rivista anarchica
anno 48 n. 428
ottobre 2018





Massimo Liberatori
Dalla notte al tratturo: vita, canzoni e opinioni di un cantastorie

Quando io stavo appena per cominciare lui era già una timida leggenda. Ma così, senza darlo troppo a vedere.
Ricordo che frequentavo i Centri Sociali e lui c'era passato a cantare, qualche volta era a Milano, qualche volta a Roma, qualche volta a Bergamo.
Ho collezionato e seguito i suoi dischi, me lo sono sentito amico prima di incontrarne lo sguardo: “ecco uno bravo, ecco uno onesto, ecco uno che senza proclami e retorica va dietro alle storie, le mette a passo di musica”, questo ho sempre pensato di Massimo Liberatori.
Intorno a noi stava impazzando l'Hip Hop, rantolavano le ultime sillabe Punk, il Folk irlandese diventava il modulo sul quale cantare “Bella Ciao”, qualcuno riprendeva i ritmi nostrani della pizzica o del saltarello.
Lui invece seguiva la sua strada, con un modo garbato e ironico, citava ora questo ora quello stilema musicale, li fondeva in un modo tutto suo che lasciava intravedere i suoi maestri senza mai farne l'imitazione, si impadroniva di tutti i linguaggi e li usava per tornare a casa. Ora sappiamo che la sua strada era un tratturo - non proprio un'autostrada ma nemmeno un percorso casuale - e la sua musica una perenne transumanza fra gli uomini e le loro storie. Il tratturo è un luogo, un tema poetico, ma anche una filosofia di vita.
Massimo Liberatori è appunto un cantastorie itinerante, nel senso più coerente e moderno che può avere questo termine, traversa l'Italia e qualche volta si spinge anche più in là, mentre scrivo per esempio sta per trasvolare l'oceano e presentare a New York il suo nuovo disco: “Tratturo zero”. Un disco insaporito di tante spezie musicali, che si muove al passo lento e riflessivo dei pastori.
«Vai a New York?» gli ho chiesto «e che ne sanno a New York dei tratturi, dei briganti travestiti da prete, dei figli dei mercanti che si fanno santi e vengono presi per pazzi, di tuo nonno che fu soldato a Caporetto e che non prese mai la tessera del fascio, ma conservò tutta la vita un mazzetto di stelle alpine raccolto al fronte, e di te che resisti immerso come tutti noi nel buio del presente, o come dici tu “nella notte del cantastorie”?»

Civitanova Marche, 2017 - Massimo Liberatori al Futura Festival

Woody Guthrie, Joe Hill e Joe Strummer

«A beh, se è per questo» m'ha risposto Massimo «sono andato l'altro giorno a Roma a presentare il disco in una radio, e questi molto simpatici, molto preparati, avevano ascoltato tutte le canzoni, e mi dicono, cos'è 'sto tratturo? è un errore? volevi dire trattore? Manco sapevano cos'è il tratturo... e pensa che a Roma il tratturo ci passava! I tratturi - che mo' hanno pure candidato come Patrimonio Unesco - avevano dei nomi, tipo il “Tratturo Magno” che andava da L'Aquila a Foggia, il mio disco l'ho chiamato “Tratturo zero”, perché si muove coi tempi del tratturo ma sfugge a certi percorsi obbligati e ne cerca altri suoi... perché no, passando pure da New York: è il mio amico John Kruth - che senti cantare in un paio di tracce del disco - che ci ha organizzato questo giro fra New York e il New Jersey, e io che generalmente me la faccio sotto dalla paura ogni volta che prendo l'aereo, questa volta non vedo l'ora, segno che riportare a casa Woody Guthrie, Joe Hill o Joe Strummer dal mio tratturo, è una cosa che mi pare abbia senso.»
In effetti questi tre nomi “sacri” del pantheon del canto sociale li incontriamo in posizioni strategiche della scaletta del disco. A Guthrie - il più grande cantore del movimento dei lavoratori statunitense, e in assoluto uno dei massimi poeti-narratori con la chitarra - è addirittura affidato il ruolo di aprire le danze, visto che la prima canzone è un fitto dialogo con la sua celeberrima This land is your land

È la tua terra è anche la mia
comunque vada comunque sia
i muri sono dentro a me e a te
ma la terra è fatta per me e per te.
Questa è la favola infinita e transumante
tra lupi e agnelli peccatori e anime sante
il nostro coast to coast su mistico tratturo
da stazzo a stazzo e prima che fa scuro.

