Sotto il giogo della metafora
1.
Alla cosiddetta “libera” concorrenza delle merci
consegue un'implicazione sul versante semantico. Per differenziarle
– per “confezionarle” nel modo più
opportuno per accalappiare il consumatore – si ricorre
anche ai nomi propri. Come i miei genitori mi hanno chiamato
Felice per differenziarmi da mio fratello Vincenzo, alla stessa
stregua qualcuno ha pensato bene che uno scopino da cesso avrebbe
avuto tutto da guadagnare ad essere chiamato “Cucciolo”
o una pomata antiemorroidaria a esser chiamata “Anonet”.
Si tratta di un processo evolutivo ben individuabile. Se riandiamo
con la memoria ai nomi delle automobili – per esempio,
alle automobili della Fiat -, prima o poi, ci imbattiamo in
quel momento in cui il manufatto che veniva chiamato Fiat 1100
o Fiat 600 prese improvvisamente un nome del genere “Tipo”,
o “Panda” o, più recentemente, “Spiaggina”.
Nel passaggio da “Fiat 1100” – o “Fiat
600” o nomi del genere – a “Panda” –
o nomi del genere – il rapporto con il referente va a
farsi benedire – non si allude più a nessuna caratteristica
tecnica del prodotto, ma si attinge ad un repertorio di valori
già valorizzati in positivo e del tutto estranei a ciò
di cui effettivamente si sta parlando. Per esempio, al Panda,
animale che, essendo in via di estinzione, è chiamato
alla rappresentazione simbolica del rispetto ecologico. Il che
è esattamente il contrario di ciò che fa –
di ciò che è – un'automobile (che, alla
faccia del proprio prefisso, da sé non si muove di certo).
2.
Le leggi promulgate da uno Stato sono numerate e datate. Il
che è sufficiente per la loro individuazione. Tuttavia,
nel corso degli anni, ad alcune leggi è capitato di essere
battezzate variamente. Quando, nel 1953, la Democrazia Cristiana
tentò di far approvare un “premio di maggioranza”
in funzione anticomunista, si parlò di “Legge Truffa”
(va detto che, recentemente, è stata festosamente approvata
una legge ancora peggiore senza che nessuno o quasi abbia trovato
niente da ridire e, conseguentemente, senza battesimi negativi
di sorta). Negli anni scorsi è stata approvata una “Legge
della Buona Scuola” e, nell'estate del 2018, si parla
molto di un “Decreto Dignità”.
Anche
in questo caso, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare
un'evoluzione: mentre un tempo i nomi – anzi, i nomignoli
– venivano assegnati alle leggi direttamente dal popolo
che doveva subirle, ovvero dai governati, oggi i nomignoli vengono
già assegnati dai governanti stessi. Preventivamente,
viene praticata una profilassi semantica che faccia argine a
qualsiasi battesimo che implichi valorizzazioni in negativo.
Bene o male, in un modo o in un altro, la legge deve essere
chiamata e questo servizio viene già offerto da chi la
legge l'ha promulgata. Così, anche chi volesse dire che
“la legge sulla Buona Scuola fa schifo” deve definirla
come “Buona Scuola” e così, ugualmente, chi
volesse dire che il “Decreto Dignità” non
salvaguarda la dignità di nessuno deve comunque definirlo
“Decreto Dignità”.
3.
A fronte di questi esempi di logica rovesciata – a tutto
danno di chi è governato nelle idee e nei consumi -,
siamo però tutti in grado di riscontrare un caso di tenacia
se non encomiabile davvero notevole. Cambiano i governi, al
potere ci va perfino chi è sempre stato tenuto ai margini
– temuto e vilipeso, insultato e massacrato di valorizzazioni
negative -, ma come questi, da governato diventa governante,
mantiene le stesse abitudini di chi ha sostituito. Come Renzi
aveva battezzato la legge della “Buona Scuola”,
Salvini e Di Maio hanno battezzato il decreto “Dignità”.
4.
L'eufemismo (il prefisso “eu”, “bene”,
l'indoeuropeo “pheme”, “cosa detta”,
la sostituzione di una parola - considerata inappropriata non
alla designazione ma a coloro ai quali si comunica - con un'altra)
può essere considerato un caso particolare di metafora.
Come tale rappresenta dunque una prima forma di asimmetria tra
i parlanti. Trasgredendo il rapporto semantico istituito tra
un designante e un designato – un rapporto verso il quale
usando socialmente del linguaggio si assume un impegno -, chi
produce metafore impone il proprio potere sull'altro. Producendo
eufemismi spaccia una visione del mondo o quantomeno brandelli
di ideologia: decide lui se l'interlocutore è all'altezza
della designazione o, invece, può offendersene; decide
lui o, meglio, la società di cui fa parte – la
società nei cui valori si riconosce - cosa è opportuno
dire o non dire, nominare propriamente o meno, nelle circostanze
relazionali che sta vivendo – e governando.
