società
Il seme dell'odio
di Maria Matteo
Migranti, torture poliziesche, spari contro gli stranieri, “vattene a casa”, intolleranza. Un clima pesante, con i suoi frutti avvelenati.
Hannah Arendt, osservatrice al
processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”,
che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità
del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche
che suscitò all'epoca la sua rappresentazione di uno
dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt
non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni
successivi la sua amara constatazione su quanto conformista,
insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”,
bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità
con le quali, a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano,
selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi
di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria.
Con la stessa, quieta, indifferenza.
Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello
sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le
proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative.
Chi non collaborò attivamente sapeva e approvava. La
grandissima parte di queste persone non era né sadica
né incline alla violenza. Tanta cinematografia statunitense
degli anni successivi ha confezionato un'immagine della dittatura
nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento.
La Germania Ovest era un'alleata preziosa durante la guerra
fredda con l'Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione,
falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell'élite
hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l'esercito erano ignari
ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione
finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la
deportazione e l'uccisione degli ebrei europei era approvata
e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido
apparato legislativo. Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell'appoggio
di un'ampia maggioranza della popolazione, perché era
quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia.
Irripetibile. Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide
riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura.
Così banale che potrebbe ripetersi. Non allo stesso modo,
ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come
la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre
di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
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“La guerra male necessario”
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di
fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché
il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni
di grigio sta finendo. Siamo abituati a pensare che il male
sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità.
Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando
lo è, fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti
l'eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi
nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti,
viene raccontata come “male necessario”, o finanche
come “male minore”. L'articolarsi della narrazione
bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni
come l'operazione di polizia internazionale dimostra la volontà
di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più
sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia
dei parenti delle vittime rende note. Finché può
lo Stato e le sue guardie armate negano l'evidenza, negano che
Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati
intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che
certi delitti potrebbero suscitare. Negano e nascondono perché
sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano
di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza
sistematica di polizia, carabinieri, militari. L'attuale ministro
dell'interno, Matteo Salvini, ha approvato l'operato delle forze
dell'ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia
sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora
cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti
di forza. Salvini ritiene di avere l'appoggio popolare: numerosi
indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano
prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi,
ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze
dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo,
allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra
ai migranti è come una pietra che rimbalza quieta lungo
un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre
all'impazzata. Pare che, quest'estate, di colpo il pendio sia
divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non
è questione di numeri, ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso
anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell'estate del
2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta
alle ONG impegnate in operazioni di search and rescue
(“cerca e salva”) nel Mediterraneo e strinse accordi
con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero
il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest'anno il terreno era già stato sgomberato e reso
disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il
nuovo ministro ha solo completato l'opera, inserendo un tassello
che né il suo predecessore Minniti né, a suo tempo,
il camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l'Europa è il perno su cui ha
girato l'operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il
pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare
da un'unità della Marina Militare Italiana va al di là
della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti.
Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso
i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi,
scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime
agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l'Europa,
un altro ministro dell'Interno leghista, Roberto Maroni, si
arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla
Sicilia e, di lì, nei campi-tenda settemila profughi
della guerra per la Libia.
L'attuale governo è in sostanziale continuità
con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra
o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale,
ad un salto di qualità? Il dilemma, sebbene appaia autentico,
nel dibattito politico estivo assume il sapore acre dell'interrogativo
retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno
della discontinuità radicale sui temi dell'immigrazione
è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro
istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole
dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente
fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco
con l'antifascismo e l'antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno
della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere
lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale
i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell'antisemitismo,
equiparando l'ebreo al capitalista. Il che non implica negare
la frattura e l'imponente salto di qualità nazista.
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Ma già il centro-sinistra con la Turco-Napolitano...
La legislazione sull'immigrazione nel nostro paese ha delineato
una rottura dell'ordine liberale, configurandosi come “diritto
penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal
giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini
che definirei di “diritto amministrativo del nemico”.
Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il
declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione
nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì
la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere
intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente
ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano
la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la
blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle,
per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti
i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione
che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti”
da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che,
pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa
non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria,
etichettata come “buonismo” è stata stracciata.
La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice
di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest'estate non abbiamo
assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche
affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l'incriminazione
di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state
ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata
assistenza perché non si è neppure preoccupato
di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può
così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato.
Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con
abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il
ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del
cambiamento potrebbe chiedere e ottenere più potere per
assolvere il mandato di proteggere la comunità –
gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal
moloch della finanza, dall'immigrazione che mira a spezzare
e cancellare l'identità, dalla libertà che nega
il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone
si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare
tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava,
spaventate per il futuro che non c'era più. Bloccarono
le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si
auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto.
Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo
quell'avventura e nessuno ci pensò più. Oggi quella
gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha
promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di
un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali (Ag). Chi
lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”.
È l'ultima di tante vicende tutte uguali. Provate ad
immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata
in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara
alla bambina. Un altro tizio vede un lavoratore sull'impalcatura.
Prende il fucile e lo ferisce. L'operaio è di origine
africana. Il ministro dell'Interno si mostra comprensivo con
i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest'estate nel Belpaese. Ci
sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi
goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme
dell'odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.
Maria Matteo
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