La seconda canzone del disco è invece il riadattamento di un brano di rivendicazione in senso stretto, un inno al Sabotaggio, una di quelle canzoni sulfuree con le quali l'immigrato svedese Joe Hillström arringava i suoi compagni del sindacato negli anni Dieci del Novecento, prima di finire vittima di un celeberrimo processo politico nello Utah.
Joe Strummer, il carismatico fondatore dei Clash, lo ritroviamo nella seconda metà della scaletta e quell'inno rivoluzionario-esistenziale che è London Calling, dalla voce garbata di Massimo si tramuta in un appello - parte ironico, parte sconsolato - all'ascolto reciproco

Sfilateve le cuffie m'avete da sentì
la bitorzemania ce sta a rincojonì
nun se inventamo più gnente de bello
nun sogna più nessuno...
qui ce se spappola il cervello!

Sembra la ripresa di una polemica in voga fra detrattori e sostenitori del fenomeno Hip Hop e in particolare dell'ultima ondata della Trap: anche il Punk all'inizio degli anni Ottanta aveva la medesima funzione destabilizzante, apparentemente nichilista, ma col senno di poi rivelava più un disperato bisogno di partecipazione che di isolamento generazionale. Massimo, che ha l'età per potersi ricordare bene del Punk, e il sorriso puro di un eterno adolescente, “arruola” il vecchio Joe per rivendicare il valore non consolatorio, ma provocatorio di ogni urgenza espressiva.

Con una sorta di fatalismo addosso

«Sono tanti anni che son fuggito dal caos di Roma, e sono approdato a Spello in Umbria - una piccola città in una piccola regione, dove si vive abbastanza bene - ho dei figli e faccio corsi di canto popolare nelle scuole, perciò il mio orecchio non smette di cogliere battute che fanno paura, un'estetica del linguaggio sempre più negativa e aggressiva, che lascia pochissimo spazio alla riflessione. Io cerco di tenermi stretto il mio credo “malatestiano”, ostinarmi a pensare che l'uomo alberghi sentimenti positivi, di solidarietà, di amore. Ma oggigiorno mi accorgo di camminare con una sorta di fatalismo addosso, per il rischio di doversi trovare da un momento all'altro a fare una rissa, perché fra troppi c'è un rapporto guardingo se non proprio provocatorio. Dall'Umbria sto vivendo questa trasformazione, avevamo un museo bellissimo dell'emigrazione, oggi chiuso: sarà una casualità?
A Spello più di mille persone hanno votato il Partito razzista, è ormai talmente facile tirar fuori il negativo che c'è dentro di noi... dunque faccio quest'atto di resistenza, cantare col sorriso, alzare poco la voce.»
Roma, Spello, New York, Londra o meglio la Radio Londra, bollettino della Resistenza evocata, il tratturo di questo disco congiunge molte storie lontane e raccoglie le memorie di molti passaggi, memorabile quello di Surus, uno degli elefanti portati da Annibale attraverso le Alpi

Ma noi elefanti questo odio non l'avevamo voluto
nel nostro cuore di giganti c'è un altro saluto (...)
Varcati i monti caddero i miei fratelli e le mie sorelle
e poi quel fango gelido che tagliava la pelle
arrivammo tutti lì con la morte sulle spalle
su quella riva di lago fatta per guardare le stelle
ma quei guerrieri soltanto il sangue li dissetava (...)
e lì tra le canne e il sangue il lago restò muto
ma noi elefanti tutto questo non lo avremmo voluto

