antifascismo
Storie di un'umanità resistente
intervista di Paolo Finzi a Paolo Pasi
Le ultime settimane dei confinati a Ventotene, la caduta del duce e la loro liberazione. Con l'eccezione degli anarchici, inviati in un campo di concentramento in provincia di Arezzo. Da cui “si libereranno” un mese e mezzo dopo. Questi i termini storici dell'ultimo libro di Pasi, scrittore, giornalista del Tg3, romanziere (e) storico. Che ne parla con un nostro redattore.
Alla mia veneranda
età farei bene a fare una pausa dopo pranzo, andarmene
a casa (vivo molto vicino alla redazione) a fare un pisolino,
ma da decenni pranziamo qui nella trattoria all'angolo e a mezzogiorno
quindi si dà una sbirciatina al TG 3. Da anni, per una
settimana al mese, mi ritrovo in video la faccia di Paolo Pasi,
che lo conduce.
Oggi, venti metri più in là, sono io a condurre.
In realtà Paolo Pasi ci viene spesso a trovare, e lo
ha fatto ancora di più nell'ultimo anno perché
“stava scrivendo il libro”. Sul quale, prima ancora
che sia uscito dalla legatoria, chiacchieriamo amabilmente.
Eleuthera mi ha dato il pdf e me lo sono potuto leggere nella
versione definitiva.
Un gran bel libro, un romanzo storico che a mio avviso vale
molto, ma molto più di un “freddo” libro
di storia. Pasi – con tutte le differenze rispetto al
mio maestro della storiografia anarchica, Piercarlo Masini –
mi ricorda lo storico toscano, in particolare per la sua capacità
di saper cogliere in profondità lo spessore umano delle
persone, degli individui, nella loro unicità e anche
nel contesto sociale.
Io
non sono certo in grado, essendo nato nel 1951, di “validare”
la veridicità o la plausibilità delle sue descrizioni/ricostruzioni,
ma per quanto ho conosciuto e compreso dagli e degli anarchiche/i
che ho conosciuto, soprattutto a cavallo tra gli anni '60 e
'70, riconosco al mio omonimo una capacità di introspezione
e di comprensione umana e politica che mi rimanda a Masini.
Fine dei complimenti.
Il fascismo? Violento, brutale
Paolo Finzi – Come e dove è scoccata
la tua idea di scrivere questo libro?
Paolo Pasi – Tre anni fa. Ero in vacanza con moglie
e figlia, che all'epoca aveva 7 anni, e ci siamo fermati in
provincia di Arezzo. Avevo letto il tuo libro su Alfonso Failla,
e sapevo che a Renicci d'Anghiari c'era stato il campo di concentramento
di anarchici e slavi, nel 1943. Arrivato in zona, ho chiesto
in giro, ma pochi hanno saputo indicarmi con precisione il luogo.
Poi, grazie alle indicazioni di una signora, lo abbiamo raggiunto.
A parte alcuni cartelli all'ingresso e un piccolo “Giardino
della Memoria” che ricorda gli internati, c'è stato
poco da vedere. Mi ha colpito l'azzeramento quasi totale della
memoria storica. Nella vasta area dove sorgeva il campo, in
un querceto, ci sono oggi soprattutto villette private. In una
di queste vive il signor Giuliano Donati, che mi ha raccontato
quanto tramandatogli dal padre, un contadino del posto: le brutture
del campo, le recinzioni in filo spinato, la morte per fame
dei suoi prigionieri che cercavano di sopperire alla mancanza
di cibo mangiando ghiande, la difficoltà degli abitanti
di avvicinarsi agli internati. E così la mia ricerca
è partita.
Pasi racconta del suo approccio a Ventotene, la propria
curiosità, gli approfondimenti storici, ma anche umani,
parlando con i figli e i nipoti di chi era stato sull'isola.
Un progressivo avvicinamento alla storia dei due luoghi, l'isola
pontina di confino e il fuori-paese aretino. In entrambi i casi
lo colpisce anche la natura del posto circostante, il mare a
Ventotene, le quercete nella valle aretina condivisa con l'Umbria.
Si comprende il legame profondo, umano, non retorico con
quei 765 confinati a Ventotene e quel centinaio e passa di anarchici
(senza dimenticare gli slavi, che furono circa 4mila) a Renicci.
E, in mezzo, mai finora studiato da nessuno, il viaggio tra
i due estremi di questa storia: per mare prima fino a Gaeta,
in treno da lì alla stazione ferroviaria del paesino
toscano, e poi a piedi fino al campo.
