rivista anarchica
anno 48 n. 428
ottobre 2018




Sotto il giogo della metafora


1.
Alla cosiddetta “libera” concorrenza delle merci consegue un'implicazione sul versante semantico. Per differenziarle – per “confezionarle” nel modo più opportuno per accalappiare il consumatore – si ricorre anche ai nomi propri. Come i miei genitori mi hanno chiamato Felice per differenziarmi da mio fratello Vincenzo, alla stessa stregua qualcuno ha pensato bene che uno scopino da cesso avrebbe avuto tutto da guadagnare ad essere chiamato “Cucciolo” o una pomata antiemorroidaria a esser chiamata “Anonet”. Si tratta di un processo evolutivo ben individuabile. Se riandiamo con la memoria ai nomi delle automobili – per esempio, alle automobili della Fiat -, prima o poi, ci imbattiamo in quel momento in cui il manufatto che veniva chiamato Fiat 1100 o Fiat 600 prese improvvisamente un nome del genere “Tipo”, o “Panda” o, più recentemente, “Spiaggina”.
Nel passaggio da “Fiat 1100” – o “Fiat 600” o nomi del genere – a “Panda” – o nomi del genere – il rapporto con il referente va a farsi benedire – non si allude più a nessuna caratteristica tecnica del prodotto, ma si attinge ad un repertorio di valori già valorizzati in positivo e del tutto estranei a ciò di cui effettivamente si sta parlando. Per esempio, al Panda, animale che, essendo in via di estinzione, è chiamato alla rappresentazione simbolica del rispetto ecologico. Il che è esattamente il contrario di ciò che fa – di ciò che è – un'automobile (che, alla faccia del proprio prefisso, da sé non si muove di certo).

2.
Le leggi promulgate da uno Stato sono numerate e datate. Il che è sufficiente per la loro individuazione. Tuttavia, nel corso degli anni, ad alcune leggi è capitato di essere battezzate variamente. Quando, nel 1953, la Democrazia Cristiana tentò di far approvare un “premio di maggioranza” in funzione anticomunista, si parlò di “Legge Truffa” (va detto che, recentemente, è stata festosamente approvata una legge ancora peggiore senza che nessuno o quasi abbia trovato niente da ridire e, conseguentemente, senza battesimi negativi di sorta). Negli anni scorsi è stata approvata una “Legge della Buona Scuola” e, nell'estate del 2018, si parla molto di un “Decreto Dignità”.
Anche in questo caso, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare un'evoluzione: mentre un tempo i nomi – anzi, i nomignoli – venivano assegnati alle leggi direttamente dal popolo che doveva subirle, ovvero dai governati, oggi i nomignoli vengono già assegnati dai governanti stessi. Preventivamente, viene praticata una profilassi semantica che faccia argine a qualsiasi battesimo che implichi valorizzazioni in negativo. Bene o male, in un modo o in un altro, la legge deve essere chiamata e questo servizio viene già offerto da chi la legge l'ha promulgata. Così, anche chi volesse dire che “la legge sulla Buona Scuola fa schifo” deve definirla come “Buona Scuola” e così, ugualmente, chi volesse dire che il “Decreto Dignità” non salvaguarda la dignità di nessuno deve comunque definirlo “Decreto Dignità”.

3.
A fronte di questi esempi di logica rovesciata – a tutto danno di chi è governato nelle idee e nei consumi -, siamo però tutti in grado di riscontrare un caso di tenacia se non encomiabile davvero notevole. Cambiano i governi, al potere ci va perfino chi è sempre stato tenuto ai margini – temuto e vilipeso, insultato e massacrato di valorizzazioni negative -, ma come questi, da governato diventa governante, mantiene le stesse abitudini di chi ha sostituito. Come Renzi aveva battezzato la legge della “Buona Scuola”, Salvini e Di Maio hanno battezzato il decreto “Dignità”.

