Graphic novel/
Il '68 secondo Manfredi
C'è un punto in cui si comprende la forza specifica
di Cani sciolti (Sergio Bonelli Editore, Milano 2018,
pg. 129, € 19,00), la graphic novel di Manfredi e Casalanguida
sul '68 milanese. Dagli eventi raccontati nella prima parte
sono passati vent'anni; uno dei protagonisti, Paolo, torna nel
Piemonte natio e discute con il padre partigiano di una sua
battaglia sulle colline. Il racconto è emozionante ma
depurato da ogni retorica: nonostante Paolo incalzi il padre,
lui si limita a riportare i fatti e aggiungere che l'eroismo
non c'entra niente – che la guerra è brutta, una
porcheria. La scena si chiude con un abbraccio fra i due.
Qui
si coglie la forza di Cani sciolti, dicevo; per due motivi.
Il primo è il modo in cui Manfredi scioglie la storia
principale – le avventure di sei studenti nel 1968, fra
occupazioni, lotte e amori; e il loro ricordo vent'anni dopo
– in alcune linee laterali e flashback che fungono da
complemento. Il secondo motivo è l'assenza totale di
patina celebrativa: qualsiasi fatto raccontato conserva un suo
pudore primigenio, una bellezza al riparo dall'ideologia che
pure in quegli anni abbondava. Nonostante di Storia ce ne sia,
in Cani sciolti, a restare impresse sono le immagini
private, spesso cariche di delicata ironia: come scrive Manfredi
nella nota a fine volume, “le sfumature intermedie, i
momenti di melanconia, quelli di tenerezza, [...] le differenze
di carattere, i piccoli litigi, le incomprensioni che segnano
le relazioni umane”.
E allora non è un caso che la musica – una presenza
molto forte e continua – comprenda canzoni del movimento
come brani più leggeri e pop. Non è un caso che
i protagonisti siano appunto cani sciolti, fuori da ogni
gruppo organizzato, e di estrazione sociale assai diversa. Non
è un caso che tanto spazio venga dato a Milano, vera
protagonista ulteriore cui sono dedicate alcune bellissime vignette
mute: la Milano del centro, di sant'Ambrogio e del Duomo, del
bar Magenta e della Statale; e quella dei quartieri popolari,
delle case di ringhiera e delle latterie dove si parla in dialetto.
E nemmeno è un caso, infine, che le due parti del fumetto
siano legate da una figura essenziale quanto sfuggente, quella
del fotografo Italo Rossini: un testimone in presa diretta prima
e il custode della memoria dopo. Dove siete? è
il titolo di uno scatto che ritrae i sei protagonisti da giovani.
Nel 1988 Margherita chiede a Italo se il senso della domanda
sia politico – se il fotografo rimpianga la rivoluzione
perduta. No, risponde lui: è un semplice appello a quei
ragazzi. Ancora una volta le singole esistenze, nella loro complessità
irriducibile, prendono il sopravvento sull'ideologia. E questo,
per quanto mi riguarda, è il segno di una narrazione
autentica, ben riuscita e senza secondi fini.
Ma Cani sciolti è una narrazione a fumetti, ed
è bene dire qualcosa anche su questo. Sempre nella nota
conclusiva, Manfredi osserva che il format della storia differisce
“da quello tradizionale a tre strisce e minutamente sequenziale
cui sono abituati i lettori bonelliani”. È vero,
la griglia del fumetto conosce maggiori libertà rispetto
a un Dylan Dog o a un Tex – ma dopotutto
non molte. Il ritmo della narrazione, l'impostazione di massima
e soprattutto il tratto (nitido e molto espressivo) di Casalanguida
restano interamente bonelliani. E questo è straniante:
per il '68 ci si potrebbe aspettare gabbie grafiche esplose,
perfino un tocco di psichedelia: Manfredi e Casalanguida invece
impostano la storia secondo canoni classici. Il risultato però
funziona egregiamente: oserei dire che funziona proprio per
il suo realismo sobrio, per la bellezza semplice e diritta delle
immagini, dei dettagli, delle espressioni. Tutto è visibile
e, ancora una volta, privo di retorica. Non era facile, considerato
il tema.
Cani sciolti dà il via a una miniserie che aspettiamo
con ansia, dopo questo primo episodio. In attesa del resto,
un piccolo suggerimento: leggere il volume di fianco a un altro
libro di Manfredi, stavolta interamente scritto e non a fumetti:
Ma chi ha detto che non c'è – il più
bel saggio uscito l'anno scorso sul '77. Due momenti topici,
che per molti versi inaugurano e concludono una grande stagione
di rivolta, completandosi quasi a vicenda.
Giorgio Fontana
Strage di Brescia 1974/
Ma gli anni che scorrono non mitigano
Redento
Peroni, la voce narrante del bel romanzo di Marco Archetti Una
specie di vento (Chiarelettere, Milano 2018, pgg. 192, €
16,00) è un sopravvissuto.