Sono storie, quelle che racconto, che in apparenza non sembrano aver nemmeno scalfito la Storia. Per questo sentivo l'esigenza di ripercorrere la fatica del loro quotidiano, della vita di tutti i giorni. Tenendo ben presenti sia l'età delle singole persone, sia il contesto storico generale e, per quanto possibile, le loro storie passate. Ho scelto undici personaggi principali, tra i quali uno scrittore futurista – Alberto Colini – e un esule antifranchista catalano, il socialista Jaime Rebassa. Le fonti utilizzate, oltre ai colloqui con i parenti e gli studiosi, sono i documenti dell'archivio comunale di Ventotene, le ricerche al Casellario Politico Centrale, a Sant'Arcangelo di Romagna e nella biblioteca di Rimini per i fratelli Girolimetti, e poi il libro di Andrea Dilemmi su Domaschi, quello di Giorgio Sacchetti su Renicci, il tuo su Failla, altri archivi, sopralluoghi, letture, lettere, colloqui. Il tutto per un anno, mentre continuavo a lavorare e a seguire nostra figlia. Poi, dalla scorsa estate, in meno di un anno il libro è venuto fuori. Non mi è sembrato vero.
La loro vita, giorno dopo giorno
Paolo si sofferma nel dettaglio a parlare della
vicenda dei fratelli Girolimetti, tre anarchici al confino,
ma sette in tutto dispersi in Europa, a quell'epoca. Una vicenda
che ha ricostruito nel libro con tutta la sua violenza. E parte
con una bella tirata contro il fascismo che – ricorda
– da molti è stato considerato una
cosa così, all'acqua di rose, mentre il carico di violenza
brutale, bestiale, che ha scatenato sugli oppositori e comunque
sui “diversi”, è stato pesantissimo. Il fascismo
fu questo, altro che blando.
Il suo riferimento ci ricorda chi ha definito i confinati
come dei villeggianti “forzati”. Paolo racconta,
tra l'altro, dei chilometri che si è fatto a piedi sull'isola
pontina, che da un lato scende dolcemente verso il mare e dall'altro
finisce a strapiombo: quindi un percorso in salita, tra una
natura selvaggia, che i confinati potevano fare solo in parte,
visto che dovevano restare nel perimetro ristretto della città
confinaria.
Fondamentale è stato ricordare il loro passato, ciò
che li ha portati a Ventotene, e cercare di comprendere i loro
pensieri, le speranze, i sogni, il contesto generale.
D'accordissimo. E Paolo si dice d'accordo con la
mia osservazione che una cosa sono stati, al di là dei
loro sacrifici (anche della vita) i partigiani, in gran parte
giovani e giovanissimi, e ben'altra, più drammatica perché
sviluppatasi per anni e anni senza nessuna concreta speranza
di caduta del regime, la storia antifascista di chi si oppose
durante il fascismo, magari fin dai suoi inizi. Paolo è
tutto dentro questa dimensione del tempo: il mio
intento di ricostruire la loro attesa giorno dopo giorno, in
quell'agosto 1943, li coglie proprio nelle convulse vicende
successive alla caduta di Mussolini e del fascismo. Lo smarrimento
dell'Italia dei gerarchi e delle milizie, e la circostanza beffarda
di Mussolini, ormai agli arresti, che arriva davanti al porto
di Ventotene, prigioniero in una nave che dopo poche ore lascerà
l'isola per dirigersi verso Ponza. Sappiamo che l'ex duce raggiungerà
poi Campo Imperatore, per essere “liberato” dai
nazisti con un blitz che sarà preludio alla triste nascita
della Repubblica di Salò, epilogo sanguinario del ventennio.
Lo stalinismo e quell'olio d'oliva
Un episodio in più che fa di Ventotene, in
quei tempi, uno dei crocevia fondamentali della storia italiana.
Con Paolo ci ritroviamo nel mettere in luce che da lì
passarono una parte della futura classe dirigente della Repubblica
(dal presidente della Costituente Umberto Terracini al presidente
della Repubblica Sandro Pertini, dal segretario generale della
CGIL Giuseppe Di Vittorio ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi)
Penso a Di Vittorio. L'anarchico triestino Umberto Tommasini
lo cacciò fuori dal suo camerone perché memore
di alcune parole di sprezzo e di insulto contro Camillo Berneri,
che il sindacalista pugliese aveva pronunciato a Parigi nel
1937 – e Berneri, a mio avviso, era un gigante dell'anarchismo
e per di più ucciso dagli stalinisti a Barcellona –
sottolinea Pasi. Eppure lo stesso Tommasini
non guardava alle appartenenze nel condividere le poche scorte
di olio che aveva come cuoco della mensa anarchica. Piccoli
gesti, ma densi di significato.
