esiste la possibilità di determinare la vita altrui, sia nel definire l'oggetto dell'impresa sia la qualità e la quantità del lavoro estorto ai subordinati, si determina una evidente situazione di potere, e dove c'è potere difficilmente si può parlare di 'consenso' e tantomeno di 'anarchia'. L'essere 'mutualmente dipendenti' implica una società basata sull'orizzontalità, sulla partecipazione, in buona sostanza su una decisionalità costruita, questa si, sul consenso e sulla capacità collettiva di comporre i possibili conflitti.
In mancanza di tutto ciò si è solo 'dipendenti' da un potere che, seguendo le logiche di mercato, sceglie, promuove, seleziona, produce, commercia; un potere che è condizionato da un altro potere, lo Stato, a sua volta dipendente dalle dinamiche del primo. Due poteri fortemente intrecciati che si sostengono e si giustificano a vicenda. Con una 'loro razionalità che non è, o almeno credo che non sia, la 'nostra' razionalità.
Si è mai visto un dipendente, disposto ad accettare e a subire la 'razionalità' di un sistema che lo valuta, lo giudica, lo premia o lo licenzia, senza fiatare se non per la violenza del gendarme che protegge quella 'razionalità'? Lo Stato ha il monopolio del potere delle armi, la 'razionalità' delle imprese nazionali e multinazionali ha il monopolio sulla nostra vita di lavoratori/consumatori. Dove sta il consenso?
Senza Stato non può esistere un sistema economico basato sulla proprietà dei mezzi di produzione, sulla disuguaglianza, sul lavoro salariato, sul profitto perché un sistema siffatto non reggerebbe al conflitto che quelli di 'sotto' scatenerebbero contro quelli di 'sopra' per conquistarsi una vita degna di essere vissuta.
'Che cos'è la proprietà?' si chiedeva retoricamente il vecchio Proudhon per poi rispondere 'un furto'. Contro questo furto di ricchezza sociale, di natura, di vita, lavoratori e lavoratrici si sono sempre associati e mobilitati, anche in forme diverse, per difendere se stessi e i loro simili.
Riformismo progressista e controriforma
È solo grazie a questa associazione e alla forza che questa associazione ha dato loro che hanno potuto ridurre il tempo di lavoro, strappare i fanciulli allo sfruttamento, contenere la bestialità delle condizioni di fabbrica, abbassare i livelli di inquinamento e di insalubrità. E nel contempo conquistare migliori condizioni di vita con il mutuo appoggio in campo sanitario, previdenziale, educativo, ecc., costruendo organismi basati sulla libera volontarietà. E non un caso che per spezzare questa rete di associazionismo orizzontale, volano di un potenziale sistema autogestionario, lo Stato è intervenuto pesantemente per arrogare a sé il potere dell'assistenzialismo e dando vita alla storiella dei 'servizi sociali', rafforzata dalle politiche del riformismo progressista.
Riformismo che ha pensato e lavorato affinché si rafforzasse il ruolo dello Stato nella società, sia dal punto di vista economico, dando vita a complessi industriali di grandi dimensioni, sia dal punto di vista sociale, affinando il ruolo delle mutue, del sistema educativo, di quello pensionistico, ecc. con una legislazione apposita e diffondendo la malefica idea che la 'legalità', o meglio 'il rispetto della legalità' fosse la via per una maggiore statalizzazione della società e quindi, secondo i promotori, per la realizzazione di una società più giusta ed equilibrata. Come sia finito lo sappiamo e ci facciamo i conti tutti i giorni. Quel riformismo progressista è morto e sepolto; oggi ce n'è un altro che, al di là dei nomi, è un vero e proprio processo di controriforma.
Gli anarchici hanno avversato quel sistema di riforme attuato per vie statali sia perché teso a vanificare ogni capacità di lotta e di mobilitazione sia perché erano e sono ben coscienti che ogni legge è frutto di particolari condizioni e dei rapporti di forza che si danno in quella circostanza. Così come viene promulgata, così viene abolita. Illudersi che la via dell'emancipazione individuale e collettiva passi attraverso una legge è un'illusione foriera di sconfitta. Così come è stato per la stagione del cosiddetto garantismo.
