È un tempo di buio da attraversare
intervista a Marco Rovelli
Capita, alle volte, di voler “fare un ragionamento”, sul tempo in corso, sicuramente non dal punto di vista climatico, per capire se abbiamo ancora un tempo, se c'è tempo ancora, per il pensiero, per riconoscersi nello sbiadire delle forme costrette alla clandestinità da una coltre grigio-lattea che ci avvolge e ci attanaglia, per sentirsi leggeri nel passo tra i grovigli e gli incatenamenti umani, per sciogliere nodi e scegliere il cammino, per annusarsi randagi, “fratelli dei cani” (tanto per citare il pensiero, appunto, pasoliniano).
Capita, quindi, fra guinzagli e lamiere rumorose, fra alberi virtuali disegnati sui muri e cemento innestato nei nostri cuori, di trovare “un'oasi resistente” abitata da viandanti della parola e del suono che, alchemicamente precari, si fanno canto e racconto di un pensiero (una volta si diceva “ci ragiono e canto”) per fare un ragionamento con “il contro in testa”.
L'oasi è, naturalmente Libertaria, l'alchemico cantore si chiama Marco Rovelli.
G.F.
Gerry Ferrara - Che tempo stiamo vivendo e con quali
abiti (meglio sarebbe dire stracci) lo stai vivendo?
Marco Rovelli - È un tempo di buio da traversare.
Non credo che ce la caveremo in meno di un decennio. C'è
una risorgenza forte di quel filo nero che è l'autobiografia
della Nazione analizzata da Gobetti, quella storia che aveva
preso corpo nel fascismo, e che oggi si declina nel nazileghismo.
Hanno acquisito una netta egemonia culturale nella società,
e non sarà facile ricostruire da queste macerie. A noi
tocca di tenere le fiaccole accese. Anzi, è proprio in
questi tempi che il compito si fa più urgente.
Raccontaci del tuo nomadismo concettuale che ti ha
condotto a conoscere ed indagare i territori del canto e della
scrittura.
Sono intrecciati e distinti allo stesso tempo. Oltre al fatto
che scrivere è un fatto musicale, per me - il ritmo della
frase è prioritario, come il suono della lingua -, mi
accade di dirigere lo sguardo agli stessi oggetti di racconto.
È stato il caso del libro che ho pubblicato da poco per
Elèuthera, Il tempo delle ciliegie, una narrazione
letteraria della vita di Louise Michel, che compariva in “La
comunarda”, la canzone che una decina d'anni fa avevo
dedicato alla Comune di Parigi. Vado per link, passaggi, vie
di fuga: è un po' come fosse un ipertesto. Hai detto
bene, nomadismo: è un testo che concresce spontaneamente,
ed è questa la mia natura. Non sono mai riuscito a fermarmi
su una questione né su una forma specifica, ne attraverso
tante, ne ho proprio la necessità. Che so, quando tra
il 2006 e il 2009 scrissi i miei due libri sulle questioni migranti
per Bur e Feltrinelli, ero considerato un “esperto”
del settore: ma non mi sono fermato, ho girato pagina, è
la mia necessità di saltabeccare e misurarmi con territori
nuovi. Che poi è il motivo per cui non ho proseguito
il cursus all'università dopo il dottorato che feci,
per esempio.
Qual è stato lo spunto, il motivo, il luogo,
il ”momento” che ti ha mostrato
il sentiero per andare dall'altra parte, per stare dall'altra
parte...
Non direi che c'è stato un punto spaziotemporale preciso.
C'è stato un processo, al tempo dell'adolescenza, che
ha fatto sì che mi si schiudesse un mondo. Per fortuna.
E questo rovesciamento del piccolo mondo antico in cui ero cresciuto
ha preso l'avvio proprio dalla passione per la musica. La musica
mi ha salvato. Di certo a portarmi lì c'era un senso
di estraneità crescente rispetto ai miei coetanei, a
quello che a quell'età si definisce il gregge, e la ricerca
di una differenza. E, posso dire oggi, Differenza e Libertà
sono sinonimi.
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Marco
Rovelli
(foto Laura Albano) |
Un corpo a corpo con la realtà
Hai sempre cucito le trame delle tue storie attingendo
alla letteratura e alla strada, e nelle tue peculiarità
randagie di scrittore e di cantautore hai inevitabilmente “affiancato”
servi e malfattori, migranti e precari, fratelli dai cani, appunto.
Come si fa a raccontare le storie, e le strade, degli altri,
cercando di non nascondere, “ipocritamente”, la
propria condizione, quella di chi può raccontare da un
luogo di osservazione e da un punto di vista critico, di privilegiato.
Tocchi due questioni che mi stanno a cuore da molto tempo. Primo,
raccontare il margine. Nel primissimo libro che pubblicai a
mio nome, un libro di poesie, Corpo esposto, c'era questa:
“Osserva il mondo dal margine / Senza cardini né
giunture / Dall'estremità del dissenso / Strappa le cose
al sole che nasconde / alla luce che riverbera / e non rischiara”.
