carcere
Il regime personale nel sistema detentivo
di Nicola Fresu
Un nostro lettore è tutor volontario universitario presso una Casa di reclusione sarda. Ci ha inviato questo suo contributo sulla tutela dell'affettività emotiva e della sessualità tra le sbarre. Rilevando come all'estero si sia molto più avanti nella realizzazione di diritti essenziali delle persone detenute.
Interrogarsi su come la persona sottoposta a restrizione della propria libertà viva la propria affettività è, sicuramente, una domanda che ogni persona dovrebbe porsi per capire (o cercare di farlo) quali siano le sensazioni che si possano provare durante una così dura esperienza di vita. Si sa, nella legge n. 354/1975, il disposto dell'art. 1 co. 6, fa riferimento ad un trattamento rieducativo che tende, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale del condannato. Al fine di salvaguardare la dignità della persona (artt. 2 e 3 Cost., art. 1 l. 354/1975) e perché la pena risulti rispettosa del principio di umanità (art. 27 co. 3 Cost.) la rieducazione deve assumere la forma dell'offerta di aiuto: il carcere deve accompagnare i detenuti verso la libertà, nel rispetto delle loro capacità di scelta. Dare attuazione a questi principi, significa in primo luogo contrastare gli effetti desocializzanti del carcere: contrastare cioè quel fenomeno per cui il carcere logora la personalità del detenuto, devasta i corpi e le menti, lo isola totalmente dalla società libera, recide ogni legame personale e affettivo, particolarmente, con i propri familiari.
L'ordinamento penitenziario assegna grande rilevanza al mantenimento
delle relazioni familiari. La famiglia è considerata
come una importante risorsa nel percorso di reinserimento sociale
del reo, al punto che il rapporto con la famiglia è uno
degli elementi del trattamento individuati dall'art. 15 L. n.
354/1975. Di fatti, l'art. 28 ord. pen. scrive “Particolare
cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire
le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”.
Il problema della tutela della vita familiare introduce una
serie di delicate problematiche riguardo al difficile equilibrio
tra l'esigenza punitiva dello Stato e la garanzia dei diritti
fondamentali della persona.
A questo delicato equilibrio fa riferimento l'art. 64 delle
regole penitenziarie europee (Regole minime per il trattamento
dei detenuti - Raccomandazione Comitato dei Ministri della Comunità
Europea 12 febbraio 1987) il quale asserisce che “la
detenzione, comportando la privazione della libertà,
è punizione in quanto tale. La condizione della detenzione
e i regimi di detenzione non devono, quindi, aggravare la sofferenza
inerente ad essa, salvo come circostanza accidentale giustificata
dalla necessità dell'isolamento o dalle esigenze della
disciplina”. Le relazioni familiari sono considerate,
poi, un elemento essenziale anche nel successivo art. 65, lettera
c) stesso reg. dove si legge che “...ogni sforzo deve
essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano
regolati e gestiti in maniera da: (...) mantenere e rafforzare
i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con
la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi
dei detenuti e delle loro famiglie”.
I colloqui familiari: essenziali
La problematica relativa al rapporto tra detenzione e famiglia
non interessa solamente gli aspetti personali ed individuali
del soggetto recluso, ma produce i suoi effetti anche nei confronti
dei familiari del medesimo.
La detenzione rappresenta un evento fortemente traumatico per
gli individui che ne vengono coinvolti. La solitudine, la lontananza
e, quindi, l'impossibilità di avere continui e regolari
contatti con i propri cari sono spesso la causa di un crollo
psicofisico di cui risente tutta la famiglia, con la conseguenza
di un elevato rischio di frantumazione del rapporto emotivo-sentimentale.
Alla luce di tali premesse i colloqui con i familiari finiscono
per rivestire un ruolo essenziale, perché costituiscono
gli unici momenti in cui i detenuti riescono a riportare in
vita i propri legami e la propria realtà sociale in maniera
viva e concreta, trasmettendone realmente le sensazioni.
