rivista anarchica
anno 48 n. 428
ottobre 2018


cinema

L'arte di restare eternamente vivi

di Luca Barnabé

Biografia e opere di Jean Vigo, una delle figure più significative e ribelli della storia del cinema. Figlio dell'anarchico Almereyda, seppe celebrare il miglior spirito libertario in capolavori come Zero in condotta e L'Atalante.

«Si vergognino coloro i quali, nell'adolescenza,
hanno ucciso la persona che avrebbero potuto diventare.»

Jean Vigo – Verso un cinema sociale

«È tempo di riportare l'umanità dentro alle persone...»
Joe Strummer – The Future Is Unwritten

Ci sono pochi autori capaci di illuminare il nostro sguardo sul mondo e la vita, attraverso un sentire libero e poetico, al contempo “fanciullesco” e già adulto.
Jean Vigo è uno di questi, benché abbia girato solo quattro film (di cui due cortometraggi) in appena ventinove anni di vita (1905-1934). Vero punk ante litteram (non a caso Julien Temple ha realizzato un biopic su di lui nel 1998), seppe rompere le regole della messinscena, svelare la realtà e il sogno, tra furore e gioco, quotidianità meschina e idea di giustizia.
Se, prima di lui, il cinema si divideva in cinema del reale (i fratelli Lumière) e cinema fantastico (Méliès), mentre i suoi amici “contemporanei” animavano il cinema surreal-dadaista (Un chien andalou di Buñuel e Dalì), Vigo seppe dar vita a un cinema completamente altro, inetichettabile e unico, in cui si ritrovavano la bellezza e l'assurdità del mondo, il volto grottesco del male e del potere, ma anche la limpidezza del sogno. Osservò François Truffaut: «Sembra che Vigo lavorasse continuamente in uno stato di trance, senza perdere mai la propria lucidità. Si sa che era già malato mentre girava i suoi film e che ha diretto alcune sequenze di Zero in condotta sdraiato su un lettino da campo. Nasce allora spontaneo pensare a uno stato febbrile dietro la macchina da presa...» (cfr. Les films de ma vie di François Truffaut, ed. Flammarion).

Jean Vigo dietro la macchina da presa

“Sentire il mondo”

La sua vita fu breve a causa della salute fragile e della tubercolosi che lo uccise. Fu però una vita in cui Jean seppe “sentire il mondo” attraverso il cinema e raccontarlo attraverso uno sguardo rivoluzionario e destabilizzante sulla realtà, tramite una serie di personaggi estremamente umani, impastati di luci e ombre, proprio come noi.
Nacque a Parigi nel 1905, in una minuscola mansarda maleodorante e «piena di gatti scheletrici» al 18° arrondissement (cfr. Jean Vigo di P. E. Salès Gomès, ed. Cinémathèque, p. 24). Era figlio degli anarchici Emily Cléro e del leggendario Eugène Bonaventure de Vigo, noto come Miguel Almereyda (nome di battaglia e anagramma di “Y'a la merde”), giornalista e fotografo squattrinato.
Almereyda fu figura di spicco dell'anarchismo d'inizio Novecento, fra i primi firmatari dell'Association Internationale Antimilitariste (A.I.A), firma di punta del giornale Le Libertaire e fondatore, con il compagno Eugène Merle, del settimanale (poi quotidiano) La Guerre Sociale che attaccò violentemente e senza tregua il governo Clemenceau. Tra il 1912 e il 1913, Almereyda aderì al Partito Socialista, cominciò a frequentare la borghesia progressista, a vivere “in grande stile” (inimicandosi molti vecchi compagni) e fondò il giornale satirico e al vetriolo Le Bonnet rouge.
Nel 1917 il suo giornale iconoclasta fu accusato di complicità con la Germania ed Eugène Bonaventure additato come spia al servizio dei tedeschi. Proprio per le sue attività «sovversive» e infine l'accusa di «tradimento» durante la Prima guerra mondiale, fu arrestato e condannato più volte a vari anni di carcere da cui fece un costante avanti-indietro durante tutta l'infanzia del figlio. Fu ritrovato impiccato con i lacci delle sue scarpe nella cella n. 14 di Fresnes nel 1917 (suicidio dubbio).
Jean, detto “Nono” da un'avventura per bambini di Jean Grave, vide più spesso il padre attraverso le sbarre del parlatorio del carcere che in libertà (quando il piccolo aveva tre anni la famiglia Vigo festeggiò il Natale in cella).

