rivista anarchica
anno 48 n. 427
estate 2018


antifascismo

Storie di un'umanità resistente

intervista di Paolo Finzi a Paolo Pasi

Le ultime settimane dei confinati a Ventotene, la caduta del duce e la loro liberazione. Con l'eccezione degli anarchici, inviati in un campo di concentramento in provincia di Arezzo. Da cui “si libereranno” un mese e mezzo dopo. Questi i termini storici dell'ultimo libro di Pasi, scrittore, giornalista del Tg3, romanziere (e) storico. Che ne parla con un nostro redattore.


Alla mia veneranda età farei bene a fare una pausa dopo pranzo, andarmene a casa (vivo molto vicino alla redazione) a fare un pisolino, ma da decenni pranziamo qui nella trattoria all'angolo e a mezzogiorno quindi si dà una sbirciatina al TG 3. Da anni, per una settimana al mese, mi ritrovo in video la faccia di Paolo Pasi, che lo conduce.
Oggi, venti metri più in là, sono io a condurre. In realtà Paolo Pasi ci viene spesso a trovare, e lo ha fatto ancora di più nell'ultimo anno perché “stava scrivendo il libro”. Sul quale, prima ancora che sia uscito dalla legatoria, chiacchieriamo amabilmente. Eleuthera mi ha dato il pdf e me lo sono potuto leggere nella versione definitiva.
Un gran bel libro, un romanzo storico che a mio avviso vale molto, ma molto più di un “freddo” libro di storia. Pasi – con tutte le differenze rispetto al mio maestro della storiografia anarchica, Piercarlo Masini – mi ricorda lo storico toscano, in particolare per la sua capacità di saper cogliere in profondità lo spessore umano delle persone, degli individui, nella loro unicità e anche nel contesto sociale.
Io non sono certo in grado, essendo nato nel 1951, di “validare” la veridicità o la plausibilità delle sue descrizioni/ricostruzioni, ma per quanto ho conosciuto e compreso dagli e degli anarchiche/i che ho conosciuto, soprattutto a cavallo tra gli anni '60 e '70, riconosco al mio omonimo una capacità di introspezione e di comprensione umana e politica che mi rimanda a Masini.
Fine dei complimenti.

Il fascismo? Violento, brutale

Paolo Finzi – Come e dove è scoccata la tua idea di scrivere questo libro?
Paolo Pasi – Tre anni fa. Ero in vacanza con moglie e figlia, che all'epoca aveva 7 anni, e ci siamo fermati in provincia di Arezzo. Avevo letto il tuo libro su Alfonso Failla, e sapevo che a Renicci d'Anghiari c'era stato il campo di concentramento di anarchici e slavi, nel 1943. Arrivato in zona, ho chiesto in giro, ma pochi hanno saputo indicarmi con precisione il luogo. Poi, grazie alle indicazioni di una signora, lo abbiamo raggiunto. A parte alcuni cartelli all'ingresso e un piccolo “Giardino della Memoria” che ricorda gli internati, c'è stato poco da vedere. Mi ha colpito l'azzeramento quasi totale della memoria storica. Nella vasta area dove sorgeva il campo, in un querceto, ci sono oggi soprattutto villette private. In una di queste vive il signor Giuliano Donati, che mi ha raccontato quanto tramandatogli dal padre, un contadino del posto: le brutture del campo, le recinzioni in filo spinato, la morte per fame dei suoi prigionieri che cercavano di sopperire alla mancanza di cibo mangiando ghiande, la difficoltà degli abitanti di avvicinarsi agli internati. E così la mia ricerca è partita.

Pasi racconta del suo approccio a Ventotene, la propria curiosità, gli approfondimenti storici, ma anche umani, parlando con i figli e i nipoti di chi era stato sull'isola. Un progressivo avvicinamento alla storia dei due luoghi, l'isola pontina di confino e il fuori-paese aretino. In entrambi i casi lo colpisce anche la natura del posto circostante, il mare a Ventotene, le quercete nella valle aretina condivisa con l'Umbria.
Si comprende il legame profondo, umano, non retorico con quei 765 confinati a Ventotene e quel centinaio e passa di anarchici (senza dimenticare gli slavi, che furono circa 4mila) a Renicci. E, in mezzo, mai finora studiato da nessuno, il viaggio tra i due estremi di questa storia: per mare prima fino a Gaeta, in treno da lì alla stazione ferroviaria del paesino toscano, e poi a piedi fino al campo.