La privazione della libertà rappresenta la diretta impossibilità
per l'individuo di continuare ad esistere come attore sociale
dovendo egli abdicare ai ruoli che riveste nella vita lontana
dai luoghi di detenzione: egli continua ad essere genitore,
coniuge e figlio ma, al contempo, non può esercitare
alcuna di queste funzioni se non all'interno di una cornice
prepotentemente invasiva e dominante. Il bisogno di relazioni
affettive è un'esigenza insita della natura dell'individuo:
di fatti, egli, oltre ad essere un elemento sociale è
anche un soggetto che tra i suoi bisogni essenziali ha quello
della vicinanza familiare (teoria dell'attaccamento di Bowlby).
La famiglia d'origine svolge la funzione di contesto primario
di costituzione e di sviluppo dei legami di attaccamento.
Tale necessità è da intendersi secondo due prospettive:
quella del soggetto debole, il quale manifesta il bisogno dell'accudimento
e, l'altra, del soggetto più “forte” sul
quale grava, contrariamente, la necessità di dover accudire
il suo familiare: si tratterebbe di un diritto di relazione,
in quanto personale e soggettivo. Con l'ingresso in carcere,
le possibilità di coltivare e far crescere le relazioni
affettive diventano sempre più remote: accudire ed essere
accuditi non è più un compito che si può
espletare liberamente (come natura vuole).
Nel contesto di coppia, ulteriormente, un fattore di rischio
risulta essere il tempo, il quale non gioca a favore dei legami
affettivi: ad una maggior durata della pena spesso corrisponde
una cristallizzazione e/o un affievolimento del legame, che
può sfociare anche in un definitivo allontanamento. I
legami esistenti prima dell'ingresso in carcere, che avevano
resistito al trauma causato dalla gravità del reato,
possono logorarsi o spezzarsi durante la reclusione a causa
della distanza sia fisica sia mentale che divide il detenuto
dal partner o dai suoi figli.
Per questo motivo spesso, durante il periodo della carcerazione,
si può rilevare un tendenziale aumento del senso di sconfitta,
di abbandono e di solitudine, quale presa di coscienza di un
allontanamento emotivo-sentimentale dal proprio partner. È
chiaro, quindi, che ad essere punita, sul fronte dell'affettività
non è solo la persona reclusa ma anche tutta la sua famiglia
e tutte quelle persone con le quali il detenuto aveva una relazione
affettiva prima dell'ingresso nell'istituto penitenziario. Lo
scopo dello Stato, quale vigilante e curatore dell'applicazione
dei principi costituzionali che sono rivolti (tra gli altri)
a garantire la tutela dell'individuo e della famiglia, altro
non dev'essere, se non quello di assicurarne l'applicazione
in modo di agevolare l'individuo a mantenere vive le sue relazioni
affettive.
La proibizione della sessualità
I problemi psicologici derivanti dalla negazione della sessualità e dell'affettività in carcere sono stati oggetto di studio da parte della medicina penitenziaria. Alcuni medici hanno sostenuto che il processo di adattamento al carcere può provocare disfunzioni nel complesso dei meccanismi biologici che regolano le emozioni, generando sindromi morbose di varia intensità, definite appunto “sindromi da prigionizzazione”. La proibizione della sessualità, inoltre, si riversa sul rapporto di coniugio. La tutela all'affettività sessuale in carcere è una realtà studiata e discussa naturalmente anche negli altri Paesi europei e non solo. Le diverse normative penitenziarie, da questo punto di vista, risultano più avanzate rispetto a quella italiana in quanto prevedono spazi adeguati d'incontro per il detenuto e i suoi familiari. In Croazia sono consentiti colloqui non sorvegliati di quattro ore con il coniuge o il partner. In Germania alcuni Lander hanno predisposto piccoli appartamenti in cui i detenuti con lunghe pene possono incontrare i propri cari. In Olanda, Norvegia e Danimarca vi sono miniappartamenti, immersi nel verde, forniti di camera matrimoniale, servizi e cucina con diritto di visite senza esclusioni relative alla posizione giuridica dei reclusi; in Finlandia ciò vale per coloro che non possono usufruire di permessi. In Albania, una volta alla settimana, sono previste visite non sorvegliate per i detenuti coniugati. In Canada, i detenuti incontrano le loro famiglie nella più completa intimità all'interno di prefabbricati, collocati nel perimetro degli istituti in cui sono detenuti, per 3 giorni consecutivi.