Il caso ha giocato la sua carta 44 anni fa: “Ragazzo vieni
sotto il portico chè piove”, una frase, un passo,
un gesto che determinano la vita o la morte e che ti tengono
inchiodato a quell'attimo da quel 28 maggio del 1974 quando
una bomba, nascosta in un cestino dei rifiuti, esplode, durante
una manifestazione antifascista, in piazza della Loggia a Brescia,
uccidendo 8 persone e ferendone più di cento.
Redento rimane ferito, nel fisico e nell'animo, profondamente.
Non potrà mai dimenticare, diventando, suo malgrado ma
consapevolmente, una delle voci che permetteranno di portare
avanti l'impegno per una verità che sia giustizia, per
una memoria che non sia commemorazione, proseguendo in un percorso
che dalle ferite ricevute trova ragione nel racconto trasmesso,
nella verità non cancellabile o amputabile in sentenze
di tribunale che latitano e in omissioni e depistaggi che dilatano
e annebbiano come lo scorrere degli anni.
Quando “gli occhi azzurri di figlio” diventano “gli
occhi azzurri di nonno”, bisogna trovare la forza di raccontare
ai nipoti, a chi ancora vuole sapere, così che la storia
trovi posto nella Storia.
Alla sua voce si intercalano quelle di coloro che persero la
vita in quell'attentato, non numeri della tragica contabilità
delle stragi, ma persone. Allora Vittorio Zambarda, Euplo Natali,
Giulietta Banzi, Alberto Tedeschi, Clementina Calzari, Livia
Bottardi, Bartolomeo Talenti, Luigi Pinto si raccontano nel
loro breve passaggio in vita, non eroi o santi, ma donne e uomini
che amavano, studiavano, lavoravano, con aspirazioni e ideali
che erano impegno quotidiano e che, come Redento o Manlio che
sopravvissero, quel giorno non potevano che essere lì,
in quella piazza.
È un bel lavoro questo libro di Marco Archetti, scrittore
bresciano nato nel 1976. Con una scrittura fluida e scegliendo
la forma del romanzo non solo dà voce ai protagonisti,
restituendoli nella loro umanità, ricreando atmosfere
e intensità, senza retorica o stucchevole enfasi, ma
non tralasciando di raccontare il dipanarsi negli anni della
ricostruzione giudiziaria, i colpevoli silenzi, le sentenze,
le prime condanne a oltre 40 anni, costruisce un libro che è
un racconto lucido e un documento importante. Ci sono eventi
che segnano in maniera indelebile persone e luoghi e gli anni
che scorrono non mitigano, soprattutto se la storia non insegna
a dire mai più.
Claudia Pinelli
Pedagogia/
La valutazione come management della vita
Quando una misura diventa un obiettivo, cessa di essere
una misura utile.1
Il primo equivoco da dissipare è quello di confondere
la pratica della valutazione corrente che è parte integrante
della nostra capacità di giudizio razionale, con quella
“tirannia della valutazione” che ormai è
dominante in ogni ambito, sociale, economico, politico, psicologico.
In fondo noi tutti compiamo un'operazione di valutazione quando
ci esprimiamo positivamente o negativamente su un film che abbiamo
visto o sull'ultimo libro che abbiamo letto. In questo non solo
non c'è nulla di male, ma anzi in una certa misura è
un esercizio necessario per scegliere cosa ci piace e che cosa
no, come vogliamo vivere, cosa vogliamo condividere con gli
altri.
Ma lo scopo delle nostre valutazioni non è quello di
stabilire una norma a cui tutti debbano adeguarsi, tantomeno
di utilizzarle come strumento di dominio per stabilire una gerarchia
sociale ed economica e neppure di spacciarle per “valutazioni
oggettive”, sottratte quindi a loro volta a ogni valutazione.
Come funziona questo trucco che trasforma il conferire valore
a qualcosa in uno strumento di controllo sempre più capillare
sulle nostre vite?
Lo spiega bene Angélique Del Rey (La tirannia della
valutazione, Elèuthera, Milano 2018, pgg. 190, €
15,00): “Quando le nuove forme di valutazione, grazie
alla statistica matematica, affermano di avere valore dimostrativo
al pari delle scienze della natura, mascherano piuttosto l'esistenza
di punti di vista molteplici e tra loro irriducibili, presentandosi
come “un punto di vista senza collocazione”, che
supera tutti gli altri, “relativi” a questo a quell'individuo,
a questa o quella professione a questo o a quel vissuto, a questa
o a quella esperienza”2.
Insomma un bel gioco delle tre carte che mira a nascondere le
intenzioni, gli scopi, i punti di vista, le scelte, spacciandole
per oggettive. È in fondo la versione secolarizzata del
punto di vista di dio, il gran valutatore che riesce a guardare
le cose da infinite prospettive. Al suo posto gli umani, nella
loro limitatezza, costruiscono geometricamente questo “punto
vista senza collocazione” scomponendo la realtà
in quantità minime misurabili, osservabili, aggregabili
in modi diversi ai fini del controllo e del dominio.
È quella che Foucault aveva definito una strategia dell'esame
che rende visibili i soggetti, costruisce gli individui attraverso
campi documentari (registri, schede, documenti, libretti personali)
sempre più accurati, trasforma ogni individuo in un caso3.
Lo scopo di questa trasformazione è rendere l'uomo economico
e calcolabile.
