Genova
Una mentalità insostenibile
di Adriano Paolella
Il crollo del viadotto sul Polcevera mette a nudo le scelte di fondo operate fin dagli anni '60, tutte all'interno di una mitizzazione della potenza dell'ingegneria civile e di un modello sociale basato sul trasporto automobilistico, sull'intoccabilità dei modelli urbani e sulla non-considerazione degli interessi e dei diritti delle popolazioni locali. Sullo sfondo, il modello del Vajont con i suoi duemila morti. È indispensabile ripensare il modello di sviluppo, in particolare nei trasporti. Collegandolo a nuovi modi di concepire e vivere gli insediamenti.
La bell'opera
La tragedia del Polcevera potrebbe mettere in evidenza una serie di errori e di strumentalizzazioni che hanno caratterizzato le scelte infrastrutturali del nostro Paese e di cui paghiamo quotidianamente gli effetti negativi.
Il viadotto, come a tutti noto, è stato progettato e costruito negli anni sessanta per rispondere ad un problema di collegamento tra parti della città, tra esse e l'esterno dell'area urbana, tra il nord del Paese e la Francia. Il viadotto è quindi un intervento a posteriori, che tentava almeno di mitigare gli effetti negativi sulla mobilità generati dalla casualità con cui edifici e opifici erano stati collocati nel territorio.
Era il decennio delle grandi opere di ingegneria, l'epoca per capirsi della diga del Vajont, dell'Autostrada del Sole con i suoi viadotti e con i suoi ristoranti “panoramici” collocati a cavallo dell'autostrada. Si credeva nella capacità risolutiva dell'opera di ingegneria che da sola permetteva di superare fiumi, bloccare le acque, sospendere ristoranti e che poteva essere “bella”. L'ingegneria ben rappresentava la capacità del Paese di trovare soluzioni moderne ed è in questo clima che si inserisce a pieno titolo l'ardito progetto di Morandi: un ponte senza massa, con le travi e i tiranti dimensionate per rispondere a specifiche e definite sollecitazioni.
Simbolo delle capacità tecnica e del “bello” ingegneristico è stato, come molte altre opere pubbliche, linfa vitale per alimentare una demagogia politica e culturale tesa a mostrare un paese in cambiamento, moderno, veloce e a sostenere le opere pubbliche come strumento di promozione economica e culturale.
Oltre l'opera
Il viadotto è stato progettato concentrando l'interesse sulle soluzioni costruttive confidando nella demiurgica capacità risolutiva dell'opera. In questa impostazione il contesto è ignorato o considerato un impedimento alla realizzazione. Così il viadotto passa sulle case perché è l'opera che ha la qualità (e che dà qualità al contesto), che permette la risposta alla domanda di mobilità degli abitanti di Genova, anche se gli abitanti individualmente non contano nulla. E quando questi si lamentano, si dichiara che sono affetti dalla sindrome di Nimby (Not in My Backyard, non nel mio giardino) e il viadotto, così come la tangenziale di Roma (che passa attaccata alle finestre – necessariamente chiuse – del terzo piano di edifici abitati), è stato uno dei più palesi esempi di come si possano ignorare le esigenze e i diritti delle persone.
Ma Genova è una città industriale e molti dei suoi abitanti si riconoscono maggiormente nel viadotto che nelle fatiche che esso ha comportato per chi ci ha vissuto sotto. Strutture ignoranti, così come ignorante è la diga del Vajont che non ha voluto saperne di una frana che avrebbe riempito il suo invaso e causato la morte di più di duemila persone.
Non solo. Il viadotto risolve un problema mal impostato perché non ricercando soluzioni al di fuori della mobilità su gomma ne potenzia lo sviluppo facilitando l'uso degli autoveicoli, rendendo possibile i collegamenti con nuovi insediamenti, senza però riuscire nel tempo a soddisfare l'ulteriore domanda creata (è la storia dei continui ampliamenti del Grande Raccordo Anulare di Roma arrivato ora a tre corsie per senso di marcia più corsia d'emergenza e con molti tratti a quattro corsie complanari che, facilitando i collegamenti stradali con insediamenti lontani dalla città consolidata, ha permesso la continua espansione della città e la valorizzazione fondiaria rimanendo, nonostante gli ampliamenti, sempre con un traffico congestionato).
Si abbattono le case. È una vera beffa
Intorno al Polcevera in questo periodo si è ovviamente
parlato molto: da coloro i quali, come sceriffi nel far west,
cercano responsabili, a quelli che lodano le soluzioni ingegneristiche
adottate è palese la diffusa permanenza della medesima
cultura che ha prodotto il Polceveda e che ne ha consentito
il crollo.
Sì, perché il crollo probabilmente dipende da
una mancanza di adeguate verifiche, da un progetto che ha svuotato
il manufatto rendendolo più sensibile alla modificazione
delle quantità e tipologia di traffico per cui era stato
progettato (modificazione della consistenza e distribuzione
dei carichi nel tempo), da interessi volti a risparmiare sulla
manutenzione o a far costruire nuove strade, ma principalmente
dalla demagogia, autoritarismo e ignoranza che si miscelano
in un cocktail letale che condiziona l'esistenza delle persone.
La presenza di tale mentalità è confermata dalla
completa equivalenza tra le scelte degli anni sessanta e quelle
attuali. Si ricostruisce il viadotto, ovvero si ripropone la
stessa soluzione di 50 anni fa senza avere verificato se sussistono
soluzioni alternative, senza verificare la possibilità
di miglioramento del sistema della mobilità.