Già, lo stalinismo. Al confino se ne sentiva
il peso, sia nel senso che c'erano gli stalinisti, seguaci di
Stalin anche nei metodi, come ben sapevano il citato Terracini
e Lidia Ravera, che per aver dissentito nel 1939 dal patto Molotov-Ribbentrop
– il trattato di non aggressione tra la Germania nazista
e l'URSS comunista – si videro cancellata qualsiasi solidarietà
concreta sull'isola dal Partito. Ma anche nel senso che lo stalinismo
tendeva a impedire ai militanti del Partito qualsiasi rapporto
con gli altri settori – e in particolare singoli individui
– delle altre aree della sinistra, che comprendevano gli
azionisti, i socialisti, i bordighisti e gli anarchici. Pasi
cita l'esempio della controversa e altalenante relazione tra
ì due triestini doc (nonostante il cognome slavo del
comunista) Giorgio Jaksetich e Umberto Tommasini.
I due non si parlarono a lungo, sempre a causa dell'atteggiamento
di Tommasini verso Di Vittorio – spiega Pasi. Ma
poi, quando entrambi “chiudono” con la detenzione
a Renicci d'Anghiari, si fanno carico dell'elenco dei triestini
da riportare nella città d'origine, e condividono un
primo tratto di strada insieme, in treno da Arezzo a Firenze,
prima di separarsi da amici. L'anarchico è stanco, disilluso,
preferisce raggiungere la sorella in Emilia a riprendersi. Il
comunista no, prosegue con gli altri in direzione del capoluogo
giuliano.
Gli sbirri? Non tutti uguali
Le persone, le etichette politiche, i bravi, i cattivi.
Riflessioni che sono ben presenti nelle chiacchierate nella
redazione di “A”. Le idee non bastano, non coprono
tutto. I fascisti tutti bastardi, gli antifascisti comunque
compagni nostri, dalla parte giusta. Con Paolo se n'era già
parlato, nel corso dei mesi di preparazione del suo libro. Ma
ora che il libro è finito, si possono tirare delle fila,
per quanto inevitabilmente provvisorie. Su un punto fondamentale
siamo d'accordo: non sono le scelte ideali, le famose “etichette”
o “auto-etichette” a definire, da sole, un individuo.
La categoria dell'antifascista – sottolinea
Pasi – è definita dalla presenza del
fascismo. In opposizione.
Io cito quello che, nei primi anni '70, nel suo appartamento
a Sampierdarena (Genova), ultra-ottantenne, mi ricordava l'anarchico
pisano Vincenzo Toccafondo: quando venne trasferito da Termoli
alle isole Tremiti, un carabiniere gli strinse il “braccialetto”
di ferro che gli serrava i polsi. E lui se ne lamentò.
Appena uscì quel milite dell'Arma, un suo parigrado glieli
allentò, di molto. Erano entrambi “sbirri”.
Ma il fattore umano conta, anche quando meno te lo aspetti.
Quella la lezione che mi trasmisero gli occhi azzurri e la mai
persa cadenza toscana di quel reduce dal confino. E questa la
lezione morale di Errico Malatesta, la cui etica anarchica impediva
anche solo di profferire linguaggio terribilista e propositi
massacratori.
Lo stesso Failla, uno dei protagonisti del mio libro, cita la
circostanza di un tenente di simpatie fasciste che dopo l'armistizio
lasciò libero un gruppo di anarchici durante il trasferimento
ad Arezzo, città che era ormai in mano ai tedeschi. È
proprio nella ricostruzione, pur romanzata, della quotidiana
esperienza di vita e di sofferenza degli individui che sta l'antidoto
contro un'interpretazione e un racconto dove tutto il bene sta
di qua e tutto il male di là. – chiosa
Pasi – Il che non vuol dire assolutamente
confondere “i fronti” e mettere sullo stesso piano
le due “storie”. Si tratta di rifiutare il taglio
“ideologico” che mai deve prevalere su quello umano.
Anticonformismo inconsapevole
E il discorso cade su Emilia Buonacosa
– una delle donne confinate a Ventotene, sicuramente
meno numerose degli uomini. Era stata sposata – ricorda
Pasi e si coglie la sua emozione – con l'anarchico
Ustori, poi esule a Parigi, morto precocemente. Nella capitale
francese aveva frequentato gli ambienti antifascisti, stretto
legami d'amicizia con Sandro Pertini, e – dopo la morte
del marito – aveva avuto altre storie e non ne faceva
mistero. I resoconti della polizia la qualificavano come una
donna di facili costumi. Paolo ne parla con profonda
simpatia, ricorda la sua fragile personalità, i suoi
momenti di depressione, il grave infortunio sul lavoro subito
a 18 anni. Racconta di quando il socialista Pertini, che già
l'aveva sostenuta in Francia, le cinse le spalle con un braccio
e tentò di aiutarla negli ultimi giorni di attesa a Ventotene.