Oggi più che mai la valutazione è diventata pervasiva
con l'utilizzo di dispositivi che raccolgono i nostri dati e
li convogliano ad altri per fini che non conosciamo se non in
termini generali. L'esempio più ovvio è lo smartphone,
ma lasciamo tracce anche usando il computer, andando al bar
a prendere il caffè ripresi da telecamere ovunque, usando
bancomat: per dirla in modo drastico siamo in una società
del controllo così capillare che nessuno stato prima
d'ora avrebbe potuto mai neanche sognare di ottenere. Il punto
più avanzato è forse il sistema del credito sociale
cinese: sulla base dei dati il governo può punire, incentivare
i cittadini che si comportano bene o male attribuendo loro un
punteggio positivo o negativo a seconda delle azioni che compiono4.
E nell'epoca del neoliberismo la valutazione generalizzata produce
una falsa meritocrazia e una retorica secondo cui l'individuo
diventa “oggettivamente” responsabile del suo insuccesso.
Così si ingenera una nuova forma di “servitù
volontaria” a cui ci si sottomette per meglio adeguarsi
a parametri sociali ed economici.
Non che si abbia molta scelta perché con le nuove spietate
strategie di management ad esempio del lavoro siamo gettati
in una competizione la cui posta in gioco è un salario
da fame e la disoccupazione. In realtà il management
riguarda l'intera vita che attraverso la valutazione si trasforma
in un “bilancio di competenze” che noi stessi cerchiamo
di valorizzare: “un viaggio, la scoperta di un nuovo continente,
di un'altra cultura, la passione per l'astronomia, per le civiltà
antiche, per la filosofia, la paura, l'amore, il fatto di aver
conosciuto una guerra ecc. sono tutte esperienze riducibili,
attraverso la valutazione, a un insieme di competenze acquisite
dall'individuo (dove la vita appare un semplice mezzo per ottenere
queste acquisizioni) su cui può investire personalmente”5.
Ora se la diagnosi è questa, il paziente è curabile?
Intanto il primo passo, come sostiene l'autrice, è smascherare
la presunta oggettività di questa valutazione pervasiva
e tirannica, mostrare il paradigma epistemologico che la sottende
e i giochi di potere di cui è parte integrante, gli effetti
di realtà (agghiaccianti) che produce. Il secondo è
quello della ricerca di un paradigma differente (il riferimento
è alla “complessità”) che “comporta
tra l'altro l'accettazione dell'incertezza e della casualità
(l'imprevedibile), la rivendicazione del conflitto, della variabilità,
della deviazione rispetto alla norma, la ricerca di un'efficacia
situazionale più che globale, il rigetto di una “giustizia”
che mette le persone e le organizzazioni in concorrenza tra
loro, la re-inscrizione dell'uomo (individuo) nel suo ambiente”6.
Un vero e proprio programma di ricerca e lotta che resistendo
alla tirannia, rimette in gioco la forza conflittuale degli
attori sociali.
Filippo Trasatti
- Legge di Goodhart, cit. in Adam Greenfield, Tecnologie
radicali, tr. it. M. Nicoli et al., Einaudi, Torino 2017,
p.258.
https://en.wikipedia.org/wiki/Goodhart%27s_law
- Angelique Del Rey, La tirannia della valutazione, tr. it. di A. L. Carbone, elèuthera, Milano 2018, p. 73.
- Michel Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 202.
- cfr. Greenfield.
- Del Rey, p. 117.
- Del Rey, p. 189.
Sicilia/
Una portaerei in mezzo al mar Mediterraneo
Quello delle basi militari Usa è sempre stato e rimane
un argomento enigmaticamente marginale tanto nel dibattito politico
quanto nella saggistica e nella documentazione sui fattori condizionanti
le dinamiche dei rapporti internazionali. Di fronte a una tradizionale
e continua attenzione ai settori produttivi, finanziari ed economici
del dominio e relativa ipertrofica produzione giornalistica
e saggistica (“se vuoi sapere dove va il mondo devi leggere
le pagine economiche dei giornali!” sentenziano vacui
gli invasati del capitale), è paradossale come sia, rarefatta
se non assente l'informazione sulla massima concentrazione esistente
di potere effettivo, di concreta capacità distruttiva.
Il
libro di Jacqueline Andres (The hub of the Med – Una
lettura della «geografia militare» statunitense
in Sicilia Sicilia Punto L, Ragusa 2018, pp. 151, €
10,00) contiene una asciutta descrizione di un pezzo fondamentale
dell'intricata rete planetaria con la quale gli Usa e i loro
alleati possono mettere in atto quella particolare forma di
neocolonialismo che dai primi anni '90, con la scomparsa della
minaccia comunista sovietica, si sta adoperando per ottenere
un progressivo controllo su Medio Oriente, Africa e in definitiva
sul pianeta intero (fatte salve le riluttanti Russia e Cina,
che si propongono come imperialismi alternativi, e pochi altri
metri quadri).