4.
L'eufemismo (il prefisso “eu”, “bene”, l'indoeuropeo “pheme”, “cosa detta”, la sostituzione di una parola - considerata inappropriata non alla designazione ma a coloro ai quali si comunica - con un'altra) può essere considerato un caso particolare di metafora. Come tale rappresenta dunque una prima forma di asimmetria tra i parlanti. Trasgredendo il rapporto semantico istituito tra un designante e un designato – un rapporto verso il quale usando socialmente del linguaggio si assume un impegno -, chi produce metafore impone il proprio potere sull'altro. Producendo eufemismi spaccia una visione del mondo o quantomeno brandelli di ideologia: decide lui se l'interlocutore è all'altezza della designazione o, invece, può offendersene; decide lui o, meglio, la società di cui fa parte – la società nei cui valori si riconosce - cosa è opportuno dire o non dire, nominare propriamente o meno, nelle circostanze relazionali che sta vivendo – e governando.
Mi piacerebbe, ma credo di dover rinunciare alla possibilità di vincolare ad un posto e ad un momento la prima metafora e, tantomeno, il primo eufemismo. Di certo, l'umanità così come ne abbiamo esperienza noi oggi, ne ha sempre sentito la necessità. Nel libro della Genesi (6, 2) si racconta di un episodio poco edificante concernente la vita sessuale degli angeli. “Quando gli uomini incominciarono ad essere numerosi su la terra ed ebbero figliole, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero in moglie tutte quelle che piacquero loro”. È evidente che quel “prendere in moglie” sia un eufemismo – che, con il senno e le convenienze di poi, sia più opportuno di un “abusare sessualmente”; ma anche quei “figli di Dio” suonano più che sospetti – “angeli” o “stupratori” ricategorizzati come “figli di Dio”?
Fin dall'antichità si è tentato di spiegare il bisogno di metafore – questa trasgressione del rapporto semantico istituito e mantenuto ai fini del buon esito della comunicazione sociale – come un'esigenza di “novità”. L'essere umano cercherebbe il “nuovo” per natura e questo “nuovo” avrebbe grandi attrattive. È una spiegazione che, stendendo un velo sui rapporti di forza impliciti in ogni relazione, sembra perfetta per giustificare, al contempo dell'uso e dell'abuso delle parole, l'uso e l'abuso delle merci. Il consumismo non è questione che riguardi solo i beni eletti a beni economici.

5.
Che l'uso di una metafora – per la sua radice politica – preveda un'assunzione di responsabilità da parte del suo creatore è particolarmente evidente nell'ambito della filosofia. L'uso metaforico del verbo “conoscere”, per esempio, che, dal designare un confronto tra due ripetizioni situate in un due momenti diversi, passa a designare il confronto tra due ripetizioni situate in due posti diversi (un “esterno” a noi e un “interno” a noi), costituisce il nucleo di ogni teoria della conoscenza. Da lì si è preteso, si pretenderebbe e si pretenderà di ratificare qualcosa come “reale” o “non reale” – e come “vero” e come “falso” sul piano delle asserzioni – ma dimenticando che, comunque, quell'”esterno” è frutto di operazioni mentali di qualcuno e che, pertanto, non è possibile esplicitare alcun criterio che valga per tutti. Come ho più volte sottolineato, sarebbe come chiedersi com'è il risultato di una percezione senza che ci sia qualcuno a percepire – o com'è il risultato di una percezione senza che questi venga attribuito a qualcuno in particolare ma, come risultato obbligatorio, a tutti. Ogni metafora – potrebbe esser questa la conclusione – è pericolosa – perché, se vuol mantenere in atto la relazione, obbliga l'interlocutore a far sue operazioni mentali di un altro -, ma esiziale è la metafora che, non designando alcunché di riconducibile ad operazioni mentali condivisibili – rimanendo puro “Verbo” autorevole – annichilisce l'interlocutore.

6.
Un caso esemplare della più raffinata tecnica di subordinazione – e di autosubordinazione – è quella del mistico tedesco Johannes Eckhart, il “Meister”, il Gran Maestro, (1260-1328), “C'è una potenza nell'anima, l'intelletto”, dice nei suoi Sermoni tedeschi (Adelphi, Milano 2001), “che fin dall'inizio, appena prende coscienza di Dio o lo gusta, ha in sé cinque proprietà”. Se ne noti la definizione: “La prima è quella di esser libera dal qui e dall'ora. La seconda è quella di avere somiglianza con niente. La terza è quella di essere pura e senza commistione. La quarta è quella di essere operante o ricercante in sé stessa. La quinta è quella di essere un'immagine”. Immagine di che – se prima abbiamo soltanto “tolto”? E come farò a riconoscere qualcosa per la sua “somiglianza con niente”? Al filosofo – mistico o men mistico che sia - è permesso tutto: dire niente sembrando di dire granché, contraddirsi, usare le parole al di fuori di ogni impegno semantico, propinare eufemismi. Servendo sempre e comunque il Potere, sapendolo o no.

Felice Accame