Quei canti della rivoluzione spagnola
Mi sento un po' così, nel senso che mi si attacca addosso
un po' di disagio, quando c'è da attribuire ad un disco
un qualche significato importante - tipo, che so, quando mi
chiedono quali siano i dischi più importanti della mia
vita, o quelli più rappresentativi - ma sento che questo
vecchio disco e proprio questo rappresenta per me molto di più
di un pezzo di plastica con un buco in mezzo. Da qui, proprio
da qui, potrebbero essermi germogliati dentro certi semi neri
e rossi fatti a forma di a cerchiata. Lo dico e lo scrivo adesso,
ma allora non me ne ero proprio reso conto, penso sia per quella
specie di spaesamento continuo che mi ha sempre accompagnato
e che rende sfocati e incerti i contorni delle cose da capire.
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La copertina del disco, edizione originale Pragmaphone (1972) |
Si era verso la metà degli anni Settanta, ed io avevo
neanche diciott'anni. Da qualche tempo frequentavo una compagnia
di teatro della mia città, ragazze e ragazzi tutti più
vecchi di me, alcuni solo di poco. Un collettivo indipendente
quando ancora era possibile chiamarsi così senza sentirsi
affatto ridicoli; un gruppo sperimentale in un modo che a me
pareva interessante, nel senso che in repertorio stagione dopo
stagione la compagnia alternava opere di autori che amavo, come
Dario Fo, ad allestimenti decisamente più impegnativi
come testi di Samuel Beckett ed Eugene Ionesco verso cui ci
si spingeva volentieri, tutti curiosi e tutti affamati di curiosità.
Una delle ragazze della compagnia era Claudia Vio: molto presto
sia lei che il regista si arresero alla mia inadeguatezza di
attore, tenendomi comunque nel giro perché me la cavavo
bene con una chitarra in mano, e uno che masticasse un po' di
musica gli poteva tornare buono.
Claudia insistette in modo particolare per presentarmi ad un'amica
sua, Annamaria Pedretti - pure lei chitarrista e anche cantante,
allora si proponeva in pubblico con il cognome Varagnolo - così
che in breve mi ritrovai intortato in una specie di spettacolo
fatto di poesie e canzoni. La compagnia di teatro qui non c'entrava
- della scelta e della lettura dei testi se ne sarebbe occupata
Claudia, delle canzoni Annamaria, io con un paio di amici miei
a dare una mano aggiungendo chitarra flauto percussioni e fiato.
Le canzoni erano pesanti come i testi nell'economia della performance.
Erano canzoni anarchiche, roba della guerra di Spagna, roba
di cui non sapevo praticamente niente. Di quelle canzoni ne
conoscevo a malapena una: “L'Internazionale” l'avevo
sentita alle manifestazioni ma non in spagnolo e di certo non
con quelle parole lì. Quelle canzoni anarchiche le imparai
ascoltandole e riascoltandole a sfinimento da una cassetta,
copiata in maniera casalinga da un disco. Proprio questo.
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Manifesto del Comitato Spagna Libertaria (1975) |
Ai primi ascolti le canzoni di questi anarchici spagnoli non
mi sembravano granché. Erano lontane dai miei gusti di
sbarbo, a quell'epoca amavo affondare le orecchie in tutt'altra
retorica - nei dischi degli Area, dei Gong, degli Henry Cow.
Le trovavo banali, ecco. Qualcuna era solo una marcetta impettita,
altre somigliavano quasi a dei canti di montagna da intonare
in corriera nelle gite: in una parola, a me veniva da ridere.
Non era certo per spirito irrisorio punk (anche perché
il punk è stato inventato dopo), ero solo un tontolone
ignorante. In casa nostra non c'erano libri sulla Spagna, né
sulla guerra civile, né sugli anarchici (a dirla con
gli occhi e la testa di oggi, osservo che gli orizzonti di un
diciottenne di adesso sono di tutt'altra misura e dinamica).
Ridacchiavo, sì, perché non ne sapevo niente.