La Sicilia, piazzata in mezzo al Mediterraneo, è stata
prescelta a partire dal dopoguerra come inaffondabile portaerei
situata a un passo dalle sterminate riserve di petrolio che
hanno contribuito a disegnare la geografia militare del meridione
italiano e del pianeta intero, e la storia delle sue popolazioni.
Con la perdita del ruolo antisovietico della Nato si ha una
ridefinizione della funzione delle basi, visto che non c'è
più da fronteggiare un'eventuale invasione o bombardamenti
nucleari, ma la diffusione e il mantenimento della pax americana,
con la formazione e addestramento delle forze dell'ordine di
paesi subordinati, la repressione di disordini civili, lotta
contro il traffico di droga e così via.
I “provvidenziali” eventi del settembre del 2001
permettono, dopo gli interventi nell'ex-Jugoslavia e in Iraq,
di orientare verso il cosiddetto “terrorismo islamico”
la progettazione delle strutture armate del rinnovato impero.
Il complesso militare-industriale si radica e si ramifica espandendo
le sue attività e la sua presenza a Sigonella, Niscemi,
Augusta, Pachino. Questi centri sono stati e saranno essenziali
per le missioni aeree in Iraq e Afghanistan, per il controllo
del traffico navale del Mediterraneo, per i voli della Cia impegnata
in operazioni segrete-illegali e per ogni evento che riguardi
il fronte africano.
La creazione nel 2007 dell'Africom (U.S. Africa Command) segna
un nuovo passo nella militarizzazione delle relazioni internazionali,
centrando sulla gestione dei flussi migratori e sul conflitto
economico con la Cina - che si proietta con aggressività
sempre più evidente sulle materie prime del Continente
nero - le attività che vedono la Sicilia e Sigonella
in particolare centri nodali delle azioni di guerra, innanzitutto
in Libia e in Somalia, ma non solo. Una lunga serie di nazioni
africane è coinvolta nelle operazioni che transitano
dalla base aerea, a disegnare un quadro che, pur parziale, chiarisce
come ogni idea di sovranità nazionale in Africa o altrove
sia del tutto priva di credibilità, per non dire ridicola.
L'installazione del nodo Muos (colossale sistema di connessione
satellitare tra unità terrestri, navale e aeree) a Niscemi
e la rapidissima conquista della tecnologia dei droni, con Sigonella
implicata praticamente in ogni operazione in questa parte di
mondo è solo l'espressione più eclatante di una
tecnologia militare che sembra al momento inarrestabile.
Di fronte a uno sguardo disincantato fa davvero meraviglia come
raffinati intellettuali sprechino il loro tempo a discutere
sui cambiamenti della politica italiana (ad esempio sull'Africa,
o sui migranti) a seconda se capo del governo sia uomo del PD
o della Lega-5S. Molto più realistiche le parole di Rosario
Crocetta, il presidente della regione Sicilia che nel 2012 aveva
revocato l'autorizzazione per l'installazione del Muos e poi,
nonostante il Tar gli avesse dato ragione respingendo il ricorso
del Ministero della difesa, appena prima dell'appello aveva
“revocato la revoca”. Come ebbe a dire il povero
compagno Crocetta: “Sono seduto su una polveriera: se
si è mossa persino la Cia per far cadere un governo nazionale,
figuriamoci cosa può succedere a un semplice presidente
della regione”.
È stupefacente come - con oltre cento basi americane
sull'intera penisola - ci siano ancora persone convinte che
si possa cambiare le cose andando a votare. Per loro e per chiunque
sia interessato all'essenza del dominio e non alle sue manifestazioni
spettacolari, una lettura indispensabile.
Giuseppe Aiello
“Critica radicale”/
L'esperienza di Ludd alla fine degli anni '60
“... Le donne e gli uomini che si unirono in quei gruppi
sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere
il senso di un vissuto rivoluzionario, diversi concetti che
oggi sembrano evidenti: l'ideologia interpretata come merce
e la merce come ideologia, l'analisi e la critica delle relazioni
sociali basate sullo scambio di apparenze fantasmatiche, la
critica dei ruoli e dello spettacolo sociale... ” (Progetto
Critica Radicale).
Abbiamo
tra le mani un grosso tomo (Leonardo Lippolis, Claudio Ranieri,
La critica radicale in Italia. Ludd 1967-1970, Nautilus,
Torino 2018, pp. 570.+ ill., € 25,00) senz'altro di indiscutibile
valore documentario, che – come in genere si dice in questi
casi – non può mancare nelle biblioteche di studiosi
e specialisti. E si fa soprattutto apprezzare quale ricca rassegna
di fonti soggettive (tale di fatto è, almeno per una
buona metà delle 570 pagine), peraltro di difficile reperimento.
Esso si presenta quindi, in netta prevalenza, come strumento
euristico utile ad imbastire altre eventuali narrazioni, ad
avanzare magari nuove ipotesi interpretative su quell'intenso,
creativo, incredibile e anche per certi versi angosciante quadriennio
italiano (1967-1970), qui ricompreso sotto la denominazione
di lungo termine e onnicomprensiva di “Critica radicale”.