È dal confine, è sul confine, che si percepisce
la forma del tutto. È partendo dagli esclusi che si comprende
l'identità e il senso degli inclusi. Dopodiché,
come raccontare il margine quando non vi si appartiene pienamente,
ma si è consegnati a una condizione anfibia?
Ho sempre detto che non si tratta di “parlare al posto di”. Non si tratta, come invece a volte recensori disattenti hanno scritto, di “dare voce a chi non ce l'ha”: si tratta di mettersi in scena, invece, di mettere in scena il proprio stesso sguardo di testimone, di mettere in scena la propria relazione con l'interlocutore. Questa è sempre stata la mia strategia narrativa nelle “narrazione sociali” che ho scritto, in Servi soprattutto.
Ha ancora senso compiuto e vero, profondo, dunque,
la posizione e la voce “militante”, il linguaggio
“indipendente”, la non appartenenza...
Posto che il linguaggio non è mai indipendente, la posizione di chi parla, quella sì può tendere all'inappartenenza (che poi è la condizione che reclamo nella canzone che apriva il mio album Tutto inizia sempre). La condizione dello sradicamento, dello sbandato, del nomade. Essere singolarità tra le singolarità, questa è la postura di ciò che una volta si chiamava “impegno”. Si è engagée quando si è presi in un corpo a corpo con la realtà, anche quando, come oggi, pare che la lotta sia impari e sia inevitabile soccombere.
La tua è una voce, da un punto di vista fonetico
intendo, “anomala”, vibrante, “sporca”,
potente, “megafonica”, tipica del cantore che lamenta,
racconta, urla, riverbera storie di terre e di genti che oggi
cecità, mutismo e indifferenza, se non addirittura complicità,
permettono al popolo di lasciare quello che resta in pasto all'omologazione
annichilente. Che effetto ti fa solcare con la voce questo mare
pattumiera dell'uomo e senza orizzonte.
La voce nasce nel canto, come si può non cantare? Finché
si canta, ci sarà umanità.
Mia nonna valdarnese e Caterina Bueno
Dopo tanto peregrinare, fisico, metaforico e ideologico,
hai deciso di “tornare a casa” con un bagaglio legato
a corda all'interno del quale hai custodito pensiero, storie
e canti della straordinaria tessitrice ti tradizione di festa
e di lotta, Caterina Bueno, prima con la Leggera in forma teatro
e di recente con la forma canzone di Bella una serpe con le
spoglie d'oro.
Io sono toscano, ma di Massa, che proprio Toscana non è, dal punto di vista della cultura popolare. Però mia nonna era valdarnese, e chissà, forse è stata la sua toscanità linguistica a restarmi nelle orecchie e a farmi innamorare un giorno dei dischi di Caterina Bueno. Che poi ho avuto modo di conoscere, e ho eletto come mio nume tutelare.
Il canto popolare toscano tiene insieme una somma di storie
potentissime, una Storia piena di senso, e una musicalità
straordinaria e avvolgente. Dedicare uno spettacolo e poi un
disco a questo universo è stato del tutto naturale: sono
canti che mi hanno trovato e si sono mescolati al mio sangue.
Per questo che il disco sia stato scelto tra i cinque finalisti
per la targa Tenco nella categoria interpreti mi ha dato una
grandissima felicità.
Come hai curiosato nel patrimonio di Caterina e in
che modo hai deciso di tracciare un percorso che, oltre ad essere
un omaggio a Caterina stessa, potesse diventare “un ragionamento”
in musica per affrontare i temi e la condizione umana del presente,
per evitare quindi il rischio di relegare il tuo personale canto
a immagine e somiglianza del passato.
Se penso ai canti che ho selezionato nel tesoretto di Caterina, prevalentemente trovo quello che è tematizzato nel mio disco precedente di canzoni mie: ovvero Amore e Utopia. Che sono l'uno il rovescio dell'altro, vivendo di una tensione infinita verso un altrove: il che significa che quel che importa è il cammino. Insomma, ho fatto una selezione personale, che si attaglia al mio modo di percepire e di raccontare le cose. I canti d'amore hanno una parte rilevante – rispetti, stornelli, serenate: nel canto toscano abbondavano, e rilucevano di melodie pure, cristalline. Come non innamorarsene? Il titolo del disco è appunto il verso di un meraviglioso rispetto d'amore (che sento molto mio).
Peraltro tutte queste tipologie di canti – dall'amore
alla lotta - ti permettono di esplorare tutta una serie di vari
registri della voce, compresi registri più intimi, caldi,
registri bassi, registri più suadenti, insomma c'è
tutto uno spettro di vocalità che ho potuto esplorare
e dispiegare.
Poi, con Rocco Marchi, abbiamo lavorato i pezzi cercando di riproporli nella loro verità, ma allo stesso tempo usando ambienti sonori e strumenti non attinenti alla “tradizione”, che però dispiegassero l'essenza, l'anima di quei canti. In una recensione al disco è stato scritto che questi canti sono stati resi senza tempo: ed era proprio quello che intendevamo fare.