Un celebre fotogramma di L'Atalante
fa da copertina al cofanetto Tutto Vigo
(Dvd, Blu-ray, libro, ed. Cineteca di Bologna)

“Verso un nuovo cinema sociale”

Durante l'infanzia e la prima adolescenza, Jean fu allevato da alcuni compagni dei genitori e poi, alla morte del padre, dalla famiglia del nonno acquisito Gabriel Aubès (patrigno di Almereyda), a Montpellier. Crebbe infine in diversi e rigidi collegi francesi (in seguito ispirazione di Zero in condotta).
Si iscrisse a Filosofia alla Sorbona, frequentò gli amici del padre, grandi intellettuali e artisti dell'epoca come il pittore Francis Jourdain, la giornalista Fanny Clar e il disegnatore Raphaël Diligent (gli ultimi due recitarono poi nell'Atalante). Si impegnò a lungo per riabilitare la figura paterna che amava profondamente e tentò di ricomporre la verità sul “dossier Almereyda”.
Comincia a girare film nel 1926 quando è già gravemente malato di tubercolosi. Grazie alla Cineteca di Bologna è da poco uscito un cofanetto prezioso con tutte le opere di Vigo in Dvd e Blu-ray (e un libro curato da Alessandro Cavazza e Paola Cristalli), recentemente restaurate in 4K da Gaumont.
Purtroppo il cinema del grande autore francese è “poco” in termini di quantità, sconfinato per qualità.
I suoi film parlano di centri borghesi, nuotatori, di amore, giovinezza, libertà e ingiustizie sociali. Redasse anche un manifesto Verso un cinema sociale (1930), in cui si poneva contro il “cinema digestivo” dell'epoca, per cui lo spettatore entra in sala ed esce come ne è entrato. Osservò: «Dirigersi verso il cinema sociale vuol dire questo, consentire di sfruttare una miniera di soggetti rinnovati continuamente dall'attualità. [...] Farla finita con lo spettacolo di due bocche che ci mettono tremila metri [di pellicola] per incollarsi l'una all'altra ed altrettanti per staccarsi...».

La scena della battaglia a cuscinate tra i ragazzi di Zero in condotta (1933)

Meravigliosa visionarietà

Sarebbe però riduttivo collocare il suo cinema all'interno di un “manifesto” per quanto potente. Basti la sequenza onirica (realismo dell'impossibilità?) della sposa che danza nell'acqua dell'ultimo capolavoro L'Atalante (1934), forse la più bella e “vera” storia d'amore del cinema, a fotografarne la meravigliosa visionarietà. Il suo cinema non è mai ridondante, didascalico o ideologico, ma poetico, sentito, spiazzante e particolarmente sensibile all'umano.
Mostrò i vizi e le storture della società borghese nizzarda (il documentario À propos de Nice, 1930), mettendo a fuoco la febbre del gioco d'azzardo (l'uomo ridotto a pupazzetto ridicolo) e la volontà dei ricchi di non vedere i mendicanti ai margini o la fatica dei lavoratori che rende possibili gli illusori bagliori del lusso. Vigo in questo film inquadra ogni cosa con lampante realismo. Realizza uno dei primi lavori in cui si mescolano elementi di messa in scena (la sequenza con i pupazzi e quella dell'“abbronzatura”) e frammenti girati con la macchina da presa seminascosta per catturare ogni dettaglio “vero” e tangibile, come le crepe del pavimento del percorso più celebre e affollato della città, la (presunta) “perfetta” Promenade des Anglais. Jean riesce a inquadrare perfino le mosche.
Il cineasta americano contemporaneo, Michael Almereyda, un cognome che coincide con l'anagramma di battaglia del padre di Vigo, scrive (nel libro che accompagna il cofanetto, p. 6): «Il minimo che si può dire di questi film è che sono trascinanti, inesauribili, miracolosi. Ciascuno è notevolissimo per invenzione formale, allineata a un'incessante capacità di osservazione. Lavorando insieme all'amico Boris Kaufman (fratello di Dziga Vertov), Vigo mette a punto un linguaggio che apre canali di comunicazione diretta tra la realtà documentaria e un flusso emotivo intenso e cangiante. L'acqua, il vapore, la lucentezza della carne umana sono motivi ricorrenti, con convulsi ralenti usati per elevare certe sequenze fino a uno stato di estasi onirica.».