Bene poi precisare, sia sul piano generale del metodo e anche
come nostro particolare punto di vista, che comunque le fonti
si prendono come sono e non ci interessa certo in questa sede
ingaggiare, a distanza di mezzo secolo, una qualsiasi confutazione
ex-post di quei contenuti, che risulterebbe insomma fatta con
gli occhi di oggi e il senno di poi.
La riproduzione, anche anastatica, di una miriade di documenti
è preceduta da saggi di Leonardo Lippolis e di Paolo
Ranieri. Il primo autore (L'occupazione definitiva del nostro
tempo) ci fornisce, in una sorta di sintesi storica, una
mappa che si può rivelare di aiuto alla successiva lettura
dei testi prodotti da gruppi, persone, situazioni e sigle varie.
Il secondo (Vecchie favole intorno a un giovane fuoco. Ricordi
del mio tragitto attraverso Ludd-Consigli Proletari, insieme
con alcune riflessioni che ne ho ricavato) ci offre invece
un'interessante riflessione autobiografica in chiave attuale
su quei movimenti, che sono ritenuti a tutti gli effetti “precursori”
dell'antipolitica e dell'approccio antiideologico contemporaneo,
assunto su cui non tutti potranno essere d'accordo.
Questo lavoro fa parte di un ampio progetto editoriale di Nautilus
che comprende ben tre volumi. Ludd è il primo e annovera
la copiosa documentazione relativa al Circolo Rosa Luxemburg,
alla Lega Operai Studenti, al Comitato d'azione di Lettere e,
appunto, a Ludd con i vari bollettini. Il secondo sarà
interamente dedicato al Comontismo coprendo il successivo quadriennio.
Il terzo, infine, raccoglierà i documenti relativi a
Puzz, Insurrezione, Azione Rivoluzionaria e altri sul periodo
che va dal 1975 fino ai primi anni Ottanta.
Mettendosi nei panni dell'editore, sappiamo che la riproduzione
integrale di fonti in cartaceo e in quantità così
industriale comporta soddisfazioni ma anche enormi sacrifici.
Poi c'è sempre il fisiologico rischio dell'incompletezza
e della dimenticanza. Per questo, “per chi non si accontenta”,
c'è la possibilità di usufruire del sito www.criticaradicale.nautilus-autoproduzioni.org
dove verranno digitalizzati i documenti non pubblicati nei volumi.
Ed è anche un modo per sopperire alla mancanza di indici
di nomi, luoghi e soggetti notevoli che purtroppo non sono stati
approntati.
Un libro non è mai un prodotto asettico, neutrale e a
sé stante, esso è piuttosto la risultante di idee
e miti che hanno circolato insieme a donne e uomini, di progetti
individuali e collettivi a lungo accarezzati, di situazioni
ambientali e antropologico culturali favorevoli o particolari,
di reti sociali di conoscenza che spesso hanno avuto una vastità
concentrica inimmaginabile, che vanno ben oltre i rapporti interpersonali
sedimentati nel tempo. Per avere – nel nostro caso –
almeno un'idea di tutto questo e per capire l'esprit, oltre
a leggere e soprattutto “compulsare” il volume di
cui stiamo ora scrivendo, oltre ad acquisire / aggiornare tramite
web le normali info sull'editore e sulla produzione pregressa
degli autori (tutti ineccepibili peraltro), suggeriamo ai lettori
un inusuale “gioco” d'indagine conoscitiva.
Prendete i due elenchi che si trovano nelle prime pagine e studiateli,
uno è relativo ai ringraziamenti (con una lista di una
quindicina di nominativi, si va dai Clash a Joe Fallisi), l'altro
riguarda la memoria di personaggi che ormai hanno concluso il
loro viaggio e che hanno attraversato – certo con soggettiva
determinazione – quegli anni così turbolenti, “tessere
del dominio lasciate capovolte, quasi aspettassero ancora d'essere
giocate”: Giorgio Cesarano, Eddie Ginosa, Mario Moro,
Mario Perniola, Americo Sbardella, Carlo Ventura, Riccardo d'Este,
Amerigo Ghigo Alberani, Gianfranco Faina, Giovanni Calamari.
Tutti con una biografia militante parecchio originale e, in
qualche caso, quasi da fiction.
Giorgio Sacchetti
Messina/
Se centro e periferia non si incontrano mai
Crescere nell'assurdo. Uno sguardo dallo Stretto (a
cura di Lorenzo Donati e Rossella Mazzaglia, Accademia university
press, Torino 2018, pp. 150, € 17,00) contiene resoconti
di autori diversi su Messina, “passeggiata” dal
centro alle periferie e indagata da artisti, studiosi e studenti,
alla ricerca della città perduta.
Perché
si legge in diversi saggi del volume, Messina, la sua identità
(in primis urbanistica, ma anche sociale e culturale)
sembra averla persa da oltre un secolo, dal terremoto del 1909
che rase al suolo la città, imponendo una ricostruzione
post-terremoto, che le élite cittadine (sul modello delle
grandi città europee) pensarono dovesse privilegiare
il centro, dotandolo di ampi viali e spazi commerciali, di uffici
e residenze “borghesi”, trascurando la sua vocazione
marittima e lasciando nell'abbandono le periferie.