Raccontaci qualche brano che hai scelto per questo
disco e i compagni di viaggio con i quali hai condiviso il ragionamento
intorno alla figura e al pensiero salvificamente anarchico di
Caterina Bueno.
Dicevo di Rocco, con cui abbiamo pensato la direzione da dare ai pezzi. Lui è l'arrangiatore anche del mio disco solista precedente, e amo molto il suo modo di costruire le stanze sonore per le mie canzoni. Poi ci sono stati altri musicisti, come Davide Giromini e Lara Vecoli, fisarmonica e violoncello con cui collaboro da anni, e Paolo Monti, una collaborazione più recente, con le sue architetture elettriche di chitarra “ambient”. E Roberto Passuti, nel cui studio il disco è stato registrato.
Quanto ai brani, non è facile trasceglierne uno. Per
lunghissima consuetudine potrei citare “Battan l'otto”,
canto di un malfattore in galera, raccolto da Caterina a San
Giovanni Valdarno, che oggi gli anarchici conoscono, e lo conoscono
grazie a Caterina che lo ha ascoltato e portato fuori dal Valdarno.
La Serenata, antico canto d'amore, di cui ho trovato traccia,
un giorno, leggendo lo Zibaldone di Leopardi, dove lui rammemorava
dopo molti anni, e trascriveva, alcune “canzonette popolari”.
O ancora Maremma, struggente canto di amore e di lavoro, un
antico “rispetto” cantato per un amore lontano,
a fare la bonifica in Maremma appunto, dove si rischiava di
morire per la febbre malarica.
“Un lamento carbonaro prima che entri la corte”
Tra i tuoi pensieri a margine di questo lavoro,
affiora una “amara mancanza”, la possibilità,
cioè, che tu avessi potuto scrivere di Caterina...
Sì, Caterina aveva migliaia di storie da raccontare.
Ma non aveva in mente di scrivere un'autobiografia. Che sarebbe
stata veramente una storia bellissima da leggere. Le avevo detto
che l'avrei scritta io, allora: “vengo da te, passiamo
qualche pomeriggio insieme, ti registro, e poi la scrivo io”.
E lei aveva detto “Va bene”.
Poi, nei mesi successivi, fui impegnatissimo, era appena uscito
“lager italiani”, il mio libro sugli allora CPT,
ed ero continuamente in giro per l'Italia. C'era tempo, pensavo.
Invece non c'è stato, Caterina è morta all'improvviso.
Ricordo che ne lessi con sgomento sul manifesto, una mattina
che ero in Puglia per ascoltare ancora storie dai braccianti
immigrati nelle campagne del Tavoliere.
Un progetto “squilibrato” se pensiamo
al cantiere aperto fra tradizione e contemporaneità di
Mimmo Ferraro (Squilibri Editore), che proprio da queste pagine
ha raccontato la sua terra cantata, e che ha dato “asilo
politico” al tuo progetto.
Sono stato molto fortunato a aver incrociato un editore come
Mimmo, che ha voluto questo disco, e lo ha sostenuto con grande
forza, fino ad arrivare al risultato del Tenco. Sono un caso
raro la sua passione, la sua competenza, il suo rigore di storico
della filosofia (insegna all'università di Roma) applicato
all'etnomusicologia, la sua tenacia. Adesso abbiamo altri progetti
insieme, stavolta virati più verso la contemporaneità,
con le canzoni di cui sono autore.
Non è casuale dunque, che a margine di questa
collaborazione il progetto è arrivato fra i primi cinque
alle targhe Tenco 2018 nella sezione Interpreti, come ci anticipavi.
Alla luce di questo “piazzamento”, che valore dai
a questo riconoscimento e qual è la tua sensazione in
merito al lavoro che si sta provando a fare da più
parti per riprovare a far “dialogare” musica e canto
di tradizione popolare con la canzone d'autore? Questo tentativo
muove in direzione di un rinnovato, vero, impegno politico e
civile, considerato, appunto, il tempo buio da traversare?
Beh, sono stato molto felice di questo riconoscimento, essere
finalista nella sezione “interpreti” significa vedersi
riconosciuto una capacità ri/creativa nei confronti della
materia della tradizione. Diciamo che ci è stato riconosciuto
la nostra capacità di tradimento. Perciò non si
può che andare avanti, adesso, con quella che un critico
musicale, Antonio Vivaldi, scrivendo del mio disco precedente,
ha definito “nuova canzone popolare”.
Se Marco Rovelli fosse un “lamento
carbonaro prima che entri la corte”, cosa canterebbe
per le genti rossonere di “A” rivista per sancire
la chiusura di questa conversazione, di questo “ragionamento”?
Canterei una canzone raccolta da Caterina che non è finita nel disco, ma che incisi con Les Anarchistes molti anni fa: “Su fratelli pugnamo da forti”, che tante volte ho cantato il 20 luglio in piazza Alimonda. C'è bisogno di forza, oggi, più che mai.
Contatti: www.marcorovelli.it
Gerry Ferrara
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