Se si proietta il fantasma della guerra lontano dalla giusta partigianeria di Radio Londra ecco che si svela l'assoluta inconsistenza delle ragioni di ogni conflitto e che la paciosa indifferenza dei pachidermi sembra una lezione di umanità.
«Tutto questo andar via, nello spazio come nel tempo. La storia di Annibale mi dà l'occasione di raccontare l'Appennino dal punto di vista dell'elefante. Perché lui arrivò con questi 37 elefanti che poi gli morirono tutti dopo la traversata delle Alpi, fece la guerra sul Ticino, sul Trebbia e sul Trasimeno, probabilmente quest'ultimo elefante Surus non c'è manco arrivato, però è quello che ha resistito di più, perché era un elefante indiano più grosso di quelli africani, e pare che ad Annibale gli abbia pure salvato la vita, perché lui aveva un'infezione agli occhi e si salvò dormendo senza scendere mai dalla groppa dell'elefante: io lo faccio parlare, e ne emerge la visione antirazzista.
Questo giocare col tempo, oltre che con lo spazio, è il privilegio del cantastorie, il suo ricamo, perché le canzoni che stanno bene assieme, diventano speculari. Fra San Francesco - che io racconto con gli occhi di suo padre, il mercante Pietro Bernardone, che gli aveva dato quel nome proprio in omaggio agli ottimi affari che faceva in Francia - vissuto all'inizio del duecento e il brigante Cinicchia, pure lui assisano, vissuto alla fine dell'Ottocento il tempo pare annullarsi perché, come dico, “un frate gli salvò la testa” nel senso che si tramanda che Cinicchia scappasse vestito da frate... quindi è come se il suo più noto compaesano gli avesse dato una mano a rifarsi una vita in Argentina.»

Ora è la notte del cantastorie
ed è tempo imbalsamato
è il tempo degli specchi
che si specchiano nel passato (...)
Come nel fango di una trincea
tra odore di morte e di cioccolato
in un'ecclissi di stelle dove
tutto è in vendita o va rubato.

La notte del cantastorie è forse la più cupa delle metafore del disco, denuncia il punto in cui l'incapacità di ascolto reciproco sfiora l'inutilità del racconto, e quindi della vita stessa, perché cosa resta delle vite se non la loro storia?
«È la difficoltà di raccontare storie in senso positivo, un'angoscia paralizzante: la notte è quella. La canzone ha cambiato il testo nel corso dei mesi, cercando di sollevarsi dalla prima ispirazione che era del tutto negativa, disperata... poi alla fine ha avuto un po' questa svolta, quando sul confine sboccia un ciuffo di stelle alpine.»

Quando mio nonno morì

In effetti negli ultimi versi torna in aiuto un grande compilatore e innovatore di linguaggi, rimasto occulto nelle varie dediche del disco, si tratta di Bob Dylan citato espressamente con “Blowin' in the wind” e implicitamemente con “Chimes of freedom”, come dire che se si trovano nuove forme e nuove parole ogni idea trova la sua strada o il suo tratturo per rimettersi in marcia.

Nella notte del cantastorie
una campana ha singhiozzato
e un ciuffetto di stelle alpine
sul confine ha germogliato (...)
perché gira speranza, gira
una campana ha rintoccato!

«Le stelle alpine poi tornano poco più avanti nella canzone dedicata a mio nonno, che era stato a Caporetto. Lui non ha mai indossato camicie nere, s'era fatto solo questa campagna della Prima Guerra Mondiale, e tornò con questo mazzetto di stelle alpine che io conservo sotto vetro dentro un quadruccio, per cui questi sono i fiori che faccio sbocciare al confine della notte del cantastorie, che non so nemmeno io quanto sia reale e quanto sia un desiderio di pacificazione con le proprie guerre, la propria vita.
Io, per esempio, avevo conosciuto l'Umbria da bambino perché, essendo orfano di babbo, finì in collegio a Spoleto, e dunque questa terra tanto bella l'avevo odiata e amata e desideravo riconciliarmici. Quando mio nonno morì mi lasciò il mazzetto di stelle alpine e una piccolissima eredità, che mi sarei mangiato presto senza cambiare nulla nella mia vita. E allora, siccome sono molto sentimentale, pensai di comprarmi degli ulivi, e li trovai a Spello, qualche anno dopo ho finito per andarci a vivere.»
Quando Massimo e io ci siamo incontrati per realizzare questa chiacchierata, lui m'ha portato in dono il suo CD e una bottiglia del suo olio.
Gli ho chiesto «ma visto che è tuo dirimpettaio, l'olio che fai è lo stesso di de Gregori?»
«Mejo, lo riconosce pure lui.»
Massimo è, oltre che un grande narratore in musica, una persona buona e prosegue sul suo tratturo con la serena caparbietà dei giusti per cercare l'uomo e le sue storie.
Ecco - mi è venuto da dire paragonandolo a tanta inutile caciara che ci arriva dal mondo - appunto: “mejo”.

Alessio Lega