Lo squilibrio tra centro e periferia, ha prodotto ovviamente
disparità sociali e umane, conflittualità e disagio,
modelli di vita e culture diverse: rintracciare forme e contenuti
delle diverse vicende e delle contraddizioni che hanno segnato
la storia di Messina e che caratterizzano il suo presente, facendone
prendere consapevolezza soprattutto agli studenti, è
stato il fine e il senso del progetto “Crescere nell'assurdo”
che nel corso del 2016 ha attivato una nutrita schiera di docenti
universitari, scrittori e creativi, ispirati dall'attualità
delle analisi di Paul Goldamm che vedeva la gioventù
degli anni '60 “crescere” appunto “nell'assurdo”,
in un mondo conformista e consumista che tendeva ad ingabbiare
la loro vita “preparandoli” ad un futuro di perenni
e acritici produttori-consumatori.
Il volume è quindi la trascrizione degli esiti, delle
risultanze analitiche e soprattutto delle esperienze di un progetto-azione
laboratoriale di rivisitazione della città, che ha coinvolto
istituzioni pubbliche (dipartimenti universitari, scuole superiori
della città, etc.), sociologi e circoli cittadini, quindi
“specialisti” e studenti, proposto e animato da
diverse realtà teatrali messinesi (il Teatro dei Naviganti,
il regista Pippo Venuti, etc.), che hanno raccontato/interpretato
con coinvolgenti e partecipate performance narrative luoghi,
segni, storie, mostrando – tra l'altro – le visibili
fratture tra le attrattive del centro, moderno non-luogo del
consumo, e i disservizi e le precarietà della periferia,
dove la rivolta per la riqualificazione – ancorché
politica – è da tempo culturale ed estetica e la
si scorge, per esempio, in quel che resta dell'opera di un singolare
e irregolare ex-emigrante, il cavaliere Cammarata (che a partire
dalla sua umilissima abitazione diede vita ad un ampio museo
di statue e disegni ispirati ai personaggi di fiabe e cartoon
e frutto del suo autodidattico genio creativo) e nei colorati
segni e nei temi sociali, nelle istanze utopiche dei murales
della street-art che dalle baracche (ancora esistenti) e dall'estremo
degrado periferico giungono, dissonanti e provocatori, sino
ai quartieri eleganti di un centro-città commerciale
e perbenista, indifferente e muto sulla città estrema
ed emarginata.
Silvestro Livolsi
Psichiatria/
I demoni del Mezzogiorno
“Vincenzo V., un anziano di 77 anni, che non ebbe
istruzione alcuna, è fatto internare dal sindaco
di Zambrone solo perché probabilmente affetto da demenza
senile e da alcuni mesi vaga di paese in paese. È
descritto come un buon uomo sempre di buon umore, ha
premura per gli altri infermi che chiama figli o fratelli e
si interessa della loro salute. A volte sragiona e crede di
essere un generale della marina militare, ma ha buone maniere
e di tanto in tanto si lamenta di essere internato in manicomio
e si sente abbandonato da tutti.
Per
questo povero vecchio, innocuo e non più lucido, non
è prevista alcuna cura e al suo caso non è adibito
alcun medico; mestamente si attende la sua ora che, inesorabile,
giunge l'anno seguente.”
Oscar Greco, nel suo I demoni del mezzogiorno. Follia, pregiudizio
e marginalità nel manicomio di Girifalco (Rubbettino,
Soveria Mannelli - Cz, 2018, pp. 256, € 18,00) ripercorre
la storia della psichiatria italiana ante-Basaglia, descrive
ciò che è stato prima della messa fuori legge
dei manicomi con la legge 180. In questo senso rappresenta un'occasione
di riflessione, di ripensamento, ma soprattutto un monito che
ci ricorda, ancora oggi, a quarant'anni dalla cosiddetta legge
Basaglia, che dobbiamo sempre aver cura di guardarci dal “fascino
discreto del manicomio”, perché è un fascino
perverso, ancora oggi capace, come ieri, di cancellare l'umano.
Perché nasce il manicomio di Girifalco? E quando?
Inizialmente progettato come manicomio rurale, l'istituto manicomiale
di Girifalco, tra i pochi manicomi meridionali, nacque nel 1881
e “rappresentò una delle tante nuove istituzioni
pubbliche per fare gli Italiani, ovvero per creare un
modello di cittadinanza fondato sui valori borghesi del XIX
secolo: istruzione, occupazione, moderazione sessuale e buona
salute.”
Nell'introduzione, l'autore rende noto che l'espansione manicomiale
in Italia comincia dopo l'Unità e trova il suo apice
con la formazione della Nazione: l'Italia costituisce la sua
identità nazionale e contestualmente elimina le contraddizioni,
rinchiudendole nei manicomi. Secondo il principio d'identità,
ogni cosa è uguale a se stessa: se gli Italiani dovevano
essere in buona salute non potevano certo essere anche malati
di mente.
Come si viveva in manicomio? Perché si veniva condannati
all'internamento?
Greco dà una risposta molto precisa. Il suo libro è
una fotografia dell'istituzione totale manicomiale, tra la fine
dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, nel sud
dell'Italia.