In Francia, come in Belgio (R. Pampalon), sono in corso sperimentazioni
analoghe: la famiglia può far visita al detenuto in un
appartamento di tre stanze con servizi, anche per la durata
di 48 ore consecutive (il costo dell'iniziativa è a carico
dei parenti). In Canton Ticino (Svizzera), chi non fruisce di
congedi esterni può contare su una serie articolata di
colloqui anche intimi in un'apposita casetta, dal nome “La
Silva” (si tratta di uno “chalet” del penitenziario
“La Stampa” di Lugano, posto a 50 metri dal carcere:
ogni due mesi i detenuti possono portare al suo interno la moglie,
la fidanzata, o tutta la famiglia. Non sono presenti né
guardie né videocamere), per gli incontri affettivi.
In Catalogna (Spagna) si distinguono i “Vis a vis”,
incontri in apposite strutture attrezzate per accogliere familiari
e amici (nell'ospedale penitenziario di Madrid, un progetto
prevede l'istituzione di tre camere, fornite di servizi, “per
le relazioni affettive”).
Anche alcuni Stati degli U.S.A., (Mississippi, New York, California, Washington e New Mexico) hanno impostato una simile previsione normativa. Tra gli anni '70 e '80, negli istituti di pena sono stati introdotti i cd. “Coniugal o Family Visitation Programs”: i detenuti possono incontrare ogni due settimane il coniuge e ogni mese tutta la famiglia, in una casa mobile sita all'interno del carcere, per tre giorni consecutivi. Persino in realtà molto lontane e con grandi problematiche l'affettività è considerata una componente ineliminabile della vita del detenuto: in Brasile, ove le condizioni detentive sono assai dure, ogni recluso ha diritto, ogni settimana, ad un incontro affettivo di un'ora con chi desidera, indipendentemente da precedenti rapporti di convivenza riconosciuti dallo Stato. Nel carcere femminile di Caracas in Venezuela, dove manca praticamente tutto, vi sono cinque piccole camere con servizi dove le detenute possono ricevere, ogni 15/30 giorni, il marito o il fidanzato.
Nel contesto francese, la normativa penitenziaria ha predisposto
una struttura organizzata simile a quella Svizzera. Gli artt.
35 e 36 della Loi 2009-1436 du 24 novembre 2009 pènitentiaire
hanno agevolato significativamente la tutela dei rapporti: tale
legge prevede la costruzione da parte dell'Amministrazione penitenziarie
di apposite strutture chiamiate le Unitès de Vie Familiale
e i Parloirs familiaux per lo svolgimento delle visite.
In particolare, le Unitès de Vie Familiale sono
piccoli appartamenti (con una o due stanze da letto, un bagno
ed una zona cucina), separati dalle sezioni detentive ma all'interno
del perimetro penitenziario, dove i detenuti possono ricevere
il compagno o l'intera famiglia per una durata di tempo che
varia dalle 6 alle 72 ore.
Le Parloirs familiaux sono invece delle stanze, da predisporsi
negli istituti penitenziari ove – per le caratteristiche
strutturali – non è possibile realizzare le Unitès
de Vie Familiale. Al loro interno i detenuti possono ricevere
la visita del partner o di altri membri della famiglia per una
durata massima di 6 ore.
In questo contesto internazionale, già abbondantemente
“avanti” rispetto alla nostra arcaica situazione
normativa, ci si augura che, presto o tardi, il Legislatore
possa intervenire con disposizioni che proiettino la tutela
dell'affettività e sessualità del detenuto ad
un equo riconoscimento giuridico.
Nicola Fresu
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