Una scena di Zero in condotta: il professore di chimica e il piccolo Tabard

L'arte di non morire mai

Per quanto restaurato, un capolavoro come Zéro de conduite (Zero in condotta, 1933) resterà purtroppo per sempre mozzato dalla Censura dell'epoca che massacrò la copia originale a colpi di forbici (il film dura appena 47 – magnifici - minuti), bollandolo come film “antifrancese” e impedendone la diffusione nelle sale fino al 1945, quando l'autore era già morto da più di dieci anni.
Il presidente della commissione controllo e censura dei film Edmond Sée impedì l'uscita di Zero in condotta, osservando, in linguaggio burocratico: «Su tutte le questioni artistiche e morali, la nostra opinione è preponderante... Ma per i film che possono creare disordini e nuocere al mantenimento dell'ordine, il parere dei rappresentanti dei ministeri dell'Interno e degli Affari Esteri ha forza di legge... Il loro voto, insomma, è senza appello!».
Del film vediamo finalmente la versione più lunga esistente, di quasi 49 minuti (la copia inviata da Henri Langlois a Luigi Comencini nel 1947, ritrovata alla Cineteca di Milano). È l'opera più esplicitamente autobiografica di Vigo, così come la più dichiaratamente libertaria proprio in termini di temi al centro della scena (sul piano visivo ogni suo film è una piccola-grande rivolta al sistema e alle tecniche precostituite).
Gli elementi biografici sono evidenti (la vita in collegio), i bambini costretti alle regole più ferree e assurde dettate da un ometto di bassa statura (il potere nella sua fisionomia più grottesca). I ragazzini faranno, nella celebre sequenza finale, la loro rivoluzione, «la guerra è dichiarata!». Portano sul tetto una bandiera nera con il teschio da pirati, le mani levate verso il cielo.
La potenza simbolica e iconografica di quei pochi, brevi fotogrammi ha, non solo per l'epoca, la forza di un pugno in faccia al potere.
Ha osservato il critico Ezio Alberione (cfr. Sul cinema e altre imperfezioni, ed. Bietti, p. 94): «Di fronte a una scuola che non sa attivare altri tipi di rapporto che non siano il sistema di voti, dei premi e delle punizioni, della correzione rispetto a quello che viene avvertito come uno sbandamento dalle regole, insomma di fronte a una scuola percepita come “normativa” e “normalizzatrice”, non è un caso che il cinema abbia raccontato per lo più storie di protesta e di rivolta, di fuga e di reazione violenta. Il capostipite di questa lunga tradizione antiscolastica è costituito da Zero in condotta...».
Zero in condotta è un breve film che racconta la rivolta di quattro ragazzi puniti da un'istituzione i cui limiti sono ben riassunti dalla bassa statura fisica del direttore e dal servilismo dei sottoposti pronti a farsi “sua immagine” allo specchio troppo alto per l'ometto (quando il direttorissimo si liscia la barba, il supervisore Bec-de-Gaz si liscia a sua volta la barba che non ha).
L'unico insegnante “degno” è proprio quello che le autorità del collegio pensano già di licenziare, il buffo e chapliniano Huguet (Jean Dasté). Questi è l'unico che riesce a interagire con i ragazzi attraverso il gioco, lo sberleffo, lo scherzo. Mostra loro che il mondo si può anche guardare a testa in giù (fa l'equilibrista sulla cattedra) e in maniera clownesca. Responsabilizza gli studenti nella scena della gita fuoriporta, in cui non si preoccupa mai di guardare che i ragazzi lo seguano in fila per due. Non sta dietro di loro come un cane da pastore, ma davanti, come a dire: «Non seguitemi mi sono perso anch'io». E infatti i bambini lo perdono, poi lo ritrovano, lo seguono per prenderlo in giro. Finalmente il piacere di stare insieme, il gruppo diventa un solo corpo incespicante che sbanda, deraglia, “perde pezzi”, torna tutto intero, antitesi perfetta all'eccesso di regole, di norme, disciplina militare - divisa e petto in fuori.
La classe assapora il piacere del gioco grazie all'eccentrico, poetico e stralunato Huguet, l'unico adulto capace di essere anello di congiunzione tra il fanciullo e il mondo dei “grandi”, proprio perché ancora capace di mettersi ad altezza di bambino e di non trattare i piccoli da “stupidi teppisti”, ma piuttosto da piccoli uomini ancora capaci di non cancellare il divertimento dalla vita.
Huguet corteggia una donna mentre il gruppo di bimbi dietro a piedi, poi a passo di marcia, poi di corsa, ri-sbanda e si ricompone in tempo per rincasare.
Huguet ha appena dato una lezione di autonomia e autodisciplina, senza aver dato “nessuna lezione”.
Il cinema di Vigo ci insegna, tuttora, l'arte di non invecchiare e non morire mai.

Luca Barnabè