Il Commissario speciale fa proprio il progetto per il nuovo
viadotto dell'arch. Piano (uno dei maggiori architetti contemporanei)
applicando gli stessi criteri con sui si affidò a Morandi
(uno dei più grandi ingegneri al mondo) il progetto del
viadotto precedente; come se il nome del progettista qualificasse
il progetto e il manufatto avesse ancora più importanza
rispetto al progetto del sistema in cui essa si inserisce (e
si parla di nuovo di “bellezza”, di “visibilità”)
Si abbattono le case (ed è questa una vera e propria
beffa: le case c'erano, è arrivato il viadotto che le
ha ignorate, il viadotto è crollato e si abbattono le
case). Si parla della collocazione degli abitanti in edifici
esistenti collocati altrove: non un progetto per la ricomposizione,
con quegli abitanti e in quel luogo, di uno spazio teso a ricomporre
le comunità (sarà Nimby o l'incredibile
incapacità di comprendere le persone e i luoghi).
Infine in molti sostengono che le infrastrutture abbiano una
durata temporale al termine della quale sia necessario abbatterli
e ricostruirli. Di fatto è un'applicazione alle opere
pubbliche dell'obsolescenza programmata ideata per vendere gli
stessi oggetti (leggermente innovati) agli stessi acquirenti
in un sistema che attraverso la continua crescita della produzione
trae profitti dagli sprechi.
Si continua a promuovere un modello unico di infrastrutturazione
senza alcun dubbio sulla sua efficacia mentre, proprio approfittando
delle crisi del modello, si dovrebbe invece ragionare su opere
pubbliche a bassa manutenzione (ad esempio, meno viadotti e
più bassi, i tracciati poggiati sui terreni, minori costi
di manutenzione), riduzione della quantità di strade
(ve ne sono in eccedenza) concentrandosi con una maggiore attenzione
su quelle necessarie.
Non si verificano sistemi diversi per spostare merci e individui
(da quelli già studiati negli anni settanta – crisi
energetica – come camion sui vagoni a altre e innovative
forme di mobilità pubblica, fino a realizzare marciapiedi
e piste ciclabili per le persone e ferrovie per le merci).
Non si limita l'industria automobilistica che nel corso degli
anni ha aumentato dimensioni e peso degli autoveicoli e dimensioni,
peso e distribuzione dei carichi per l'autotrasporto incidendo
negativamente sulle infrastrutture.
Non ci si interessa delle città come se non vi fosse
una stretta relazione tra infrastrutture di trasporto e localizzazione
degli insediamenti.
Le città sono intoccabili, il loro funzionamento immodificabile,
i vettori della mobilità insostituibili. Così
dopo cinquant'anni si ripropone lo stesso viadotto, nello stesso
posto, con la stessa funzione, lo stesso sistema di mobilità,
lo stesso rapporto con gli abitanti, la stesso rapporto tra
infrastrutture porto e città.
La nuova infrastrutturazione: ridurre, sostituire, rispristinare
Nei decenni successivi agli anni sessanta la demagogia connessa alle opere pubbliche è rimasta immutata, ma la parte tecnica e il “bello” ingegneristico sono stati sempre più banalizzati e offuscati dal principale interesse ad ottenere i massimi profitti con il minimo impegno.
Non solo, ma visto che le opere pubbliche erano ritenute necessarie allo sviluppo economico del Paese, esse sono state costruite anche quando non servivano, unendo alla banalità tecnica l'inutilità (si veda, ad esempio, l'autostrada Roma-Teramo – ancora oggi dopo trent'anni semi-deserta – che unisce la Capitale con una cittadina di 50.000 abitanti attraversando con una galleria il più grande massiccio dell'Appennino e raddoppiando nella sua funzione di collegamento Tirreno-Adriatico la Roma-Pescara, posta a poche decine di chilometri più a sud), il sovradimensionamento (si veda, ad esempio, la TAV che è costata decine di volte di più dell'alta velocità francese perché viaggia su piloni in cemento armato alti otto metri mentre la francese è poggiata a terra) e in molti casi la non rispondenza ai requisiti tecnici minimi (si veda, ad esempio, la frana che ha interessato subito dopo l'inaugurazione il viadotto Imera dell'Autostrade Siciliane o i rilevati che si muovono della Firenze-Pisa-Livorno).
Nonostante la palese inutilità di alcune di esse, la modesta tecnica, lo scarso utilizzo, le frequenti pessime realizzazioni, l'evidenza dell'interesse a fare lievitare i costi più che a rispondere a effettive esigenze, le profonde trasformazioni territoriali derivanti dalla loro presenza, le opere pubbliche e in particolar modo quelle connesse alla viabilità stradale sono ritenute da buona parte dei politici (ma anche da molte persone) lo strumento e la rappresentazione massima dello sviluppo, così che ancora oggi, nonostante l'elevata densità di infrastrutture, il loro stato di degrado, la loro sottoutilizzazione, si parla della necessità di infrastrutturare il territorio.
Si dovrebbe al contrario avviare un opera di revisione per capire quali siano le opere che non servono più, di eliminazione di quanto non è utilizzato o è sottoutilizzato e la cui inutile manutenzione grava sulla collettività. Eliminare e non riparare quello che non serve e quando indispensabile (ed energeticamente conveniente) sostituirlo con soluzioni meno onerose da gestire.
Per quanto riguarda la viabilità, questo forse consentirebbe un ripensamento sulla forma e le modalità insediative e faciliterebbe la riduzione dello sprawl (dispersione urbana); le strade porterebbero di nuovo in posti precisi e non in territori distrattamente costruiti, e ciò faciliterebbe la riduzione delle emissioni e faciliterebbe il cambiamento dei vettori della mobilità.
Ci sono i cambiamenti climatici che ci obbligherebbero a queste scelte, a questi ripensamenti e ogni occasione dovrebbe essere utilizzata per cambiare e non per confermare le stesse scelte insostenibili già percorse.
Adriano Paolella
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