Voci e fumetti di guerra
Parla, il nemico ti ascolta! Notizie in merito a un archivio insperato
Voci, disegni, pitture, cartoline vengono a scomodarci un ricordo
lontano, perduto, non più nostro. Meglio ancora, rimosso.
È il ricordo collettivo della Grande Guerra, il massacro,
l'“Inutile strage”. La fine di un'idea millenaria
d'Europa (e noi ancora lì che ci affanniamo cento anni
dopo, davvero fuori tempo massimo...), il consolidamento degli
Stati Nazionali, l'ultima blasfema fase del Risorgimento italiano:
in effetti le fangose, terribili trincee del Fronte orientale,
furono il luogo dove per la prima volta s'incontrarono i proletari
provenienti da regioni lontanissime e del tutto aliene, dell'Italia
già riunificata da mezzo secolo.
La Grande Guerra iniziò un giorno a Sarajevo per non
finire più: la sua conseguenza più diretta e immediata
– la grande epidemia di febbre spagnola del 1918 –
fece ancor più morti che il campo di battaglia, la Rivoluzione
Russa del 1917, e i tentativi presto soffocati in Germania e
altrove – a volte generosi e straordinari – innescarono
conseguenze armate, deportazioni, fucilazioni, guerre civili,
restaurazioni conservative, involuzioni totalitarie e genocide...
che in un ventennio maturarono le condizioni di un nuovo e peggiore
conflitto mondiale.
Noi abbiamo come un rimosso fastidio a rammemorare quella prima
mobilitazione di tenebra, ma lì si innescarono almeno
i successivi cinquanta anni di sangue e terrore. È lì
che ha inizio la nostra contemporaneità.
Studiare la Prima Guerra Mondiale non è mestiere d'archivista,
ma analisi del presente.
Siamo ancora immersi nel lustro del centenario – 1914-1918/2014-2018
– e questo ha quanto meno provocato l'occasione di occuparsene,
centinaia le pubblicazioni della più varia natura, dalle
quali talvolta sono emerse riflessioni illuminanti, intuizioni,
scoperte tutte nuove.
Da qualche tempo si fa gran parlare della venuta alla luce di
un archivio fenomenale, chi ha avuto modo di perlustrarlo ci
ha raccontato meraviglie e presto dovrebbe veder la luce, dando
vita a pubblicazioni che certamente faranno storia.
Per ora riferisco quel poco che ne so. Negli anni di guerra
la passione tutta tedesca per le ricerche sul folklore, canti,
fiabe, motti, filastrocche, detti popolari (non dimentichiamo
che la parola “folklore” è proprio tedesca,
e che le fiabe dei Grimm ebbero un ruolo fondamentale nel consolidamento
di un sentire collettivo) ebbe modo di estendersi anche ai prigionieri
di guerra italiani. Finanziati direttamente dai fondi messi
a disposizione dal “Tesoro del Kaiser”, con tecnologie
per l'epoca del tutto d'avanguardia, gli etnologi registrarono
con scrupolo teutonico le vive voci degli internati dei campi,
compilando al contempo rigorosi schedari (zona di provenienza,
notizie sulle funzioni dei canti, ecc.) canti e testi dialettali
dei quali non potevano – anche al netto di un'infarinatura
di lingua italiana – comprendere niente. Dispersi e sepolti,
sballottati e dimenticati per circa un secolo, questi documenti
cristallizzati nei supporti fragili ed evanescenti quali i rulli
di cera, sono emersi – a quanto pare – in condizioni
del tutto accettabili (date le tecnologie dell'epoca) e sono
appunto in corso di studio e pubblicazione.
Solo a saperlo m'è venuta una sorta di febbrile commozione.
L'abbiamo più volte ripetuto: l'Italia arrivò
con inspiegabile ritardo alla grandi campagne di ricerca e registrazione
sul campo del patrimonio popolare, l'inizio del ventennio eroico
è per tradizione posto al biennio ‘54-‘55,
quando Lomax e Carpitella intrapresero il loro viaggio in Italia.
Sapere ora che risorge un insperato tesoretto tanto precedente,
proveniente da informatori del tutto incontaminati dai mezzi
di diffusione di massa – all'epoca della Grande Guerra
non esisteva né radio né televisione e il cinema
avrebbe parlato solo a partire dal 1930 – ci dà
i brividi.
Una parte, certo minima, dei soldi a disposizione non andarono
a costruire nuove e peggiori armi, bensì a preservare
dall'oblio perpetuo le voci degli uomini. Non voglio con questo
assolvere né l'umanità né nessuno, solo
comunicarvi questo dato.
Le voci disperse nel vento della Storia, le voci degli ultimi
che nessuno aveva pensato a raccogliere, le voci del popolo
ci arrivano. Ce le restituisce il nemico. Il nemico non esiste.
War Painters: come l'arte salva dalla guerra
Io Laura Scarpa non ho mai potuto smettere di amarla.