Sono storie, quelle che racconto, che in apparenza non sembrano aver nemmeno scalfito la Storia. Per questo sentivo l'esigenza di ripercorrere la fatica del loro quotidiano, della vita di tutti i giorni. Tenendo ben presenti sia l'età delle singole persone, sia il contesto storico generale e, per quanto possibile, le loro storie passate. Ho scelto undici personaggi principali, tra i quali uno scrittore futurista – Alberto Colini – e un esule antifranchista catalano, il socialista Jaime Rebassa. Le fonti utilizzate, oltre ai colloqui con i parenti e gli studiosi, sono i documenti dell'archivio comunale di Ventotene, le ricerche al Casellario Politico Centrale, a Sant'Arcangelo di Romagna e nella biblioteca di Rimini per i fratelli Girolimetti, e poi il libro di Andrea Dilemmi su Domaschi, quello di Giorgio Sacchetti su Renicci, il tuo su Failla, altri archivi, sopralluoghi, letture, lettere, colloqui. Il tutto per un anno, mentre continuavo a lavorare e a seguire nostra figlia. Poi, dalla scorsa estate, in meno di un anno il libro è venuto fuori. Non mi è sembrato vero.

La loro vita, giorno dopo giorno

Paolo si sofferma nel dettaglio a parlare della vicenda dei fratelli Girolimetti, tre anarchici al confino, ma sette in tutto dispersi in Europa, a quell'epoca. Una vicenda che ha ricostruito nel libro con tutta la sua violenza. E parte con una bella tirata contro il fascismo che – ricorda – da molti è stato considerato una cosa così, all'acqua di rose, mentre il carico di violenza brutale, bestiale, che ha scatenato sugli oppositori e comunque sui “diversi”, è stato pesantissimo. Il fascismo fu questo, altro che blando.

Il suo riferimento ci ricorda chi ha definito i confinati come dei villeggianti “forzati”. Paolo racconta, tra l'altro, dei chilometri che si è fatto a piedi sull'isola pontina, che da un lato scende dolcemente verso il mare e dall'altro finisce a strapiombo: quindi un percorso in salita, tra una natura selvaggia, che i confinati potevano fare solo in parte, visto che dovevano restare nel perimetro ristretto della città confinaria.
Fondamentale è stato ricordare il loro passato, ciò che li ha portati a Ventotene, e cercare di comprendere i loro pensieri, le speranze, i sogni, il contesto generale.

D'accordissimo. E Paolo si dice d'accordo con la mia osservazione che una cosa sono stati, al di là dei loro sacrifici (anche della vita) i partigiani, in gran parte giovani e giovanissimi, e ben'altra, più drammatica perché sviluppatasi per anni e anni senza nessuna concreta speranza di caduta del regime, la storia antifascista di chi si oppose durante il fascismo, magari fin dai suoi inizi. Paolo è tutto dentro questa dimensione del tempo: il mio intento di ricostruire la loro attesa giorno dopo giorno, in quell'agosto 1943, li coglie proprio nelle convulse vicende successive alla caduta di Mussolini e del fascismo. Lo smarrimento dell'Italia dei gerarchi e delle milizie, e la circostanza beffarda di Mussolini, ormai agli arresti, che arriva davanti al porto di Ventotene, prigioniero in una nave che dopo poche ore lascerà l'isola per dirigersi verso Ponza. Sappiamo che l'ex duce raggiungerà poi Campo Imperatore, per essere “liberato” dai nazisti con un blitz che sarà preludio alla triste nascita della Repubblica di Salò, epilogo sanguinario del ventennio.

Paolo Pasi

Lo stalinismo e quell'olio d'oliva

Un episodio in più che fa di Ventotene, in quei tempi, uno dei crocevia fondamentali della storia italiana. Con Paolo ci ritroviamo nel mettere in luce che da lì passarono una parte della futura classe dirigente della Repubblica (dal presidente della Costituente Umberto Terracini al presidente della Repubblica Sandro Pertini, dal segretario generale della CGIL Giuseppe Di Vittorio ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi)
Penso a Di Vittorio. L'anarchico triestino Umberto Tommasini lo cacciò fuori dal suo camerone perché memore di alcune parole di sprezzo e di insulto contro Camillo Berneri, che il sindacalista pugliese aveva pronunciato a Parigi nel 1937 – e Berneri, a mio avviso, era un gigante dell'anarchismo e per di più ucciso dagli stalinisti a Barcellona sottolinea Pasi. Eppure lo stesso Tommasini non guardava alle appartenenze nel condividere le poche scorte di olio che aveva come cuoco della mensa anarchica. Piccoli gesti, ma densi di significato.