Tuttavia compie uno sforzo ulteriore: l'isolamento manicomiale
– ricordiamo che è questo il paradigma fondante
del manicomio: il manicomio è terapeutico, stabilisce
il filantropo e rivoluzionario francese Pinel che del manicomio
è l'inventore, per la sua triplice valenza di reclusione,
isolamento e dominio – lo inserisce all'interno del più
ampio contesto socio-culturale dell'epoca.
Cosa si intendeva per malattia mentale? Come era pensata la
cura? Cosa significava “mettere in sicurezza” il
malato e la comunità?
La malattia mentale era vista come una degenerazione, come il
tramandarsi di “tare ereditarie” che lasciavano
il loro segno nel corpo del malato, e a cui era associata la
pericolosità sociale e la devianza criminale –
qui c'è la mai abbastanza rinnegata perniciosa lezione
di quel bizzarro eppure clamorosamente famoso neuropsichiatra
fine ottocentesco Cesare Lombroso, il cui pensiero ciclicamente
ritorna, ancora adesso il ministro degli interni Salvini (forse
senza neppure conoscerlo) lo evoca, per “mettere in sicurezza”
matti, rom, migranti e altri devianti - la malattia mentale
era un morbo insidioso che andava debellato principalmente attraverso
l'internamento, la segregazione, la deportazione, la messa a
parte, l'esclusione dal consesso sociale di coloro che ne erano
affetti.
L'origine della malattia era considerata ereditaria, intrinseca
all'individuo e alla sua storia famigliare. Non vi era alcuna
attenzione per le condizioni di vita o per gli eventi traumatici.
Perfino dinnanzi a orde di soldati traumatizzati dagli orrori
della guerra, la psichiatria italiana del tempo si ostina a
ricercare segni corporei e tracce ereditarie per spiegare l'esordio
della malattia: “Le eredità lombrosiane e le tradizionali
pratiche della psichiatria organicista non erano artefatti da
poter essere repentinamente posti in discussione.”
Emerge l'immagine di una psichiatria cieca, arroccata rigidamente
sulle sue categorie nosografiche e fortemente impegnata ad aderire
al mandato sociale che gli veniva affidato: contenere coloro
che destavano pubblico scandalo, smascherare i simulatori –
quei soldati che “facevano i matti” per non tornare
al fronte – e rimandare il prima possibile i combattenti
in guerra.
Interessante, da questo punto di vista, la stretta collaborazione
dei medici del manicomio di Girifalco con le forze dell'ordine
locali: “Le notizie richieste ai carabinieri del comune
di origine del militare diventano decisive per la formulazione
della diagnosi e per lo smascheramento della simulazione.”
Un esercito di tecnici che non si interrogavano né sugli
strumenti né sulle modalità di cura.
Una scienza reazionaria al servizio dell'ordine sociale.
Risulta allora paradossale il caso di un giovane soldato di
ventidue anni che, nonostante fosse affetto da un “trauma
da guerra”, desiderava “rientrare al più
presto al corpo d'armata” perché non poteva sopportare
“l'onta e la vergogna di essere un malato di mente agli
occhi dei parenti e della comunità di appartenenza.”
Il giovane Nicola viene dimesso dal manicomio di Girifalco nell'agosto
del 1917. Nella sua cartella clinica viene ritrovata una lettera
del direttore Bernardo Frisco, dove spiccano i seguenti consigli
terapeutici: “È opportuno non contrarre matrimonio,
perché in questo momento vi potrebbe nuocere in modo
sicuro.”
I tarati, i mentecatti, per il bene della società, era
meglio non si riproducessero. Anche a questo serviva l'internamento,
a favorire la “rigenerazione della società.”
Se pensiamo all'ideologia eugenetica nazista, alla deportazione
e all'estinzione dei matti insieme ad altri inadatti, l'ideologia
manicomiale italiana e dell'intero pianeta nel corso di due
secoli, con la deportazione che determina nient'altro che una
eutanasia sociale, non è molto diversa.
Greco ricostruisce e ripercorre, attraverso le cartelle cliniche,
le storie di vita dei “detriti umani” internati
a Girifalco. Emerge un tratto comune: la miseria.
D'altra parte, Basaglia questo constatò nel suo ingresso
nel manicomio goriziano: chi non ha non è. In manicomio
trovano internamento e trova la sua sparizione la miseria, i
miserabili, i dannati della terra, i vomitati dalla società.
Oltre a citare sovente il motto chi non ha non è,
Basaglia era solito citare quest'altro motto: nel sud Italia,
quando moriva un povero, alla domanda Cu muriu? (Chi
è morto?) si rispondeva: nisciunu (nessuno). Un
povero non è. Numerose, in questo libro, le storie di
démoni, istituzionalizzati perché senza risorse,
economiche o relazionali – come se l'essere poveri fosse
una colpa da espiare: “Dalla storia di questi internati
emerge con chiarezza che l'internamento nei confronti della
follia povera non era finalizzato alla cura e alla riabilitazione,
quanto piuttosto alla reclusione.”
Altro esempio è la storia di Vito, uomo di mezza età,
internato con diagnosi di “demenza profonda”. Vito
era un uomo tranquillo, innocuo, che però aveva l'abitudine
di leccare le pareti, i pavimenti e di ricoprirsi di sporcizia.