Ho smesso però presto di farlo, sono bastati certi sguardi
di Claudia e di Annamaria per farmi sentire una bestia. Di loro
mi fidavo: mi impressionava che prendessero queste canzoni così
sul serio, pareva che dietro ad ognuna ci fossero delle storie
- storie che io non conoscevo mentre loro per certo di tutta
la faccenda ne sapevano molto più di me. Così,
me le hanno raccontate. Ed è stato da loro, forse imitandole
o cercando di farlo, che ho cominciato a rispettare queste canzoni.
Le ho imparate seguendo l'ordine del disco, quindi per prime
“A las barricadas” e “Viva la FAI”,
le altre sono venute da sole come villaggi e piazze che si aprono
a sorpresa lungo una strada percorsa per la prima volta. Di
quello spettacolo di poesie e canzoni poi ci sono state solo
un paio di repliche, ho ricordi piuttosto vaghi tipo una sera
molto agitata al teatro Ruzante a Padova, con un compagno del
servizio d'ordine che mette in salvo me e la mia dodicicorde.
“...Ci si domanda come mai persone che hanno scritto
e cantato queste canzoni abbiano potuto perdere una guerra.
Potrebbe essere che quella guerra non sia ancora finita...”.
Il disco, dunque. È un'opera del tutto estranea non solo
ai giri commerciali ma anche all'idea stessa di commercializzazione
- penso che nei ragionamenti e negli intenti dei compagni coinvolti
l'idea di fare e poi vendere dei dischi sia rimasta ben al largo.
Thomas Ibañez scriveva l'anno scorso ad Elis Fraccaro
che “...la Chorale Durruti era composta da un gruppo giovanile
libertario di Parigi contattato da persone del Sainte Marte
locale. C'erano uomini e donne bulgari, spagnoli, francesi e
tra loro Mirtcho direttore d'orchestra e musicista professionista
arrivato in Francia tra il 1951 e il 1952...”.
Delle registrazioni e della produzione s'era fatto carico Yannick
Soteras, presumo sia anche l'autore del disegno in copertina
e delle note introduttive e storiche a corredo dell'album (di
lì a breve s'è occupato anche di un disco di Serge
Utgé-Royo). Il disco è uscito in Francia nel 1972,
con ogni probabilità in una tiratura di migliaio di copie
o forse due.
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Manifesto del Gruppo anarchico “Nestor Makhno”, Venezia (1975) |
Elis Fraccaro dell'Ateneo degli Imperfetti di Marghera racconta
nel libretto che accompagna la ristampa il suo incontro con
i fuoriusciti spagnoli a Perpignan, una delle ultime cittadine
francesi al confine con la Spagna, febbraio 1976. È grazie
a lui che i contatti sono stati presi, mantenuti e ripresi ed
è stato possibile salvare quest'opera. I supporti originali
sono andati persi, le registrazioni s'è dovuto ricostruirle
in studio riprendendole da un vinile in buono stato, conservato
proprio da Elis.
La ristampa è curata dall'Ateneo degli Imperfetti, dal
Centro Studi Libertari e da stella*nera.
Le canzoni ci sono tutte. I “classici”, innanzitutto:
“A las barricadas” e “Hijos del pueblo”
che venivano trasmesse all'inizio ed alla fine delle trasmissioni
di Radio Barcellona, l'emittente diretta dagli anarcosindacalisti.
Poi, ci sono canzoni in voga prima della guerra: “Arroja
la bomba”, “La Internacional”, “Juventud”
sono canzoni nate e cantate nelle prigioni. Infine, le canzoni
nate al fronte, “opere di poeti anonimi passati dall'aratro
alle rime imitando i versi sentimentali più ingenui fino
a giungere alla violenza più scatenata” (qui sto
copiando dalle note originali). Canzoni che cambiano, si trasformano,
strofe aggiunte e modificate: tutte hanno in comune il fatto
di non avere una musica propria ed originale - dalla “Varsovienne”
a “Torna a Surriento”, tutte le melodie vanno bene
per cantare ciò che si ha dentro.
Contatti:
www.ateneoimperfetti.it,
e-mail info@ateneoimperfetti
www.centrostudilibertari.it,
e-mail centrostudi@centrostudilibertari.it
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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