Già, lo stalinismo. Al confino se ne sentiva il peso, sia nel senso che c'erano gli stalinisti, seguaci di Stalin anche nei metodi, come ben sapevano il citato Terracini e Lidia Ravera, che per aver dissentito nel 1939 dal patto Molotov-Ribbentrop – il trattato di non aggressione tra la Germania nazista e l'URSS comunista – si videro cancellata qualsiasi solidarietà concreta sull'isola dal Partito. Ma anche nel senso che lo stalinismo tendeva a impedire ai militanti del Partito qualsiasi rapporto con gli altri settori – e in particolare singoli individui – delle altre aree della sinistra, che comprendevano gli azionisti, i socialisti, i bordighisti e gli anarchici. Pasi cita l'esempio della controversa e altalenante relazione tra ì due triestini doc (nonostante il cognome slavo del comunista) Giorgio Jaksetich e Umberto Tommasini.
I due non si parlarono a lungo, sempre a causa dell'atteggiamento di Tommasini verso Di Vittorio – spiega Pasi. Ma poi, quando entrambi “chiudono” con la detenzione a Renicci d'Anghiari, si fanno carico dell'elenco dei triestini da riportare nella città d'origine, e condividono un primo tratto di strada insieme, in treno da Arezzo a Firenze, prima di separarsi da amici. L'anarchico è stanco, disilluso, preferisce raggiungere la sorella in Emilia a riprendersi. Il comunista no, prosegue con gli altri in direzione del capoluogo giuliano.

Gli sbirri? Non tutti uguali

Le persone, le etichette politiche, i bravi, i cattivi. Riflessioni che sono ben presenti nelle chiacchierate nella redazione di “A”. Le idee non bastano, non coprono tutto. I fascisti tutti bastardi, gli antifascisti comunque compagni nostri, dalla parte giusta. Con Paolo se n'era già parlato, nel corso dei mesi di preparazione del suo libro. Ma ora che il libro è finito, si possono tirare delle fila, per quanto inevitabilmente provvisorie. Su un punto fondamentale siamo d'accordo: non sono le scelte ideali, le famose “etichette” o “auto-etichette” a definire, da sole, un individuo.
La categoria dell'antifascista sottolinea Pasi è definita dalla presenza del fascismo. In opposizione.

Io cito quello che, nei primi anni '70, nel suo appartamento a Sampierdarena (Genova), ultra-ottantenne, mi ricordava l'anarchico pisano Vincenzo Toccafondo: quando venne trasferito da Termoli alle isole Tremiti, un carabiniere gli strinse il “braccialetto” di ferro che gli serrava i polsi. E lui se ne lamentò. Appena uscì quel milite dell'Arma, un suo parigrado glieli allentò, di molto. Erano entrambi “sbirri”. Ma il fattore umano conta, anche quando meno te lo aspetti. Quella la lezione che mi trasmisero gli occhi azzurri e la mai persa cadenza toscana di quel reduce dal confino. E questa la lezione morale di Errico Malatesta, la cui etica anarchica impediva anche solo di profferire linguaggio terribilista e propositi massacratori.
Lo stesso Failla, uno dei protagonisti del mio libro, cita la circostanza di un tenente di simpatie fasciste che dopo l'armistizio lasciò libero un gruppo di anarchici durante il trasferimento ad Arezzo, città che era ormai in mano ai tedeschi. È proprio nella ricostruzione, pur romanzata, della quotidiana esperienza di vita e di sofferenza degli individui che sta l'antidoto contro un'interpretazione e un racconto dove tutto il bene sta di qua e tutto il male di là. chiosa Pasi Il che non vuol dire assolutamente confondere “i fronti” e mettere sullo stesso piano le due “storie”. Si tratta di rifiutare il taglio “ideologico” che mai deve prevalere su quello umano.