Gli racconto di quando, alla morte di Pertini, ne scrissi
un necrologio per il settimanale anarchico “Umanità
Nova” in cui per metà lo criticavo come capo dello
Stato (ricordo che gli imputavo di andare in vacanza nella stazione
dei carabinieri in Val Venosta, esaltando l'Arma, quando erano
stati militari della stessa Arma a portare e a controllare al
confino lui e gli altri antifascisti), ma nell'altra metà
del necrologio ricordavo i suoi meriti e la sua grande etica
nell'antifascismo, anche nella solidarietà militante
con noi anarchici. E non ho incontrato vecchio anarchico dell'epoca
(compresi Marzocchi, Failla, Turroni, Maria Zazzi e decine di
altre/i) che non mi abbiano parlato con rispetto di Sandro.
Sul giornale (e altrove) mi risposero anarchici che ridicolizzavano
il fatto che un anarchico parlasse bene di un capo di stato.
Paolo ritorna su Emilia Buonacosa, che poi lui “ha
seguito”, ricostruendone il viaggio parallelo a quello
dei maschi, che l'ha portata al campo d'internamento di Fraschette
d'Alatri, in provincia di Frosinone. L'equivalente di Renicci
per una decina di ex confinate a Ventotene.
Una cosa da sottolineare è che accanto alla scelta antifascista,
e ancor più alla scelta anarchica, c'erano spesso comportamenti
fuori dagli schemi – dice Pasi –
Si trattava, a mio avviso, come di un anticonformismo inconsapevole,
nel senso che non c'era alcuna volontà di ostentarlo.
Tante di queste persone, già ai margini, o agli estremi,
sul piano politico, sembravano volersi ulteriormente “complicare”
la vita con scelte e comportamenti non convenzionali, soprattutto
nei rapporti sentimentali, vissuti nella libertà dal
giudizio degli altri.
Quando Canzi convinse gli anarchici riottosi...
Ci rendiamo conto che abbiamo parlato soprattutto
di Ventotene. Poco del viaggio e soprattutto meno di Renicci
d'Anghiari. Chiedo a Paolo che cosa l'abbia colpito di più
dell'intera vicenda. Lui risponde che è stata proprio
la prima apparente rimozione “storica” del campo
ad averlo colpito, come già ha accennato. Ma anche l'estrema
diversità dei comportamenti degli anarchici, ben focalizzata
dall'intervento del piacentino Emilio Canzi in un momento critico
fondamentale: gli ufficiali del campo chiedono che gli anarchici
nominino un responsabile che all'adunata presenti la lista degli
internati, nessuno vuole farlo e anzi si contesta la cosa. Poco
prima che la tensione esploda, Canzi si fa avanti, convince
i compagni riottosi e scongiura così un possibile massacro
degli anarchici.
Già, Canzi. Un militante taciturno che, osservo, si
era distinto dalla grande maggioranza degli anarchici italiani
in Spagna per essere rimasto qualche mese in più a combattere
i franchisti, mentre gli altri, rifiutata la militarizzazione
imposta dai comunisti, avevano lasciato il fronte. Con Pasi
concordiamo che sia stata la sua originaria formazione militare
in Libia e durante la Prima guerra mondiale (non era ancora
anarchico) a “predisporlo” a una particolare mentalità
di combattente, che gli verrà riconosciuta con l'attribuzione
– unico anarchico nella Resistenza – del Comando
unico della XIII Zona Partigiana, nel Piacentino e Oltrepò
Pavese – appena rientrato a Piacenza da Renicci d'Anghiari.
Pezzi di storia del “dopo”, che Pasi racconta
diligentemente per molte delle persone da lui seguite con particolare
attenzione nel suo libro. Belle le ultime pagine, belli e dettagliati
anche i ringraziamenti. Tutto nella cifra di una persona profondamente
onesta, sicuramente un libertario, una persona che ha fatto
un bel lavoro ai confini della ricostruzione storica, basandosi
su una documentazione rigorosa, un'interpretazione al contempo
acuta e serena, una ricerca delle fonti e delle atmosfere, una
scrittura professionale. Il tutto con una spremuta di cuore,
che non guasta mai. Soprattutto in tempi come questi.
Paolo Finzi
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