Disegnatrice di fumetti della meravigliosa generazione della seconda metà degli anni Settanta - Pazienza, Mattotti, Scozzari - ha dedicato metà delle energie alla didattica e l'altra metà a un'inesausta ricerca. Possiamo dirlo, chi ha seguito il percorso eterogeneo di Laura non può che concordare sul fatto che questa donna che adora il suo lavoro, non ha mai smesso di migliorarsi, nel segno, nelle tecniche, nelle capacità narrative... un vero talento che non si è mai arreso alla propria bravura, e che ha saputo trovare nell'attività didattica lo stimolo per continuare a confrontarsi ed evolversi. Così oggi i suoi disegni non conoscono davvero confine e appaiono tanto dinamici quanto emozionanti. Che siano i frammenti autobiografici di “Caffé a colazione” o le serie allegoriche e di denuncia (ricordo i ritratti immaginari di cento vittime di una manifestazione in Turchia) il segno sintetico allude sempre alla materia, ai corpi, alle superfici e non dimentica mai che anche solo una vignetta è la porzione di una storia (anche se noi ne sappiamo poco e niente) e una storia non è che la sintesi della vita, ciò che di noi resterà.
Oggi Laura Scarpa pubblica per l'editore ComicOut un libro capolavoro di difficile definizione dal titolo “War Painters (1915-1918) Come l'arte salva dalla guerra”. È una raccolta di tre racconti a fumetti, con una considerevolissima appendice che contiene un breve saggio sui pittori di cartoline (sempre della Grande Guerra) e altri appunti e appendici relative ai temi dei racconti.
Il primo racconto è appunto ispirato a un pittore, che traversa la guerra documentando bozzetti e volti di compagni di trincea... ovviamente luoghi, situazione e soprattutto persone sono continuamente dilaniati dall'estrema precarietà della situazione, dagli obici, dagli spari.
La coscienza mesta e contemplativa di questo osservatore distaccato e partecipe al contempo, ci testimonia di un'epoca fenomenale, appena conclusa nel bagno di sangue, quella delle avanguardie artistiche (e Vienna subito dopo Parigi ne fu forse la Capitale). Con gli stivali nel fango e nel sangue, coi berretti che non proteggevano dalle pallottole vaganti (solo in un secondo momento i trinceristi vennero dotati di elmetti) è difficile credere alla potenza dell'arte... eppure questo mondo si disfa e smotta, proprio come nelle visioni deformate dei post-impressionisti o nelle secche sintesi degli espressionisti e dei secessionisti.
L'arte pittorica dunque non ci ha salvato, ma ci ha dato i codici per guardare il cuore della tenebra, esplorarlo. Il fumetto oggi può rievocarne le storie di fuori e di dentro. Il disegno di Laura, questi colori sempre più lividi, si fanno essi stessi storia, materia densa del racconto, senza prendere per questo il sopravvento sulla linearità della narrazione. Il secondo racconto allude a un'incredibile storia di pittura applicata: le mutilazioni causate dalle ferite ai volti dei reduci, popolarono le città non solo di monchi e storpi, ma anche di veri e propri mostri da baraccone: facce prive di mandibole, di zigomi, di occipiti, facce frullate, schiacciate, strappate, appallottolate come un foglio.
Queste facce – la chirurgia estetica brancolava i suoi primissimi passi – furono ricostruite su maschere modellate e dipinte, che venivano applicate a quei volti straziati per dargli una parvenza di umanità e non far fuggire donne e bambini inorriditi. Il terzo racconto, come congelato fra suono e biancore, ci riporta l'eco delle canzoni della Grande Guerra... e il cerchio di chiude riportandoci all'inizio di questo articolo e alla riscoperta dell'archivio tedesco delle voci dei prigionieri italiani.
Un patrimonio di bellezza e di pace
Guardando le pagine di Laura m'è venuta in mente un'altra opera maiuscola di qualche anno fa, la “Guerra di trincea” di Jacques Tardi. Quella nel rigorosissimo bianco e nero dell'autore rinnovava i fasti delle incisioni su legno di un medioevo vicino, dei trionfi della morte, dell'inchiostro che solca le ferite della carta di una sintesi d'indicibile ferocia: era quello un fumetto di poche parole e molte terribili onomatopee.
Laura Scarpa ha fatto una scelta pittorica ma non meno pregna di realismo, il segno talvolta deciso su un fondo monocromo, talvolta sfrangiato dalla densità del colore, guida i racconti a una sinfonia concertata di voci, di vicende e di corpi che si percepiscono bene nel fagotto dei vestiti, in un desiderio struggente di normalità, che viene regolarmente rovesciata nella dimensione onirica. Nell'incubo della guerra la normalità è un sogno che fugge, la materia della pittura si trasforma e si raddensa nel segno che esplode. Così ammassati, così uguali nelle uniformi, così condannati a un destino comune, i soldati della Grande Guerra di Laura Scarpa sembrano reclamare a gran voce il diritto ad avere un'identità, un volto, una vicenda unica e irripetibile. A tornare allo stato di umani.
Quando nel 1964 lo spettacolo Bella Ciao a Spoleto portò per la prima volta le canzoni popolari italiane in un teatro frequentato da un pubblico borghese – è una storia che vi abbiamo raccontato molte volte – fu proprio una desolata canzone di trincea a scatenare il putiferio nel pubblico indignato “O Gorizia tu sei maledetta/per ogni cuore che sente coscienza/.../traditori signori ufficiali/voi la guerra l'avete voluta”.
Oggi nessuno più s'indigna per “Gorizia”, ma continuo a pensare che non si possa parlare di queste opere di guerra senza fare automaticamente propaganda pacifista, e dunque ce ne sia grande bisogno.
Alessio Lega
Due tavole
dall'interno del volume “War Painters”
|