Anticonformismo inconsapevole

E il discorso cade su Emilia Buonacosa una delle donne confinate a Ventotene, sicuramente meno numerose degli uomini. Era stata sposata ricorda Pasi e si coglie la sua emozione con l'anarchico Ustori, poi esule a Parigi, morto precocemente. Nella capitale francese aveva frequentato gli ambienti antifascisti, stretto legami d'amicizia con Sandro Pertini, e – dopo la morte del marito – aveva avuto altre storie e non ne faceva mistero. I resoconti della polizia la qualificavano come una donna di facili costumi. Paolo ne parla con profonda simpatia, ricorda la sua fragile personalità, i suoi momenti di depressione, il grave infortunio sul lavoro subito a 18 anni. Racconta di quando il socialista Pertini, che già l'aveva sostenuta in Francia, le cinse le spalle con un braccio e tentò di aiutarla negli ultimi giorni di attesa a Ventotene.
Gli racconto di quando, alla morte di Pertini, ne scrissi un necrologio per il settimanale anarchico “Umanità Nova” in cui per metà lo criticavo come capo dello Stato (ricordo che gli imputavo di andare in vacanza nella stazione dei carabinieri in Val Venosta, esaltando l'Arma, quando erano stati militari della stessa Arma a portare e a controllare al confino lui e gli altri antifascisti), ma nell'altra metà del necrologio ricordavo i suoi meriti e la sua grande etica nell'antifascismo, anche nella solidarietà militante con noi anarchici. E non ho incontrato vecchio anarchico dell'epoca (compresi Marzocchi, Failla, Turroni, Maria Zazzi e decine di altre/i) che non mi abbiano parlato con rispetto di Sandro. Sul giornale (e altrove) mi risposero anarchici che ridicolizzavano il fatto che un anarchico parlasse bene di un capo di stato.
Paolo ritorna su Emilia Buonacosa, che poi lui “ha seguito”, ricostruendone il viaggio parallelo a quello dei maschi, che l'ha portata al campo d'internamento di Fraschette d'Alatri, in provincia di Frosinone. L'equivalente di Renicci per una decina di ex confinate a Ventotene.

Una cosa da sottolineare è che accanto alla scelta antifascista, e ancor più alla scelta anarchica, c'erano spesso comportamenti fuori dagli schemi dice Pasi Si trattava, a mio avviso, come di un anticonformismo inconsapevole, nel senso che non c'era alcuna volontà di ostentarlo. Tante di queste persone, già ai margini, o agli estremi, sul piano politico, sembravano volersi ulteriormente “complicare” la vita con scelte e comportamenti non convenzionali, soprattutto nei rapporti sentimentali, vissuti nella libertà dal giudizio degli altri.

Quando Canzi convinse gli anarchici riottosi...

Ci rendiamo conto che abbiamo parlato soprattutto di Ventotene. Poco del viaggio e soprattutto meno di Renicci d'Anghiari. Chiedo a Paolo che cosa l'abbia colpito di più dell'intera vicenda. Lui risponde che è stata proprio la prima apparente rimozione “storica” del campo ad averlo colpito, come già ha accennato. Ma anche l'estrema diversità dei comportamenti degli anarchici, ben focalizzata dall'intervento del piacentino Emilio Canzi in un momento critico fondamentale: gli ufficiali del campo chiedono che gli anarchici nominino un responsabile che all'adunata presenti la lista degli internati, nessuno vuole farlo e anzi si contesta la cosa. Poco prima che la tensione esploda, Canzi si fa avanti, convince i compagni riottosi e scongiura così un possibile massacro degli anarchici.
Già, Canzi. Un militante taciturno che, osservo, si era distinto dalla grande maggioranza degli anarchici italiani in Spagna per essere rimasto qualche mese in più a combattere i franchisti, mentre gli altri, rifiutata la militarizzazione imposta dai comunisti, avevano lasciato il fronte. Con Pasi concordiamo che sia stata la sua originaria formazione militare in Libia e durante la Prima guerra mondiale (non era ancora anarchico) a “predisporlo” a una particolare mentalità di combattente, che gli verrà riconosciuta con l'attribuzione – unico anarchico nella Resistenza – del Comando unico della XIII Zona Partigiana, nel Piacentino e Oltrepò Pavese – appena rientrato a Piacenza da Renicci d'Anghiari.
Pezzi di storia del “dopo”, che Pasi racconta diligentemente per molte delle persone da lui seguite con particolare attenzione nel suo libro. Belle le ultime pagine, belli e dettagliati anche i ringraziamenti. Tutto nella cifra di una persona profondamente onesta, sicuramente un libertario, una persona che ha fatto un bel lavoro ai confini della ricostruzione storica, basandosi su una documentazione rigorosa, un'interpretazione al contempo acuta e serena, una ricerca delle fonti e delle atmosfere, una scrittura professionale. Il tutto con una spremuta di cuore, che non guasta mai. Soprattutto in tempi come questi.

Paolo Finzi