Mi piacerebbe, ma credo di dover rinunciare alla possibilità
di vincolare ad un posto e ad un momento la prima metafora e,
tantomeno, il primo eufemismo. Di certo, l'umanità così
come ne abbiamo esperienza noi oggi, ne ha sempre sentito la
necessità. Nel libro della Genesi (6,
2) si racconta di un episodio poco edificante concernente la
vita sessuale degli angeli. “Quando gli uomini incominciarono
ad essere numerosi su la terra ed ebbero figliole, i figli di
Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero
in moglie tutte quelle che piacquero loro”. È evidente
che quel “prendere in moglie” sia un eufemismo –
che, con il senno e le convenienze di poi, sia più opportuno
di un “abusare sessualmente”; ma anche quei “figli
di Dio” suonano più che sospetti – “angeli”
o “stupratori” ricategorizzati come “figli
di Dio”?
Fin dall'antichità si è tentato di spiegare il
bisogno di metafore – questa trasgressione del rapporto
semantico istituito e mantenuto ai fini del buon esito della
comunicazione sociale – come un'esigenza di “novità”.
L'essere umano cercherebbe il “nuovo” per natura
e questo “nuovo” avrebbe grandi attrattive. È
una spiegazione che, stendendo un velo sui rapporti di forza
impliciti in ogni relazione, sembra perfetta per giustificare,
al contempo dell'uso e dell'abuso delle parole, l'uso e l'abuso
delle merci. Il consumismo non è questione che riguardi
solo i beni eletti a beni economici.
5.
Che l'uso di una metafora – per la sua radice politica
– preveda un'assunzione di responsabilità da parte
del suo creatore è particolarmente evidente nell'ambito
della filosofia. L'uso metaforico del verbo “conoscere”,
per esempio, che, dal designare un confronto tra due ripetizioni
situate in un due momenti diversi, passa a designare il confronto
tra due ripetizioni situate in due posti diversi (un “esterno”
a noi e un “interno” a noi), costituisce il nucleo
di ogni teoria della conoscenza. Da lì si è preteso,
si pretenderebbe e si pretenderà di ratificare qualcosa
come “reale” o “non reale” – e
come “vero” e come “falso” sul piano
delle asserzioni – ma dimenticando che, comunque, quell'”esterno”
è frutto di operazioni mentali di qualcuno e che, pertanto,
non è possibile esplicitare alcun criterio che valga
per tutti. Come ho più volte sottolineato, sarebbe come
chiedersi com'è il risultato di una percezione senza
che ci sia qualcuno a percepire – o com'è il risultato
di una percezione senza che questi venga attribuito a qualcuno
in particolare ma, come risultato obbligatorio, a tutti. Ogni
metafora – potrebbe esser questa la conclusione –
è pericolosa – perché, se vuol mantenere
in atto la relazione, obbliga l'interlocutore a far sue operazioni
mentali di un altro -, ma esiziale è la metafora che,
non designando alcunché di riconducibile ad operazioni
mentali condivisibili – rimanendo puro “Verbo”
autorevole – annichilisce l'interlocutore.
6.
Un caso esemplare della più raffinata tecnica di subordinazione
– e di autosubordinazione – è quella del
mistico tedesco Johannes Eckhart, il “Meister”,
il Gran Maestro, (1260-1328), “C'è una potenza
nell'anima, l'intelletto”, dice nei suoi Sermoni
tedeschi (Adelphi, Milano 2001), “che fin dall'inizio,
appena prende coscienza di Dio o lo gusta, ha in sé cinque
proprietà”. Se ne noti la definizione: “La
prima è quella di esser libera dal qui e dall'ora. La
seconda è quella di avere somiglianza con niente. La
terza è quella di essere pura e senza commistione. La
quarta è quella di essere operante o ricercante in sé
stessa. La quinta è quella di essere un'immagine”.
Immagine di che – se prima abbiamo soltanto “tolto”?
E come farò a riconoscere qualcosa per la sua “somiglianza
con niente”? Al filosofo – mistico o men mistico
che sia - è permesso tutto: dire niente sembrando di
dire granché, contraddirsi, usare le parole al di fuori
di ogni impegno semantico, propinare eufemismi. Servendo sempre
e comunque il Potere, sapendolo o no.
Felice Accame
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