Nella sua cartella clinica non si fa alcun riferimento alla
cura: “È pensabile che, quando il malato non presentava
atteggiamenti violenti o clamorosi (tali da richiedere l'uso
del chinino, del bromuro o della morfina) non gli si prestava
alcuna terapia, anche perché lo staff medico non conosceva
rimedi diversi dai sedativi.” Vito passerà circa
vent'anni della sua vita recluso in manicomio, dove morirà
nel 1907.
Dovremo aspettare il 1979 per avere un'immagine diversa della
miseria, del malato, della cura ed è quella che Franco
Basaglia ci regala nelle Conferenze brasiliane:
“Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla
povertà dell'internato, questi cambiava posizione totalmente,
diventava non più un folle ma un uomo con il quale potevamo
entrare in relazione. Avevamo già capito che un malato
ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia
ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi
lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha
bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di
cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno.”
Allora, se giustificare è impossibile, Greco riesce a
farci comprendere quale fosse l'idea di cura della malattia
mentale prima di Basaglia.
Elisa Mauri
Piero Cipriano
Ricordando Antonio Infantino/
Un uomo di cultura e il film a lui dedicato
Per Vinicio Capossela, Antonio Infantino è stato un
artista dalle mille anime, “un convertitore di energie
che trasformava i suoi concerti in rituali collettivi”.
Fernanda Pivano lo considerava uno dei nostri migliori rappresentanti
della cultura e dello spettacolo negli ultimi cinquant'anni.
Dario Fo e Franca Rame, con cui aveva lavorato nel 1969 per
la curatela delle musiche dello spettacolo “Ci ragiono
e canto”, gli portavano una stima sconfinata. Invece a
Fabrizio De Andrè piaceva ricordare di quando negli anni
sessanta nelle case discografiche milanesi metteva piede l'artista
lucano e tutti gli riconoscevano, nonostante la giovane età,
un talento fuori dal normale.
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Antonio Infantino
(Di Antonio Infantino - Opera propria, CC BY-SA 3.0,
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22276495) |
Difficile trovare un aggettivo per tutti ed incollarlo su
Infantino che può passare di certo per un irregolare,
una figura sciamanica, un beat, un genio, un pitagorico di Tricarico
(la città del poeta Rocco Scotellaro) che “ha saputo
mettere in ritmo e parole un'idea forte di liberazione, tribalizzazione”.
Fondatore dello storico gruppo dei “Tarantolati di Tricarico”
con una sola nota, battuta insistentemente sulle corde della
chitarra ed accompagnata dalle percussioni dei cuppa-cuppa,
poteva far scoppiare la tempesta, anzi l'energia della tarantola
come diceva lui stesso. Si incupiva quando lo accostavano ad
un musicista delle tradizioni popolari del Sud, anche se poi
è vero che della tradizione ha studiato gli aspetti sociali,
ne ha assunto i moduli sonori per trasformarli in dettami avanguardistici.
Antonio Infantino è scomparso lo scorso gennaio a Firenze,
aveva 74 anni e solo alcuni mesi prima era riuscito a portare
a termine le riprese di “The Fabulous Trickster”.
Docu-film diretto dal compositore jazz Luigi Cinquere su un
viaggio che inizia da quello scrigno di memoria che era per
Infantino la sua abitazione nel capoluogo toscano in via Santa
Reparata, prosegue per Roma dove si aggrega una giovane giornalista
(e un corvo parlante che fa ricordare quello nel film “Uccellacci
e uccellini” di Pasolini), quindi approdo in Lucania,
a Tricarico dove l'artista, pedinato strettamente dalla videocamera
di Cinquere, evoca la sua infanzia, gli studi in architettura,
il lavoro in Brasile, la nascita dei Tarantolati agli inizi
degli anni settanta, la sua musica antica e modernissima (che
quando andava bollendo di sonorità sembrava che dalla
terra si svegliassero delle forze magiche e misteriose, per
non dire poi dell'effetto euforico ed adrenalinico che riusciva
ad espandere nel pubblico il quale prendeva a ballare in un
movimento di libertà estrema.)
Come la “Tarantola” che è una movenza circolare
che torna ad un punto di partenza, così anche il viaggio
di Cinquere si chiude pressappoco laddove era iniziato: in Toscana.
Siamo per l'esattezza alle pendici dell'Amiata, nelle acque
del fiume Albegna, qui il regista, Infantino e la giovane cronista
(Monica Berardinelli) si immergono per un bagno di purificazione,
quasi a voler scacciare via dai loro corpi le forze negative.
Un rito dal forte effetto filmico, catartico, liberatorio come
è stata tutta l'arte del guru Infantino che, accendendo
il caos delle sue sferraglianti chitarrate su una sola nota,
ha saputo far ballare, scatenare emozioni, rievocare lontani
rituali e liturgie pagane.
“The Fabulous Trickster” non è solo un bel
film su un artista rivoluzionario, ma il miglior ritratto che
si potesse realizzare su Antonio Infantino.
Mimmo Mastrangelo
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