Lo statuto dei lavoratori, presentato come prodotto delle dure lotte della fine degli anni '60, in realtà fu un tentativo di codificazione del conflitto di classe per riportarlo all'interno di dinamiche funzionali allo sviluppo del sistema e non per garantire chissà chi da chissà cosa. Nessuno dei proponenti lo Statuto aveva in mente, come passo successivo, l'inizio di un processo rivoluzionario.
Senza Stato né capitalismo
Non a caso il movimento, nella sua gran parte, fu contrario allo Statuto perché individuato come un mezzo per frenare le lotte non per rilanciarle. Tornando indietro nel tempo la stessa opposizione si ebbe nei confronti dell'istituzione della Scala mobile che adeguava periodicamente salari e stipendi al costo della vita, in quanto tendente di fatto ad annichilire la rivendicazione economica, motore di conflittualità sociale.
Tutto questo non vuol dire che quando Craxi attaccò la Scala mobile o quando Renzi con il suo job act ha voluto liquidare, tra le altre cose, l'articolo 18, in contesti di arretramento difensivo del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, noi si sia stati zitti e contenti di cosa stava succedendo.
Dato che le condizioni di vita dei lavoratori ci stanno a cuore (anche perché ne facciamo pienamente parte) e dato che pensiamo di vivere e conoscere le dinamiche che li stanno interessando, ogni elemento che possa ridar vita a mobilitazioni e lotte e che possa rappresentare un momento di ripresa dell'iniziativa, anche a partire dalla difesa di una legge, va valorizzato e utilizzato: ci sarà tempo e modo di affrontare, nelle sedi opportune, le questioni che stanno a cuore del nostro interlocutore.
L'abbiamo fatto con l'articolo 18, ma anche in campo sociale sostenendo e partecipando al movimento in difesa della 194 a fronte di un attacco forsennato di Chiesa, clericali e fascisti, ricordando, nel contempo che allora il movimento femminista si schierò contro la legge e a favore della depenalizzazione dell'aborto.
E, ribadisco, non tanto per mantenere delle leggi, alle quali nessuno crede, ma per contribuire allo sviluppo di movimenti che devono poter passare da una fase difensiva ad una offensiva, dal rispetto della legge alla prefigurazione di una società senza Stato né capitalismo.
Massimo Varengo
Milano
Giuseppe Pinelli/ Una storia partecipata, ieri e oggi
Come
annunciato su “A” 421 (dicembre 2017/gennaio
2018), il Centro Studi Libertari ha intrapreso un progetto
di public history dedicato a Pinelli e ai fatti di piazza
Fontana, intitolato ”Giuseppe Pinelli: una storia
soltanto nostra, una storia di tutti”. Vogliamo
costruire una storia partecipata e dal basso che permetta
di tenere vivo e in contatto con il mondo di oggi il senso
politico di quanto accaduto: l'assassinio di Pino, la
strategia della tensione, la volontà da parte dello
Stato di soffocare dissensi e alternative, quando iniziano
a diventare forti.
Per poter portare a termine questo progetto abbiamo lanciato
una campagna di raccolta fondi straordinaria che durerà
fino al 13 marzo. Siamo agli sgoccioli e abbiamo bisogno
di tutto il vostro sostegno! Il vostro contributo è
importante per consentirci di proseguire i lavori in maniera
rigorosa e sistematica.
Dopo il 13 marzo, fine della raccolta/fondi, si può
continuare a sostenerci andando sul nostro sito e vedendo
come poterci fare donazioni.
Scopri tutti i dettagli del progetto e come aderire su
www.centrostudilibertari.it
oppure alla pagina web sostieni.link/16723, in alternativa
puoi telefonarci al numero 02.873.93382 o scriverci all'indirizzo
email centrostudi@centrostudilibertari.it.
Centro Studi Libertari
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I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni.
Giorgio Fontana (Milano) 50,00; Stefano Adone (Milano)
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ricordando Angelo Sbardellotto, 10,00; Sergio Pozzo
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Capuano (Roma) 10,00; Gianni Ricchini (Verbania) 10,00;
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e Claudia Vio, 500,00; Rocco Tannoia (Settimo Milanese
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– Pv) 20,00; Francesca Palazzi Arduini (Barco
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